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Il cruciverba in serrese

Gioacchino Giancotti
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assunta bertucci art dicembre 23
SOLLECITATI A SCRIVERE
- Da un interessante articolo della giornalista Francesca Onda, pubblicato sulla Gazzetta del Sud nell’estate scorsa, abbiamo appreso per la prima volta le angherie che sta subendo Assunta Bertucci, come lavoratrice e come donna, da parte di alcuni soggetti del Comune di Simbario; si aggiunga che successivamente il 19 agosto, durante la nona edizione dell’evento “Premio Bravura” (premiati dalla nostra rivista i migliori allievi dell’Istituto Einaudi), dopo che uno studente parlò in generale degli atti persecutori subiti dalle donne italiane, proprio Assunta spontaneamente chiese la parola e coraggiosamente espose la sua condizione di disagio sul posto di lavoro, ergendosi umilmente a bandiera delle donne oppresse nel nostro comprensorio, dove l’omertà ancora regna sovrana. Questo intervento non programmato, colpì la suscettibilità di alcune persone presenti che fin da allora sollecitarono la pubblicazione di questo articolo a tutela delle donne, rivolto a sensibilizzare l’opinione pubblica, le Autorità preposte e le associazioni serie. Così decidemmo di farlo con un breve articolo di taglio giornalistico non prima di aver eseguito un’accurata indagine di conforto e di confronto di quanto scritto, senza voler straripare nel lavoro professionale degli avvocati che difendono la nostra protagonista né voler interferire nell’attività delle Forze dell’Ordine che seguono con cospetto tale vicenda.

LA PRESUNTA VITTIMA CI DISSE: IL KARMA RESTITUISCE IL MALE FATTO - Per quanto detto in premessa abbiamo organizzato un incontro con la protagonista per saperne di più. Lei proviene da una situazione familiare triste e sfortunata, anche per la morte prematura del padre a soli 35 anni: da ciò deriva il suo carattere temprato e collaudato verso la sofferenza umana. Vive il suo futuro riscatto riflesso verso i suoi tre figli. In Lei vi è una mistura ben amalgamata di furbizia e ingenuità, tipica delle donne intelligenti. Davanti ad alcune delle nostre domande, Assunta inizia a parlare ed anche bene, come un torrente in piena e noi facciamo fatica ad arginare la sua irruenza, cercando di sintetizzare quanto afferma, dando ordine alla conversazione e consigliando una discreta prudenza alle sue incisive allocuzioni. Le domandiamo da quando e perchè sono iniziati questi atti persecutori e chi sono le persone. “Sono iniziate da quando è subentrata l’attuale amministrazione; con quella vecchia mi trovavo a mio agio, essendo l’ex Sindaco dott. Andreacchi una persona perbene e un uomo di cultura; sono iniziate perché mi sono permessa di ribellarmi alle ingiustizie e alle disparità di trattamento. Ecco perché le colleghe mi perseguitano, prendendomi in giro, mandandomi delle imprecazioni e facendomi “pernacchie!”. I responsabili del “Palazzo di Città” non intervengono per evitare liti e contese fra di voi? “Non solo non intervengono ma in alcune occasioni hanno alimentato i litigi ( trattasi di Mario Randò e la segreteria Pastore); anzi quest’ultima in una riunione fra dipendenti mi impose di stare zitta e mi chiamò con ironia “dottoressa umiliandomi davanti a tutti”. Nel rispetto dell’inchiesta in corso, chi sono gli altri persecutori? Il discorso e lungo ma qualcosa voglio dire…esempio l’ex assessore Giuseppe Primerano mi fece degli apprezzamenti a sfondo sessuale, denunciati regolarmente ai Carabinieri. E poi Giuseppe Romano mi cacciò dal Comune mentre pioveva, nonostante il vigile urbano Salvatore De Fazio prese le mie difese, anzi lo stesso G. Romano, mi intimò di scordarmi la porta del Comune. Sempre quest’ultimo mi minacciò più volte e ultimamente mi aggredì davanti all’arch. Giuseppe Iennarella che mi salvò dal subire eventuali lesioni (denuncia inoltrata pure alle Forze dell’Ordine). Il collega Nicola Servello molte volte quando mi vede sputa per terra in segno di disprezzo. L’altra collega Gina Tassone proprio in data 11 dicembre, durante le ore lavorative allorquando ci siamo incrociate, ha dato un calcio alla scatola di cartone dove avevo riposto un po’ di spazzatura!”. Altro che puoi dire! “Ho subito tre diffide con l’intento dei responsabili di farmi perdere il posto di lavoro. Sono accuse infondate dove la Pastore, segreteria comunale, cita molte leggi ma poi la sostanza è molto scarsa ed infondata . In una di esse si è giunti al grottesco e al ridicolo, affermando che guardavo qualcuno dei colleghi e lo facevo “con occhi di gatto selvatico!. L’avv. Fortunato Scopacasa, mi intimò in modo categorico di dare le dimissioni dal mio posto di lavoro, altrimenti avrebbe provveduto a licenziarmi la Pastore che lo aveva incaricato a riferirmi quanto detto! Comunque i miei avvocati hanno provveduto ad azionare le mie difese. Altro? Ultimamente mi hanno sospeso per 10 giorni facendomi perdere la somma di euro 400 per indurmi ad abiurare le mie idee di ribellione di donna che subisce continuamente. Non hanno avuto alcun scrupolo a farlo e né hanno avuto alcuna remora morale! Per questo sono stata ricoverata al pronto soccorso e non è la prima volta che sto male per loro. Concludo dicendo che il Karma, o prima o dopo, restituisce in altre forme il male che gli esseri umani fanno alle persone innocenti”.

UN’AMBIENTE OSTILE QUELLO DELLA LAVORATRICE - Attraverso un discorso deduttivo, derivante da quanto ci disse la presunta denunciante, da quanto abbiamo potuto leggere nei documenti preesistenti e da quanto abbiamo potuto involare dalle sincere dicerie di paese, possiamo concludere che intorno alla coraggiosa figura della mobbizzata, si respira un’atmosfera pesante, costituita precipuamente da una ambiente ostile sul posto di lavoro: sguardi minacciosi, imprecazioni sottovoce, gravi omissioni da parte dei dirigenti, di cui alcuni sfociano in atti penalmente rilevanti, ma soprattutto azioni che sfuggono alle sanzioni del codice, ma non a quello della buona educazione che regola invero i corretti comportamenti di relazione fra esseri umani; atteggiamenti tutti diretti ad intaccare la sfera esistenziale di essa soggetto passivo, porla in uno stato di prostrazione ed in un isolamento dolosamente provocato. I PRESUNTI soggetti persecutori (se possiedono davvero questa qualità negativa) devono in qualche modo giustificare il loro anomalo operato e allorquando si andranno a difendere nelle sedi designate, come fanno tanti altri nelle loro medesime condizioni, affermeranno in maniera ovvia e risaputa, che LEI si atteggia a vittima, che trattasi di persona fissata, esaurita con la mania di persecuzione. Ma i fatti, i documenti e la Legge probabilmente gli daranno torto, soprattutto dopo dettagliate indagini ed un equo giudizio che dimostri che in questa vicenda, azioni e persone sono presumibilmente legati da un nesso e da un filo rosso che nell’insieme causano un effetto esiziale e deflagrante a danno della vittima.

IL MOBBING E IL RISARCIMENTO DEI DANNI – Ma cos’è il MOBBING, termine inglese entrato prepotentemente nel vocabolario italiano? Esso si compone in “una pluralità di vessazioni e violenze materiali e psichiche; la protrazione nel tempo della condotta immorale e antigiuridica e la volontà di ledere il lavoratore, conditi da provvedimenti disciplinari ingiusti, continui rimproveri, molestie sessuali ed emarginazione del lavoratore. Il mobbing consiste altresì in una serie di comportamenti posti in essere dal datore di lavoro o collega di lavoro sul quale il Responsabile di quel settore, sia esso politico (es. il Sindaco) o tecnico (Capo del settore) o amministrativo (Il Segretario) avevano ed hanno L’OBBLIGO DI VIGILANZA ed hanno OMESSO di farlo!”. Scatta così il secondo effetto della grave omissione, che è quella del risarcimento dei danni nei confronti della presunta vittima, dopo la pronuncia del Giudice che rappresenta la LEGGE. Donne, invece di festeggiare l’8 marzo di ogni anno con una semplice cena, impegnatevi tutelando Voi stesse, denunciando i Vs carnefici ogni giorno dell’anno e così facendo non sarete mai sole! Di questa squallida contesa si interesserà probabilmente la stampa e la TV nazionali.

Fidanzamenti del passato
"Fijjia 'nta fascia e dota 'nta cascia". (Figlia in fascia e dote nella cassapanca)
Questo vecchio proverbio calabrese indica bene che molti anni fa, avere una figlia femmina in casa, era sì una gioia, ma anche un pensiero in più perchè si doveva pensare per tempo alla dote e quindi al matrimonio.
Le figlie erano una manna dal cielo per aiutare in casa quando le madri lavoravano fuori nei campi o presso i nobili, ma allo stesso tempo si sperava per loro in una buona sorte, cioè trovare un buon marito ed accasarsi al più presto piuttosto che ritrovarsele zitelle per casa.

Fin da piccole venivano indirizzate ai lavori domestici per non sfigurare un giorno col marito, ma soprattutto con la futura suocera, mentre nei ritagli di tempo libero si adoperavano a ricamare il proprio corredo o a cucirsi qualche vestito dalla sarta (majistra), dove di solito passavano i pomeriggi estivi ad imparare a cucire, tagliare, ricamare e rammendare. Molte di loro diventavano delle vere sarte (majistri i tajjiu) e sfruttavano quest'esperienza come lavoro in paese.
Una figlia era un piacere per gli occhi dei padri, ma anche un cruccio insistente a cercare di tenerla sulla dritta via per non dare adito alle malelingue e peggio ancora, diventare oggetto di chiacchiere infamanti (malanominata), per non rovinare il buon esito di un eventuale fidanzamento.
Ogni paese, ogni zona aveva le sue usanze e tradizioni consolidate negli anni, per qualsiasi cosa.
Per quanto riguarda il fidanzamento, era raro che i due ragazzi si conoscessero da sè, anche se spesso capitava, nei campi o per le strade, magari all'uscita dalla messa.
L'usanza più in voga, era quella di mettere in mezzo una terza persona, di solito un amico di famiglia della ragazza o una persona stimata in paese, spesso anziana e quindi più saggia.
Adocchiata la ragazza, il giovane la proponeva ai suoi genitori che se contenti della scelta del figlio, si adoperavano a mandare questa terza persona, "u 'mbasciaturi" una specie di messaggero che faceva da tramite tra le due famiglie. La madre della sposa, se la richiesta veniva da persone che a lei garbavano, spesso s'inorgogliva facendo un pò la preziosa con una specie di tira e molla per farsi pregare, ma allo stesso tempo con la malizia di non farsi scappare da sotto al naso il buon partito. Spesso, la figlia, non assisteva ai discorsi dei grandi e se non origliava, o non veniva messa al corrente dai suoi, non sapeva nemmeno che in quegli incontri si decideva il suo futuro.
Se la cosa andava in porto si stabiliva un incontro col giovane accompagnato dai genitori e lì si discuteva delle doti fisiche e morali dei due ragazzi, ma anche di quella materiale, che riguardava il corredo, la casa, se vi era la possibilità e i più fortunati anche di qualche gruzzoletto di denaro.
Se il giovane aveva un lavoro sicuro, era molto ben accetto, anche se faceva il contadino, ma un artigiano (mastru) era più favorito.
Quando tutto era deciso si stabiliva un giorno per la festa ufficiale di fidanzamento (u singu) dove il ragazzo non solo regalava l'anello, ma di solito un'intera parure con collana ed orecchini. La ragazza regalava un anello e se vi era la possibilità anche un orologio.
La festa era molto importante per le famiglie e per i ragazzi perchè il fidanzamento diventava ufficiale e quindi i due giovani potevano andare insieme a messa, mangiare insieme nelle feste comandate ecc, ma sedendo sempre a debita distanza e se dovevano uscire non erano mai da soli. Capitava infatti che avessero dietro una sorella o fratello o in mancanza qualche cugina, ma anche la madre stessa della ragazza. Questo per non essere criticati da vicini e paesani. Era molto importante la buona reputazione e la serietà almeno fino al matrimonio anche per evitare che il legame venisse sciolto per qualche ripicca dei suoceri, con grande dispiacere e vergogna per la ragazza che ne restava segnata. Un classico segno di fidanzamento si poteva notare nella ricorrenza delle Palme. I giovani fidanzati erano in dovere d regalare una bella palma intrecciata alla propria ragazza che ricambiava con una bella ciambella (curujia) dolce, con le uova intere (tiralli) fatta con le proprie mani nella settimana santa e regalata per Pasqua.
Per la festa si invitavano parenti ed amici più stretti festeggiando con "nacatuli" e rosolio fatto in casa se si faceva solo un rinfresco, se invece si poteva fare di più, si preparava un vero ed abbondante pranzo con ogni ben di Dio.
In quelle occasioni i veri protagonisti di tutto sembravano i genitori piuttosto che i ragazzi, spesso seduti vicini, ma che nemmeno si parlavano e conoscevano. Tutti facevano a gara ad elogiare le doti dei propri protetti e i ragazzi restavano chiusi ed intimoriti dai discorsi dei grandi che programmavano il loro futuro insieme, a volte senza nemmeno chiedere, soprattutto alla fidanzata, se erano o meno d'accordo a quel legame. Molti di quei matrimoni sono stati veramente felici anche se pieni di sacrifici, ma molti altri sono stati dei veri strazi e supplizi, senza alcun amore e rispetto, soprattutto perchè non ci si poteva ribellare ad un marito-padrone che accampava diritti sulla moglie e sui figli senza che questi potessero ribellarsi. Col tempo e con le dovute leggi, molte cose, per fortuna, sono cambiate, soprattutto la possibilità di potersi scegliere da sè i propri compagni di vita, senza lo zampino dei genitori despoti che spesso continuavano ad intromettersi nella vita dei propri figli anche dopo sposati.

Queste erano un pò le usanze degli anni dal dopoguerra al settanta, circa, ma mia nonna mi raccontava di altre usanze antiche che a sentirle oggi sembrano veramente strane, ma che al tempo avevano fondamentale importanza per la buona riuscita di un matrimonio. Era normale sottostare a certe tradizioni per non farsi criticare. La parola degli altri era sempre importante e tenuta da conto.
Quella che più si ricorda al mio paese e che anche mia nonna mi raccontava, era l'usanza del ceppo davanti alla porta.

Praticamente, un ragazzo adocchiava una ragazza ed allora sceglieva un bel ceppo (zzuccu) e lo portava di notte davanti all'uscio dove questa abitava. La mattina appena il padre o la madre aprivano la porta, trovavano la sorpresa e sapendo che il giovane autore del gesto era sicuramente nascosto nei paraggi, decidevano o meno se accettarlo anche perchè in realtà sapevano già chi gironzolava attorno alla figlia. Di solito la protagonista di questa scenetta era la madre che per la solita teatralità che distingueva la vita del passato, facendosi sentire dal vicinato e dall'autore nascosto, se accettava, rumorosamente e inscenando, con la famiglia, che accorreva all'evento, entrava in casa il ceppo, altrimenti, altrettanto teatralmente, se rifiutava, lo spingeva lontano da casa sua e intonava una vecchia filastrocca:

"Cui misa u zzuccu avanti a porta?
Cui u misa u pò cacciare ca non ajiu fijji i maritare!

(Chi ha messo il ceppo davanti alla mia porta?
Chi l'ha messo lo può levare che non ho figlie da sposare!)

In questo caso il giovane se ne andava mogio, mogio, magari con l'intenzione di riprovarci escogitando un altro espediente, mentre se la risposta era positiva, se ne andava allegramente e speranzoso dei futuri sviluppi che l'avrebbero visto presto in quella casa come fidanzato ufficiale della ragazza che aveva adocchiato.

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