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Il cruciverba in serrese

Gioacchino Giancotti
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Mio padre sarto.

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sartoUna volta nei paesi del nostro Sud i vecchi genitori si arrovellavano il cervello nella scelta di un mestiere da dare ai propri figli, un mestiere che fosse un po’ redditizio e non troppo usurante.

Erano due i mestieri ad avere queste qualità ed essere molto agognati: il sarto e il barbiere.

Il primo, il sarto, accreditava sicuramente più guadagno e soprattutto prestigio anche se talvolta monotono. Comunque entrambi i mestieri erano tranquilli, caserecci e dignitosi. Il barbiere aveva il vantaggio del continuo ricambio di clientela con cui scherzare, parlare e cantare al suono di una vecchia chitarra. Anzi nell’attesa spasmodica del prossimo cliente aveva tutto il tempo di esercitarsi in stornellate ad orecchio. Il salone del barbiere era un po’ il salotto del gossip ed in questo i tempi non son cambiati. Ma il povero barbiere aveva però lo svantaggio di dover lavorare sempre in piedi e dover tagliare le vibrisse delle narici e delle orecchie non sempre pulite di fresco bagno.

Il sarto sicuramente era più pulito e pertanto molto più ricercato come mestiere. Il sarto poi aveva anche il vantaggio di poter più tranquillamente cantare, con voce carusiana o gigliana, vecchie canzoni o famose arie da opere liriche, le più gettonate erano Traviata, Rigoletto, la Casta diva dalla Norma e la Cavatina dal Barbiere di Siviglia. Cantava tutta la giornata e talvolta era la sveglia anche invernale di tutto il vicinato. E già perché la giornata lavorativa del vecchio sarto, detto anche custuriere, cominciava molto presto perché il cliente era mattiniero alla prima e alla seconda prova della giacca. Insomma non si poteva perdere tempo. Allora il sarto era anche il fornitore della stoffa, possedeva, infatti, una campionatura di ritagli di tessuti da consigliare al cliente: grisaglia, Principe di Galles, pied de poule, un buon velluto o fustagno, invernale o mezzotempo. Scelto il campione, si doveva aspettare giusto il tempo che i due metri di stoffa, necessari al confezionamento dell’abito, arrivavano  di solito dalla Sartotecnica di Torino o dalla Marzotto, dalla Lanerossi di Vicenza e talvolta dalla Ermenegildo o Mario Zegna, a seconda della tasca dell’acquirente. Col vecchio lapis, poi, il sarto annotava su un quaderno le misure di giacca e pantaloni avendo cura di consigliare il doppio petto o un petto a seconda della corporatura del cliente. Arrivata la stoffa, la si teneva in umido per tutta la notte perché non si potesse restringere ai lavaggi successivi. Quindi, con un segno di croce, iniziava con tracce di gesso il taglio che era pura arte: non si poteva e non si doveva sbagliare. Dopo il taglio si imbastivano le due parti della sagoma tenendo le gambe accavallate perché il ginocchio facesse da sostegno e l’ago portava il filo molto lungo per evitare di ricorrere spesso alla cruna e mettere sotto sforzo la vista. Alla prima prova, o misurazione come dir si voglia, il “mastro” aveva la bocca piena di spille  che appuntava qua e là e il gesso che volteggiava in tutto il tronco della giacca e sotto il cavallo dei pantaloni, infine con colpo secco strappava la manica e correggeva col gesso i fianchi e il giromanica. D’inverno e soprattutto nelle ore serali la sartoria diventava il salotto della buona gente, dall’operaio al maestro di scuola, dal medico al boscaiolo, dal più povero al più ricco. Il sarto era anche il consigliere e quello che faceva il nodo alla cravatta ai vicini di bottega la mattina di domenica prima di andare a Messa. Il sarto, vecchio e nobile mestiere, quello che vestiva tutte le taglie, i magri e gli obesi. Il sarto che non si risparmiava la fatica e molte volte andava a cercarsela anche nei paesi limitrofi e a piedi.

Questo fu mio padre Vincenzo, (Soriano Cal. 1903 – Crotone 14 giugno 1986), discendente da antica dinastia di sartòri. A lui questi miei vecchi e modesti versi: “Come ti fu sudato / il pane / sui freddi sentieri di Ragonà / tra i contadini senza speranza / di Nardodipace / sulla strada tortuosa e cara / di Soriano / nelle case dei massari umili e signori / di Simbario / nella nostra Serra / col tuo lirico fischiettare / all’alba fredda e nevosa /cantando le gioie / e le pene recondite/ a Traviata e Figaro”.

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