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Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

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Il cruciverba in serrese

Gioacchino Giancotti
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Serra San Bruno e la Certosa viste dai grandi viaggiatori di ‘700 -‘800

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serrsbrunocon-certosaOltre Napoli, non c’è da nasconderlo, il buio, la disperazione, la povertà più crudele, il sottosviluppo. Secoli di feudalesimo, invasioni e dominazioni straniere, carestie ed epidemie hanno devastato la bella e amara terra calabra. Così scrivevano i tanti osservatori stranieri che tentavano di attraversare il Pollino per inoltrarsi nelle nostre contrade con grandi pericoli per l’assoluta mancanza di vie di comunicazione sicure, giacchè l’unica strada che attraversava la regione era la consolare romana Popilia ma ormai ridotta a mulattiera, se non sentiero.
Poi venne il terremoto del 1783, con le sue lunghe paurose scosse da febbraio a marzo, che sconvolse la geomorfologia della regione ed addirittura con l’insolito movimento rotatorio rase al suolo, tra le tante altre monumentalità, anche la rinascimentale Certosa di Serra San Bruno ed il maestoso Convento dei Domenicani della vicina Soriano Calabro.
Oltre alla gran voglia di conoscere “de visu” la Magna Graecia e quel che ne restava, fu questo disastroso cataclisma naturale a richiamare da oltralpe, numerosi studiosi, cultori o semplici borghesi curiosi. Giovani aristocratici che per completare la loro formazione realizzavano in quegli anni pervasi d’ Illuminismo il Gran Tour, un’istituzione, la tappa finale del ‘cursus studiorum’ della nobiltà e dell’alta borghesia. Esso comporta conoscenze culturali, il gusto per le arti, la raffinatezza del bello e del buon vivere.
Obiettivo di questi viaggiatori era certamente quello di ripercorrere le strade della Magna Gaecia, osservare le “pietre” che parlano di storia e di civiltà e ammirare, perché no, le bellezze naturali e forse solo queste sono rimaste impresse dalla penna e dal pennello dei nostri illustri ospiti. Tutto il resto è noia.
Il loro comune denominatore si è rivelato in tanta delusione per la scomparsa di ogni traccia del passato ellenico, tanta amarezza per l’abbandono e la miseria e la desolazione dominanti tra la gente calabra.
Tanti, di questi aristocratici osservatori (scrittori, scienziati, pittori, medici, archeologi, agronomi) sono penetrati in Calabria soprattutto costeggiandola ma pochissimi si sono inoltrati fino a Stilo e a Serra San Bruno per osservavate da vicino quel che restava dell’antica Certosa di Santo Stefano del Bosco come era conosciuta allora.
Il primo di questi viaggiatori è stato J. H. Von Riedesel, archeologo, che, nel 1767, via mare raggiunse Capo Spartivento e. scriveva, “da Gerace passai, sempre costeggiando a Capo Stilo, ove sbarcai per andare a visitare la certosa”. Ma a Serra o altrove? Nulla di più, nessuna osservazione lasciata scritta.
Gli altri viaggiatori che si addentrarono nelle nostre montagne, prima del terremoto, sono stati, nel 1777-78, l’illuminista ed enciclopedico inglese H.Swinburne e, nel 1780, il naturalista italiano Fortis che, stranamente, da Serra non è passato. L’inglese, invece, commette un grossolano errore quando scrive che, da Gerace, “sulla destra lasciammo Stilo, nota per un ricco convento dei Certosini, un ordine che fin dalle origini mise salde radici in questo Regno per il favore di Ruggero il Gran Conte di Sicilia, intimo amico del fondatore San Bruno.”
Poi accadde quel che non sarebbe giammai dovuto accadere, “il gran tremuoto” del 1783. Allora Serra diventò tappa obbligata per essere visitata.
In quello stesso anno il medico napoletano Giovanni Vivenzio e il conte spagnolo Antonio Despuig si interessarono, seppur vagamente, delle nostre zone terremotate. Due anni dopo il teologo tedesco Federico Munter scriveva che “dal 5 febbraio 1783 sino alla fine di novembre si sono contati 1004 tra grandi e piccole scosse telluriche…” e tra le località devastate cita Serra che allora contava 4481 abitanti e per fortuna nessuna vittima.
Nel 1792 l’economista Giuseppe Maria Galanti, si incarico del governo, venne a Serra e ne ha lasciato una particolareggiata descrizione che merita di essere riportata. “…È un paese di gente industriosa, ma è privo di quasi tutti i prodotti necessari alla vita. Le arti di falegname e di fornaio occupano quasi tutti i cittadini, queste arti ci hanno una certa perfezione. Vi si lavorano fino orologi a corda da tavolino. Non ci mancano scalpellini quali lavorano rozze statue. Vi manca il gusto e il disegno, che non si può avere senza scuola e senza modelli. [Questi verranno al tempo della ricostruzione della Certosa a contatto con artisti e architetti francesi. Comunque] Quel che fanno naturalmente mostra che sarebbero capaci di tutto. Le femmine sono per la maggior parte addette a filare e tessere l’arbascio…le donne povere sono addette a legnare….Il suolo della vallata di Serra è di una natura singolare. Non è suscettibile, non che di altri prodotti, neppure di erba. Ciò non pare credibile. È composto di arena e di altre particelle…vi si vede gran quantità di talco in tutta la campagna. Vi abbondano le acque… Nella Serra tutta la gente è applicata a’ lavori di falegnameria o di ferrari. La natura ingrata del suolo ha dovuto far prendere ad essa tal direzione.”
Un anno prima (1791) scesero in Calabria il tedesco L. von Stolberg che visitò Monteleone (Vibo), Mileto e Oppido ma non toccò Serra e chissà perché e l’inglese Brian Hill che su Serra nessun cenno lasciò, solo una vaga descrizione sul terremoto nella regione: “il terremoto fu ancor più avvertito in Calabria, dove si ebbero cambiamenti nella forma delle montagne e delle valli e nel corso dei fiumi, tanto che l’intero aspetto della regione risultò cambiato…Nel distretto di Cosoleto un’ampia pianura affondò per ottocento metri, formando una profonda valle ed una casa fu spostata di due chilometri senza riportare alcun danno…In Soriano due montagne si unirono così da formare una sola, tredici persone uccise e un grande lago.”
L’800 fu il secolo di più intensa frequentazione di studiosi di ogni sorta provenienti dall’Europa che si son fermati su Serra e dintorni.
In questo secolo la Calabria continuava a non essere facile da esplorare giacchè risultava ancora inospitale, senza alloggi e sempre abitata da briganti e senza strade sicure tanto da far scrivere a Durent De Tavel nelle sue “Lettere dalla Calabria” del 1807, “con simili vie non bisogna dunque stupirsi se la Calabria rimane isolata.” E la stessa fotografia veniva scattata da Astolphe De Custine nella sua peregrinatio del 1812.
Nonostante ciò non mancarono, e non furono pochi, i viaggiatori che si sono inoltrati fino a Serra per osservarla e raccontarla non sempre con esattezza.
Nel 1818 l’inglese R. K. Crafen, seppur con qualche incertezza, osservava che “Serra è composta da case sparse costruite irregolarmente, quasi tutte in legno e non vanta alcuna tradizione illustre…La temperatura è raramente calda…i vigneti, con una buona e attenta coltivazione, producono una uva da tavola” [quando mai l’uva!]. Gli abitanti, che sono quattromilacinquecento, sono quasi tutti boscaioli e falegnami dimostrano una considerevole bravura e abilità. La cittadina conta due o tre piccole e belle chiese ma il loro aspetto è molto deturpato dai campanili di legno.” Poi conclude sulla Certosa “una volta meraviglia e orgoglio di queste sperdute radure, ora invece triste monumento della catastrofe di cui è stato vittima”.
Nel 1828 C.T. Ramage, sulla scia del precedente come se l’avesse copiato, osservava che “avendo raggiunto il piccolo paese di Serra trovai che quasi tutte le case erano costruite in legno ed avevano un aspetto quanto mai squallido”. Dopo poco più di mezzo secolo dalla tragedia del 1783 cosa si poteva attendere?! Ed ancora. “Serra non offre nulla di interessante per il forestiere e merita una visita solo in virtù della natura pittoresca che la circonda”. E meno male! Però più avanti ci offre un grossolano errore tanto da dubitare del suo viaggio. “Tutto lasciava intendere che il clima doveva essere mite; vi era la vite ma il freddo qui giunge troppo presto per permettere che essa maturi e per farne il vino, in quanto alle pesche e alle albicocche, queste non giungono mai a maturazione.”
A metà del secolo, 1852, per il medico svizzero Orazio Rilliet Serra è “lontana da ogni strada maestra, poco frequentata e le antiche leggi dell’ospitalità sono osservate dagli abitanti in tutta la loro purezza tradizionale”. Ahinoi, ricorda anche la spera randi di Domenico Barillari rubata nel 1982, “l’ostensorio cesellato”. Ed ancora, il Rilliet osservava che “il paesaggio ha lo stesso aspetto delle nostre montagne della Svizzera”, insomma “ una bella cittadina, tenuta ben pulita, ben fabbricata, con larghe strade lastricate con cura, piazze spaziose, circondate da belle case e da chiese…l’interno delle case è infinitamente più comodo e più pulito che negli altri luoghi della Calabria.”
Chiude il secolo, 1866, l’archeologo francese L. Palustre de Montifaust per il quale il monastero bruniano “somiglia da lontano a una città fortificata con i suoi baluardi, i suoi bastioni e le sue torri” e ad appena un chilometro Santa Maria del Bosco dove “tutto è pace e silenzio, calma e tranquillità. Su un rigonfiamento del terreno c’è al centro una cappella dedicata alla Madonna, di fronte alla grotta dove morì il beato”, san Bruno. E il laghetto gli appare come “una piscina salutare offerta ai ciechi, ai sordi, ai lebbrosi”. Esagerato, un tantino!
Il 900, non si può dire che sia stato un secolo avaro di visitatori studiosi e personalità illustri, basta citare soltanto Enaudi, De Gasperi e i papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Ma qui piace ricordare Norman Douglas per la sua straordinaria simpatia; nel 1912 qui venne e confessò nella sua Old Calabria di non conoscere nulla della storia di Serra San Bruno “ se non che ha fama d’essere uno dei luoghi più bigotti di Calabria.” E aveva ragione: arte, storia e fede ne fanno un popolo molto devoto, “bigotto”. E non è una parolaccia!

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