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Il patrimonio delle tradizioni popolari calabresi: un tesoro da custodire.

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Le nostre tradizioni popolari sono una risorsa da non disperdere nel dimenticatoio e bisogna interessare i giovani invogliandoli alla loro conoscenza.
Vi svelo la metafora che spesso uso in classe coi miei allievi liceali sull’insistenza del passato nel presente. Il passato è fra noi, se vogliamo accorgercene, coi suoi usi e costumi, la sua cultura e, per dirla in una parola, la civiltà, che è poi quella dalla quale proveniamo. La metafora è quella della staffetta. La uso quando parlo della permanenza nella letteratura latina - avviata ufficialmente nel 240 a.C. grazie a L. Andronico - di quella greca che i Romani – ritendendosi eredi legittimi dei Greci - portarono avanti sistematicamente proprio dal III sec. a. C. quando i Greci avevano prodotto capolavori irraggiungibili e avrebbero avviato una stagione, quella ellenistica, non così eccelsa come quella classica. Così è per la permanenza della storia, che si tramanda di generazione in generazione: è come la gara della staffetta in cui l’atleta stanco, cioè la persona anziana, consegna il testimone all’atleta fresco e vigoroso, cioè il giovane che si farà portatore di quei valori.
Perché accade così quando si fa ricerca de visu, andando direttamente sui luoghi: si incontrano i ciceroni, i depositari di un sapere popolare che trova la sua collocazione proprio tra le vie, le piazze, i crocicchi, i palazzi, le case, le chiese… ossia i luoghi dell’incontro e dello scambio orale. I luoghi ci parlano e ci svelano una storia antica e nuova, in cui si intersecano passato e presente. La loro voce non è un urlo, ma un sussurro … tocca a noi ascoltarlo e comprenderlo. Come ebbi a scrivere in un mio romanzo (Il segreto della ninfa Scrimbia, n.d.r.): La storia è per i più un buco nero… la cui dimenticanza fa orrore perché è l’anticamera dell’ignoranza e, con essa, dell’inciviltà. Se sappiamo da dove proveniamo, forse capiremo meglio dove andremo.
La Calabria è una terra magnifica, ha tradizioni millenarie in cui emerge il ruolo del popolo, il demos greco, che basa la sua sapientia sull’empiria, sulla conoscenza pratica e non speculativa che è degli astrattismi filosofici. La gnoseologia popolare ha attratto molti esimi studiosi e non solo antropologi o cultori del folklore. Di questa ricchezza incontaminata, perpetratasi nei secoli, ne accorse anche Italo Calvino che nelle sue Fiabe Italiane riportò innumerevoli testimonianze orali in forma appunto di fiabe.
Voglio ricordare che l’anno scorso per i tipi della Donzelli è uscito il pregevole lavoro di Letterio di Francia “Re Pepe e il vento magico”- Fiabe calabresi che, con bellissime illustrazioni, riporta fiabe calabresi da fare invidia alle Mille e una notte.
Che la Calabria sia terra dell’affabulazione popolare lo hanno sempre saputo gli studiosi di demologia, da Raffaele Corso a L. Bruzzano, da G. B. Marzano a Mariano Meligrana fino ad arrivare a Raffaele e a L. M. L. Satriani, a Pino Cinquegrana, a Vito Teti. Perfino P. P. Pasolini nel suo viaggio lungo le coste d’Italia, arrivato in Calabria vi scoprì un dialetto magnifico che volle usare come lingua popolare in uno dei suoi film sul Vangelo. Vittorio de Seta, grande regista, nel suo Viaggio in Calabria ci ha lasciato la testimonianza visiva di quanto sto dicendo: ossia che la cultura popolare è la base della nostra civiltà.
Essa parte da lontano, dalla Magna Grecia e dalla koinè ellenistico-romana, per poi passare ai Bizantini e a tutti i popoli che ci invasero. Di ogni passaggio umano essa serba le tracce. E pure nei nomi, negli epiteti, nei nomignoli, nei soprannomi.
Questa civiltà popolare attende di essere riscoperta, è uno scrigno favoloso che custodisce tesori inimmaginabili che ci parlano di una terra bella e dannata, mobile e nobile, incompiuta, precaria, in perenne fuga da se stessa e alla ricerca di punti stabili.
Così scrivo io della Calabria (in “Rosaria, detta Priscilla, e le altre”, n.d.r. ): “La mia terra: una manciata di bellezza sprecata, lanciata per caso o per sbaglio, dall’alto dei cieli. Una piccola distrazione dei celesti … ed ecco la Calabria, in cui l’abbaglio della perfezione si unisce all’abominio della nefandezza”.
La riscoperta di questi tesori immateriali avviene andando direttamente sui luoghi della storia. Lo disse Erodoto, il pater historiae, che fu grande viaggiatore. Nell’antichità i primi storici sono i Logografi, che scrivono dei luoghi prima che delle persone. Ecateo di Mileto o Ellanico di Mileto i Timeo di Tauromenio – Taormina – sono tutti infaticabili camminatori. Non era immaginabile, come oggi, un lavoro a tavolino e suffragato solo da fonti scritte o archivistiche. Era conoscenza il cammino, e lo è ancora, per es. per gli archeologi, che svolgono un lavoro sul campo, di movimento, che sprigiona un’energheia fisico-emozionale, grazie al contatto diretto con le persone. Così è per chi studia l’antropologia, il dialetto, le tradizioni popolari.
Non è questo un lavoro statico: i luoghi vivono di una loro fisicità, di una corposa consistenza, pretendono il movimento, il percorso fisico perché ci sia una reale riconquista. E’ nei luoghi che ritroviamo la nostra identità.
Un’identità di un tempo che fu e che non è e non sarà mai più. Non serve inutile nostalgia o dietrologia nella ricerca antropologica. Esse deve essere di stimolo per il futuro. E deve appassionare e sensibilizzare chi ascolta e legge, soprattutto gli studenti, che devono riscoprire la cultura dell’ascolto. Si può infatti solo ascoltare e imparare, ad avere la giusta dose di pazienza in un mondo che va troppo di fretta e non lascia nulla di noi. Ci fu invece un tempo in cui si parlava molto e la memoria era eccezionale: MNEMOSYNE era una dea. Per lei in Hipponion fu incisa una laminetta sull’oro che troneggia in una saletta del nostro museo archeologico al Castello. La memoria era un dono divino. Allora si scriveva e si leggeva poco e si tramandava il patrimonio del folklore ab ore in ore.
Per secoli l’oralità fu l’unico strumento di acculturazione delle masse o comunque dei ceti subalterni ed emarginati dalla cultura aulica. Ormai la cultura orale è in fase di declino, versa in un irreversibile processo di estinzione perché, mutatis mutandis, ci troviamo in una globalizzazione del sapere che la esclude - e che esclude anche il libro - e poi è mutata la società, che da contadina si è fatta industriale - e poi l’alfabetizzazione ha portato all’affermazione di nuovi saperi e nuove tecniche di apprendimento … - e infine si è giunti ad un’omologazione che tende ad appiattire tutti e tutto nel conformismo delle relazioni affettive e interpersonali che ci porta a non riconoscerci più.
Che il dialetto calabrese sia il retaggio dell’antico greco ben lo capì il grande linguista berlinese Gherard Rohlfs che visitò la Calabria dal 1021 al 1978 e ne fu gradito ospite, e non poteva essere altrimenti in una terra avvezza ai visitatori stranieri e anche settentrionali (voglio ricordare i grandi Paolo Orsi e U. Zanotti Bianco che si interessarono di archeologia, storia, istruzione ed opere sociali in tempi in cui era difficile o impossibile parlare in senso marxista di elevazione delle masse): questo perché i calabresi non hanno potuto – per congiunture storiche – avviare una loro stagione culturale come altre regioni del centro nord Italia e sono stati per del tempo una vera e propria colonia culturale.
Rohlfs è il nume della dialettologia calabro-greca e seppe amare la Calabria come pochi altri. R. dedica la sua ricerca linguistica – il Dizionario dialettale della C. - alla “gente calabrese dai molti nomi e soprannomi”. Egli dice testualmente come l’origine delle parole non è mai banale e che spesso rimane oscuro e incomprensibile il particolare motivo dal quale essi si sono sviluppati. IPSE DIXIT, potremmo dire.
In effetti, non è raro sentire argomentazioni fantasiose per esempio attorno all’origine dei soprannomi: ciò è dovuto al fatto che il tempo tramanda il nome, ma seppellisce la circostanza nella quale esso si è creato. Che l’origine dei soprannomi si perda nella notte dei tempi è indubbio: pensiamo all’epiteto della poesia epica di Omero: il Pelìde o il Tetide, cioè il patronimico o il matronimico per indicare Achille che vien detto “il piè veloce” , oppure il Lungi Saettante o il Braccio bianco o la Glaucopide… oppure gli Atridi …o il Pariaglidei … siamo nella sfera dell’elogio, trattasi di eroi e dei. Ma possiamo arrivare agli uomini e all’ingiuria: infatti un soprannome può anche qualificare negativamente una persona e marchiarla a fuoco per l’intera vita. Si narra che Archiloco di Paro e Ipponatte di Efeso, poeti giambici del VII-VI secolo fossero così acerrimi coi loro nemici che essi morivano di vergogna e anzi qualcuno giunse a uccidersi. Potere della parola, che vola di bocca in bocca.
Infatti tra le motivazioni più ricorrenti per la nascita dei soprannomi non abbiamo solo quello apologetico-esornativo, ma per lo più ci troviamo in un contesto ludico-scherzoso: è l’ironia la molla per la loro coniazione.
Ricordiamoci che discendiamo dagli antichi Greci e Latini che fecero della commedia, della farsa fliacica, della satyra un modo di osservare e universalizzare la realtà coi suoi difetti e vizi: il soprannome altro non è se non un retaggio di questa cultura popolare che riscontriamo nel Sales (le facezie) dei Fescennini e nella commedia Atellana alla cui base c’è quell’ Italum Acetum , il gusto per il motteggio e lo scherno che si ritrova nelle opere di Q. Maccio Plauto.
Una cosa è certa: il dialetto pesca nella natura, nella realtà. E una caratteristica del conio dei suoi lemmi è l’ ESPRESSIVITA’ e la PARADOSSALITA’ che sono due elementi tipici della cultura popolare-plebea. Si tratta del grottesco, dell’inverosimile, che genera maggiormente il ricordo. Non è la normalizzazione ciò che interessa, ma l’esagerazione e l’esasperazione. C’è tanta curiositas e amplificatio, perché il dialetto è vivace e pittoresco. Così si creano le CARICATURE UMANE che sono racchiuse nei soprannomi che danno vita a una galleria di tipi, un caleidoscopio di personaggi vari. Ricordo che varietas in latino vuol dire pienezza e questa era una caratteristica dell’antica Satyra, genere italico-latino per eccellenza. Disse Quintiliano: Satyra tota nostra est. E non sbagliò, anche se vi era contemplata l’invettiva, ma non quella alla maniera greca – in cui le parole erano strali che portavano alla morte chi veniva preso di mira. La satyra latina è humour leggero, sofisticato, a volte bonario – penso a Orazio e Marziale, meno Persio, Giovenale e Lucilio – e ci fa sorridere ancora.
Il dialetto richiama poi le parole ai loro suoni (Onomatopea) perché appartiene a una cultura concreta e pragmatica. Indubbi sono i retaggi della koinè linguistica del Mediterraneo: oltre al greco e al latino ci sono l’arabo, il bizantino, ibericismi e provenzalismi. Noi siamo un meticciato di civiltà: se mai ce lo fossimo dimenticati, ce lo ricorda il nostro dialetto.

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