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La mattanza del “porco” nella storia e nella letteratura calabrese.

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maiale
Nel 1995 il poeta crotonese, di origini serressi, Bruno Tassone titolava una sua fortunata raccolta di poesie e satire dialettali “Ppi vv’arricurdari i ricurdari”.
E chi dice il contrario? Ricordare, il nostro dovere, il “come eravamo”, “chi eravamo”, “da dove veniamo”; ricordare, insomma, il passato come origine del nostro futuro. Ebbene, sotto questa luce, a me piace ricordare, soprattutto ai nostri giovani lettori, i giovani della nutella e dei pub, un evento che rallegrava e arricchiva le nostre contrade di Calabria tra Natale e Pasqua. Dico “rallegrava e arricchiva” perché ormai sono pochi gli eletti che possono godere di tale festa. Sto parlando…del “porco”, pardon, del “maiale”, sintesi di cultura, storia ed economia. Il periodo del Natale lo ricordiamo sempre tra presepe, albero, zampogne e torroni. Ma subito dopo la Befana veniva l’altra festa: l’uccisione del maiale.
“Chi festa ch’è lu puorcu, gioia mia!/ Comincia versu i primi de jennaru:/ quannu la nivi ammanta puru ‘a via,/ quannu dicia ch’è viernu ‘u pecuraru.”, e ancora: “ ‘A festa rura quasi ‘na bimana:/ ‘u primu jurnu c’è ‘na zimpunia:/ gammiellu, cordicelle e la quadra…U jurnu appriessu: ‘mbitu generale:/ parienti, amici ‘nu catuiu chinu./ Chissa è la festa ranne du maiale:/ pasta, suffrittu, purpettelle e vinu.” come scriveva il poeta di Castelsilano Teodoro Torchia.
Lo capivamo subito quando, nelle nostre serate gelide di montagna, accanto al caminetto il nonno ammulava lu scannaturi e la nonna ammaccava lu sali.
Dopo averlo prelevato dalla ‘nzimba, il maiale veniva legato e scannato e a noi bambini veniva offerta la coraggiosa opportunità di tenerlo per la coda e poi il seguito. Franco Blefari di Benestare ben ricama l’avvenimento con questi versi: “E cinqu ‘ndi levammu: tri perzuni,/ e ‘nta vineglia ppiccicamma ‘u focu:/ passa ‘nu trappitaru e ‘nu garzoni:/…Brusciunu rrami e cippu di livara,/ ‘a notti vaj e veni ‘nta vineglia;/ mama chi attizza ‘ì vasciu d’a cardara/ cummari ‘Ntona ffila se’ curteglia”.
E per Giuseppe Oliverio di San Giovanni in Fiore nella sua Porcheide scrive che “U puorcu porta festa,”… e i giorni della macellazione “su mumenti ‘e vera vita,/ ognunu penza a nun restare affrittu,/ e biviennu e cantannu, ‘a fa finita,/ e se scorda lli riebbita e l’affittu,/ e la mente è cchiù frisca e cchiù pulita.”
Può sembrare storia povera dei nostri poveri contadini antenati. Non è così. Già nelle pitture rupestri di dieci mila anni orsono delle grotte di Altamira in Spagna veniva raffigurato l’evento e successivamente nella tradizione greca-romana e soprattutto in quella etrusca le rappresentazioni della macellazione del suino. Marrone, scrittore romano del 1° sec. a.C., ci ricorda che ai generali che godevano della piena fiducia dei loro soldati, si soleva assegnare il nome di scrofa perché negli assalti, sarebbero stati seguiti dai soldati fino alla fine, così come i maialini con le loro madri. Nelle campagne archeologiche numerosi sono i rinvenimenti di statuette votive raffiguranti fedeli che portano in braccio un maialino da sacrificare alla divinità. Lo stesso Enea avrebbe sacrificato a Giunone la bianca scrofa allattante trenta porcellini, per ringraziarla di aver raggiunto le desiderate coste laziali (Eneide, VIII). Invece, con l’avvento del Cristianesimo le cose cambiano. Nei primi secoli del Medioevo, la simbologia cristiana ne fa del maiale un’immagine del diavolo. Povero maiale, quali le sue colpe? Sant’Antonio Abate, in questi giorni venerato, viene raffigurato con i piedi sulla testa del ricco animale giacchè nel deserto aveva vinto le tentazioni del diavolo. Ma il tempo passa per tutti e col tempo il caro maiale si prende le sue rivincite e viene riabilitato e valorizzato. Così più tardi la pietà popolare ne ha rivalutato l’immagine e, nelle successive rappresentazioni, il maiale, o porco che sia, non è più sotto i piedi del Santo ma al suo fianco come un compagno di viaggio. Infatti è presente nella storia semplice e quotidiana di tante generazioni che per secoli lo hanno adottato ed integrato nella propria economia familiare. “Di lu puorcu nun si jetta nenti”: così dicevamo le nostre madri.
Bella sintesi questo proverbio, bella sintesi della sapienza popolare che per tanto tempo ha saputo e dovuto sfruttare l’utilizzazione complessiva di ogni parte della bestiola, anche di quelle non carnee: il grasso non commestibile come lubrificante, le setole per pennelli e spazzole, i budelli come involucri naturali per insaccati. E i monaci dell’Abbazia di sant’Antonio Abate di Ranverso (Val di Susa) usavano trattare l’Herpes zoster (il ben noto fuoco di sant’Antonio) con un unguento tratto dal grasso suino. E soprattutto: salsicce, soppressate, capicolli, ‘nduja, frigulaji, frittuli, lardu, pancetta e…il mio dolce e caro sanguinaccio. Era il nostro supermercato per un anno e oltre. E così un grazie alla povera bestia lo rende Vittorio Bufera di Confluenti per il quale “Ccu tuttu ca si puorcu, senza cuntu/ ‘usu riguardi e tte deugnu vrudate/ E pecchì ‘u ddici ca ‘stu viernu ‘e scuntu/ menze a sazizze e mezze a supprissate?”
Oggi, poi, l’industria chimica e farmaceutica utilizza il sangue e le ossa per farine alimentari ad elevato valore proteico. Fatte salve le mistificazioni che sono sempre dietro l’angolo. E ancora in campo medico si utilizzano molti ormoni ricavati dalle ghiandole dell’animale che, peraltro, ci somiglia. E comunque il nostro povero sporco maiale, guarda un po’, è proprio il simbolo della prosperità e dell’abbondanza ed è associato al risparmio come emblema del primo salvadanaio.
E Michele Pane di Decollatura scriveva: “ Fràtimma, si lu puorcu nun t’ammazzi,// nun fai né soppressate né sazizze, né mussu t’unti ccu’ lli sangunazzi,// nullu te cura e fàdi civilizze! Cà si propri l’amante vai mu abbruzzi, // illa te sbruffa e negga lli carizze, e cce pierdi li prieghi e ll’amminazzi:// la cuntentizza sua su le sazizze.”

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