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“I figli di Filomena” di Pasquale De Luca.

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Relazione del dott. Gaetano Antonio Bursese, presidente Seconda Sezione Civile Suprema Corte di Cassazione.
Recenzione de lucaCari Amici, come forse saprete, collaboro con l’amico Pasquale De Luca ormai da oltre un decennio, nella collaudata manifestazione culturale da lui fondata ed egregiamente condotta, il Concorso Internazionale di Poesia “Tropea: Onde Mediterranee”. Pasquale ha voluto che io mi occupassi della Commissione esaminatrice del concorso, nonostante la mia estrazione culturale - quella delle scienze giuridiche e sociali - non fosse propriamente letteraria; ma forse proprio per questo, la mia professione, svolta per un così lungo arco di anni, mi ha portato a conoscere, valutare ed apprezzare una vasta gamma di valori umani, civili e sociali, nella loro effettiva concretezza e realtà, che sono certamente alla base della nostra comunità e della sua cultura, fino a comprendere anche quelle espressioni più propriamente artistiche o estetiche che dir si voglia, che nascono o prendono spunto in vario modo, proprio da quella dolente umanità che scaturisce dalla vita concreta di tutti i giorni.
Ho così potuto conoscere, in tali circostanze, Pasquale De Luca, la sua forte personalità, la sua grande sensibilità sia umana che artistica, ed il suo carattere aperto e ben disposto verso tutti, dove amabilità, lealtà e rigore coesistono con quei valori morali di cui egli è profondamente impregnato.
Ciò premesso, devo aggiungere che nel corso di questi anni, Pasquale mi è apparso prevalentemente come un poeta, un aedo del nostro tempo, i cui versi sono soffusi sovente da una vena malinconica, talora sottile ma sempre seducente, destinata a far breccia in ogni animo sensibile ed aperto all’esperienza estetica, all’emozione lirica e comunque al mondo dei sentimenti.
In questi ultimi anni, però, Pasquale si è voluto felicemente cimentare anche nella narrativa, presentandosi al pubblico con due romanzi: “La terra di Filomena” prima e “I figli di Filomena”, successivamente. A mio avviso, però, il narratore Pasquale De Luca non per questo ha cessato di essere il poeta che conoscevo, atteso che un’aura poetica, più o meno sottile, avvolge costantemente i suoi personaggi principali, i protagonisti delle vicende narrate, che appaiono profondamente veri nella loro sofferta umanità. Non per caso “La terra di Filomena” è stata felicemente definita dalla critica come “una prosa lirica, che il lettore gusta man mano che con avidità si nutre delle sue pagine”.
Si è discusso a proposito di questo primo fortunato romanzo, se si dovesse qualificarlo o meno come romanzo storico. La stessa questione si pone ora per “I figli di Filomena”: nell’uno e nell’altro caso la risposta a mio avviso è la medesima, perché, il racconto si articola e si snoda nel più ampio contesto di eventi storici effettivamente avvenuti che hanno interessato in modo specifico la piccola città di Tropea. Lo stesso autore ci dice, infatti, che la storia, nel suo nuovo romanzo – a differenza del primo, in cui predominava sulle vicende narrate - funge solo da scenario in cui muovono i passi i suoi protagonisti. Fatto sta che, Pasquale, segue l’indicazione di cui con alla nota affermazione di Giuseppe Verdi a proposito dell’arte musicale, valida però anche per le altre espressioni artistiche: “imitare il vero può essere cosa buona, ma è molto meglio inventare il vero” (perdonatemi la citazione , sono un appassionato fedele del Maestro); egli ha saputo infatti non tanto imitare, quanto inventare e ricreare il vero e presentare ai lettori una sua, anzi la sua verità storica, filtrata attraverso i suoi ricordi e la sua sensibilità di artista, nell’ambito della quale ha poi magistralmente collocato i suoi personaggi, che, dunque, si muovono ed agiscono con assoluta naturalezza e verità in questo loro mondo virtuale e seducente. Il contesto storico, in cui essi sono collocati, è, infatti, quello compreso fra due decenni, cioè fra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in un tempo turbolento ed in pieno movimento, pregno di grandi problematiche sociali, civili, etiche, religiose, e di grandi bisogni ma anche di grandi speranze ed attese.
Romanzo storico dunque, ma con un’accezione particolare del termine: si è detto da alcuni critici come il De Luca abbia assorbito la lezione dei grandi narratori “ricreando in piena armonia e consapevolezza la poetica del vero”, citandosi al riguardo autori come il Manzoni o il Verga, ovvero il Vittorini. In realtà l’arte di Pasquale, quale risulta dai suoi scritti ha un suo peculiare volto, con caratteristiche affatto specifiche ed originali.
Per certi aspetti, trovo delle notevoli affinità tra il nostro e Corrado Alvaro, il maggiore scrittore calabrese del secolo passato, per lo meno se penso ad alcune opere di quest’ultimo (come: Gente in Aspromonte), in cui lo scrittore fa rivivere la nostalgia e la memoria di un mondo arcaico ormai perduto, di questa antica terra di Calabria, descritta sempre con toni ora lirici ed ora epici, con le sue antiche tradizioni, i suoi miti ancestrali ed in genere con tutti quegli accadimenti e quei fatti che ne hanno caratterizzato la storia, sia nel bene come nel male. La poetica di De Luca presenta però un’ulteriore particolare valenza, che nettamente la distingue da quella di quel grande scrittore: si percepisce chiaramente nel Nostro una connotazione di positività e di speranza verso il futuro che anima i protagonisti, malgrado le sofferenze, le difficoltà e talora le tragedie che si abbattono su di loro; essi sono, ciononostante, fiduciosi e lottano credendo in un migliore avvenire (poi puntualmente avverato), che consisteva in definitiva nell’avvento di una società migliore, più giusta e progredita, senza privilegi e senza ineguaglianze sociali. I figli di Filomena, infatti, pur provenendo da quel mondo contadino povero e sofferente, arcaico ed immutabile nella sua staticità, si riescono poi ad elevare socialmente, fino a diventare Lucia maestra e Luca avvocato, sia pure mercé i grandi sacrifici della loro umile ma forte madre.
A questo riguardo voglio sottolineare un cosa, e cioè la vastità d’interessi della narrativa di Pasquale De Luca, che, in definitiva, riguarda e coinvolge la sua terra di Calabria, in cui vivono ed operano tutti i suoi personaggi. I libri di Pasquale non si limitano, insomma – come accade per gran parte dei libri prodotti in questa regione – a raccontare e parlare soltanto di mafia o ‘ndrangheta ovvero di accadimenti che ad essa si ricollegano, quasi che in Calabria non vi sia altro interesse oltre il fattore delinquenziale. È questo, purtroppo, una sorta di collaudato cliché, basato prevalentemente su comodi ed assurdi stereotipi, per cui della Calabria si deve parlare sempre male a prescindere, ed essa va dipinta comunque e sempre a fosche tinte, anche se si producono fatti indubbiamente positivi, per lo più ignorati o sottovalutati da tali divulgatori, per i quali la Calabria interesserebbe al lettore solo e soltanto per tali aspetti truci e non commendevoli. Ciò costituisce – lasciatemelo dire – molte volte, non manifestazione di coraggio o impegno civile, ma il più delle volte mero, mediocre provincialismo, dovuto in gran parte – spiace dirlo – anche a quel giornalismo locale e non, talora superficiale e pressappochista, oltre che ad una sorta di malvezzo per l’autodenigrazione che affligge buona parte della stessa intellettualità calabrese, se non proprio molti calabresi, in generale.
Costoro, infatti, provano quasi gioia quando possono divulgare un accadimento spiacevole - che spesso enfatizzano - che riguarda la loro terra, mentre trascurano del tutto o sottovalutano quei fatti positivi, che sono tanti e di grande rilievo, e che, purtroppo, restano sconosciuti ai forestieri. Insomma, si direbbe che per costoro, “l’amor, ovvero la carità di patria” che talora porta a salvarne e comunque non infangarne l’immagine, non funziona proprio, ed essi contribuiscono così a costruire, rinverdire o rafforzare quei pregiudizi di cui purtroppo la nostra terra è ingiustamente fatta segno da troppo, lungo tempo!
Questa mia idea – che a qualcuno potrebbe sembrare peregrina - in realtà è condivisa anche da molti altri autori e studiosi del fenomeno (v. libro “Calabria positiva” di S. Ciccarelli).
In realtà anche in questa terra di Calabria – così piena di calore, di luce, di amicizia e di umana solidarietà - vi sono molte cose positive e interessanti che fanno sperare in un futuro migliore e che non sfuggono al nostro Autore nei suoi romanzi, dove pure indica ed evidenzia i mali, le difficoltà ed i problemi che hanno afflitto e talora continuano ad affliggere questa nostra cara terra, in cui tragedia e commedia spesso sono presenti, convivono e si confondono sullo stesso palcoscenico.
A questo proposito mi piace sottolineare un’altra particolarità dello stile del Nostro, cioè quel filone d’ironia che spesso s’insinua, o affiora, nei fatti talora anche drammatici che racconta, e che per ciò stesso si colorano di un afflato di umanità e di verità, che non può non coinvolgere il lettore. Ironia che talora si percepisce chiaramente il alcuni episodi, ma anche nello stesso stile narrativo, quando il ritmo del racconto si accelera e diventa incalzante, ovvero spesso con la ripetizione di alcune parole o frasi (anafore). Pasquale, insomma, riesce ad imprimere alla vicenda un ritmo narrativo che finisce per colpire e coinvolgere il lettore fino a farlo diretto partecipe dell’accadimento narrato. In altri termini, il lettore del romanzo di Pasquale – mi si perdoni la banalità – certamente non rimane inerte e non si annoia, nella lettura del libro, perché rimane costantemente desto il suo interesse e si ritrova talvolta in un certo qual modo accanto ai figli di Filomena, Luca e Lucia ed al loro amico Cono, che lottano e si agitano, magari, nell’ambito delle manifestazioni studentesche del 1968.
Termino porgendo a Pasquale De Luca i miei più sentiti complimenti per la nuova sua creatura artistica, a cui auguro il più ampio successo, come merita e come senz’altro accadrà.
Ringrazio e saluto tutti voi presenti.

Caria di Drapia, 12 settembre 2015

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