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Mongiana e l’Italia unita

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E’ la storia di un piccolo e operoso borgo del sud depredato dal un modesto e indebitato stato del nord. Era la seconda metà del diciottesimo secolo quando i regnanti borbonici, mossi dall’intento di aumentare la produzione bellica e la propria potenza militare, incaricarono i propri tecnici, che precedentemente erano stati mandati nell’Europa del nord per acquisire nuove tecnologie per la produzione dei metalli, di costruire delle nuove Ferriere in Calabria, non più itineranti come si usava al tempo, ma in un luogo equidistante dai due mari, vicino alle miniere di Pazzano e ai fitti boschi della foresta serrese. Fu scelta Mongiana che all’epoca non esisteva per tre ragioni: la presenza di importanti corsi d’acqua  quali il torrente Ninfo e il fiume Allaro che potevano fornire energia per il movimento delle macchine ed il raffreddamento dei prodotti, i folti boschi di castagno e faggio necessari per la produzione del carbone con cui venivano nutriti i tre altiforni, e le vicine miniere di Pazzano che fornivano il materiale minerale da cui si estraeva il ferro. Nate nel 1771 sotto il regno di Ferdinando IV di Borbone, entrarono a pieno regime soltanto dieci anni dopo, le Reali Ferriere di Mongiana furono prevalentemente adibite alla produzione bellica ma anche utilizzante nel campo dell’ingegneria civile. Dai loro altiforni, infatti, uscirono i ponti sospesi di ferro sui fiumi Garigliano e Cadore (i primi nella Penisola, 1825-28), così come le rotaie della prima tratta ferroviaria italiana Napoli-Portici (1839). Se le vicende della produzione mineraria durante il periodo borbonico seguono fasi alterne, causate per lo più dalle pessime condizioni di lavoro e di sfruttamento degli operai che erano costretti ad indebitarsi per sopravvivere e che li inducevano a eseguire il lavoro con risultati qualitativamente scarsi, un periodo più florido lo si ebbe durante il decennio francese, quando con interventi legislativi mirati fu aumentata la paga, istituita l’istruzione pubblica per gli operai e per i loro figli, e resa di gran lunga più efficiente la gestione amministrativa, con la conseguenza che la produzione aumentò non soltanto dal punto di vista quantitativo ma anche da quello qualitativo. Con buona pace di chi vive di nostalgia borbonica o di sanfedismo di ritorno, bisogna immediatamente sgomberare il campo da facili illusioni che a Mongiana si vivesse in paradiso. L’assolutismo borbonico impediva anche le libertà più elementari, infatti nel XVIII sec. - quando a Mongiana gli operai venivano lasciati letteralmente morire di fame, tanto è vero che quando vi giunsero i francesi trovarono i lavoratori denutriti - nell’Inghilterra che già il secolo prima aveva avuto una rivoluzione borghese, nel 1776 nasceva il primo sindacato dei lavoratori; per averne uno in Italia ci sarebbero voluti altri 130 anni. A proposito delle condizioni di vita dei calabresi durante il periodo borbonico è opportuno citare un passo del libro “La fine di un Regno” di Raffaele De Cesare che narra il viaggio che Ferdinando II fece nella nostra regione sul finire del settembre del 1852. A dire di De Cesare, durante il suo itinerario Ferdinando II «non arrecò alcun reale vantaggio alle province calabresi, le quali seguitarono ad essere divise dal mondo, e separate da loro da distanze assurde. Il compassionevole abbandono, in cui il re ritrovava dopo otto anni, quelle province, prive di strade provinciali, comunali e vicinali; sfornite di ponti, di telegrafi, e di cimiteri, e le città e i borghi senza alcun conforto della vita civile, non lo commosse e assai meno lo turbò. Gli stessi pericoli ai quali egli fu esposto per il pessimo stato delle vie, e i lamenti, per quanto umili e rispettosi, delle deputazioni che corsero a ossequiarlo, gli strapparono soltanto risposte sarcastiche, o promesse burlesche, ma non gli aprirono la mente sui bisogni di quelle contrade». Con la restaurazione, dopo il Congresso di Vienna del 1815 da cui nasce il Regno delle Due Sicilie, per il polo siderurgico di Mongiana si avviò un periodo di crisi dalla quale si risollevò temporaneamente poco prima dell’Unità d’Italia, evento irreversibile e necessario, criticabile nel merito e nel risultato ma per certi versi migliore del feroce assolutismo dei re Borboni che deridevano le popolazioni calabresi. Il nuovo governo unitario di Vittorio Emanuele II anziché continuare la produzione ed incentivare l’attività industriale del polo siderurgico mongianese ne decise il declino e le Reali Ferriere Borboniche furono inizialmente vittima di carenze di finanziamenti e di un calo di produzione sempre più marcato, e successivamente della definitiva disfatta attraverso la vendita al pubblico incanto. Con il regno d’Italia, infatti, e con l’unione del meridione al resto del paese, anche se di dovrebbe parlare di annessione e colonizzazione da parte del modesto stato sabaudo, il nuovo governo unitario prese la decisione di chiudere le Ferriere mettendole all’asta (il manifesto che annunciava il pubblico incanto è conservato alla Certosa) che si tenne a Catanzaro 25 maggio 1874 e che fu vinta da un deputato ex garibaldino - Achille Fazzari – un controverso imprenditore implicato successivamente in una truffa colossale proprio ai danni dello stato unitario. Così nel 1881 gli operai che vissero la loro vita e specializzarono le loro competenze a Mongiana finirono per diventare i primi emigranti del meridione ed andarono a portare manodopera a basso costo nelle nascenti industrie del nord. Si conclude in questo modo l’esperienza produttiva del primo polo siderurgico italiano.

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