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Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

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Il cruciverba in serrese

Gioacchino Giancotti
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Personaggi serresi: Vavalà Michele il tamburinaro.

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Tamburinaio
Lo chiamavano così perché nel corpo musicale del Reggimento suonava il tamburo ( ma lui si vantava: “..io era lu primu genisi” (?) vocabolo di cui non ho mai conosciuto il significato) quando Vavalà Michele, classe 1890, all’età di 24, anni era stato sradicato dai rigogliosi boschi di faggio, dove faceva il carbone, ed era stato scaraventato sul confine italo-austriaco per fare la guerra contro gente che a lui non solo non aveva fatto niente di male ma che nemmeno conosceva ( addirittura parlavano un’altra lingua!) senza sapere il perché e il percome.
Perciò,lì, sul fronte, non si trovava bene tra gente che con lui non aveva niente a che spartire, lontano dalla famiglia, dagli amici e dai boschi del suo paese. Quella vita dura, violenta e bestiale aveva modificato in peggio il suo carattere per cui era diventato litigioso, scontroso e oltre modo ribelle: non tollerava di essere stato costretto a vivere la vita da militare fatta di stenti e sacrifici che lui non aveva scelto e non aveva accettato sin dal primo giorno. Non vedeva l’ora di andarsene da quel luogo. Voleva fuggire ma lo scoraggiava il fatto, per come aveva sentito dire, che i disertori quando venivano presi venivano fucilati.
A quell’epoca era un giovane robusto e vigoroso. Ora era ridotto ad una larva di uomo: dopo che “ Sbampa “ preso dall’ira, durante un litigio con lui dietro il fiume, vicino al “mulinello “, gli assestò, con la scure che aveva appesa al braccio, un colpo tremendo che gli aprì il cranio e gli fece fuoriuscire insieme al sangue anche un pezzo di cervello. Poi fu il dottore Manno che lo prese, lo lavò e lo rimise al suo posto. Gli rimase una lunga e profonda cicatrice che nascondeva sotto la coppola ed un occhio appannato. Ma cominciò pure la sua decadenza fisica in quanto tanto il braccio quanto la gamba sinistra gli si erano semiparalizzati.
Si trascinava appoggiandosi con tutte e due le braccia ad un lungo e robusto bastone fino a quando, progressivamente, le gambe non lo ressero più e non si mosse più da casa che aveva dietro la chiesa Matrice vicino la forgia di “ Talau “. Furono proprio i figli di quest’ultimo che, mossi da compassione, gli costruirono un “carroccio”: un’asse di legno fissata su quattro cuscinetti a sfera, una specie di sedile sempre in legno e delle sponde su una delle quali, qualche buon tempone, mutuando dai grossi camion, scrisse con la vernice CREPI L’ INVIDIA e qualcun altro ci mise di dietro una vecchia targa automobilistica.
Poi quando ancora era nelle condizioni di guadagnare qualcosa tirando il mantice o girando con la mano sana la “mola”, nelle numerose forge di Serra, per affilare il taglio delle zappe, si sposò con “la paccia di Vitaliano”che paccia non era ma semplicemente una primitiva, come i suoi fratelli: “mbumba” “civetta” e “ pitusu”.
Quando Nazzarena si sposò con il tamburinaro, aveva già una figlia ancora adolescente ed era lei che durante le giornate di bel tempo lo sistemava sul carroccio e passandosi la corda, a cui era agganciato, a mo’ di pettorale, lo portava sulla piazzetta della Chiesa Matrice battuta dal sole e lo lasciava lì nella speranza che qualche anima caritatevole gli facesse l’elemosina.
Spesso mi avvicinavo a lui e gli offrivo qualche pacchetto di sigarette o gli davo qualche moneta e lui, in cambio, biascicando le parole, mi raccontava gli avvenimenti che aveva vissuto quando era al fronte durante la guerra del quindicidiciotto.
“ Si era accorto che i soldati austriaci, che erano al di là della trincea, dopo aver consumato il rancio e non appena calata la notte, si mettevano a cantare e dopo una buona mezz’ora si creava un profondo silenzio: il che stava a significare, per lui, che si erano ubriacati e dopo erano caduti in un sonno profondo. Allora lui usciva dalla trincea, attraversava le linee nemiche e ne catturava due, tre per volta e li faceva prigionieri.
Tra lui e il Capitano della Compagnia non correva buon sangue per il carattere difficile che avevano entrambi : prepotente il primo, litigioso l’altro e più di una volta si erano scontrati per cose di poco conto, tuttavia, quantunque tra loro due ci fossero questi scontri, vi era un accordo: per ogni tre prigionieri che Michele catturava, in cambio avrebbe avuto un giorno di licenza premio. Inoltre lo avrebbe proposto per il conferimento di una medaglia d’argento
L’ultima litigata era avvenuta il giorno in cui era arrivato l’ordine del Comando Supremo di portarsi immediatamente a quota 918 e distruggere il Ponte Varco, proprio perché i conti sui prigionieri non tornavano e lui, il Capitano, voleva fregargli cinque giorni di licenza premio.
Il mattino seguente si misero in marcia per raggiungere la località stabilita e compiere la loro missione
“Avanzavano da ore:caldo, spossatezza, ma soprattutto la sete si facevano sentire su quelle pietraie roventi del Carso. La sete lo tormentava <… arrivati alla prima funtana dicu.Capitanu, per favori, mi lasciati beri ?> - dicia: < No,tutti vannu e tu no!>. <Arrivati alla sicunda funtana dicu: Capitanu lasciati a beri? > - < No, tutti vannu e tu no.>………..E così fino alla quarta fontana che avevano incontrato lungo il percorso. < ..io era muortu di la siti!… Arrivamma alla quinta funtana e dicu: capitanu, pi l’anima di li muorti, mi lasciati andari a beri ?> - < No, ti dissi ca tutti vannu e tu no !>-< Allura, manneja li muorti di lu diavulu, pi la raggia, tirai lu pugnali e nci spaccai lu cuori! >
Poi fuggì tra rupi e balzi per non essere preso e si diede alla macchia nascondendosi tra gli anfratti, negli angusti cunicoli di cui era pieno il Carso, nei casolari semidistrutti dai bombardamenti o abbandonati dai proprietari
Vagò per parecchio tempo. Durante il suo peregrinare da un posto all’altro aveva sentito dire della ritirata di Caporetto, dell’avanzata degli austriaci e delle carneficine che c’erano state sul Piave; preso dallo sconforto e dalla paura decise di fuggire da quell’inferno e di ritornare alla pace e alla tranquillità del suo paese.
Non lo scoraggiò la distanza abissale che doveva percorrere per raggiungere la Calabria, quindi, preso il coraggio a due mani,risoluto, si avviò verso l’imprevisto.
Si muoveva,soprattutto di notte, a piedi, percorrendo diecine di chilometri di strade attraverso aspri sentieri, strade di campagna; oppure riuscendo ad acquattarsi su qualche tradotta che ritornava dal fronte o su qualche carro agricolo che trasportava vettovaglie nei vari paesi.
Si cibava di quel che trovava: di frutta, di ciò che poteva avere dalla povera gente che viveva nelle campagne e molte volte anche di erbe che trovava nei campi.
Non ricordava quanto tempo ci mise per giungere al paese. Arrivò a casa quando era già notte avanzata.
Quando sua madre aprì la porta e se lo trovò davanti, rimase senza fiato poi lo rifocillò gli fece cambiare vestito e gli disse che i carabinieri erano andati a casa più volte, per chiedere notizie di lui se sapeva dove era e dove nonera, se lo aveva visto o se lo aveva nascosto in qualche luogo. Gli consigliò, pertanto, di scappare e di nascondersi in qualche posto sicuro.
E lui il posto sicuro lo trovò. Per quindici giorni dormì in un loculo del cimitero. Di notte sua madre,accompagnata dalla figlia ancora piccolina, si recava in quel luogo per portagli qualcosa da mangiare; lui scavalcava il muro di cinta dalla parte della montagna si prendeva il cesto con il cibo dentro e scompariva tra le tombe.
Poi una mattina sentì suonare le campane a festa: era finita la guerra e l’Italia aveva vinto! Per questo ci fu l’amministia e Michele potè ritornare libero. Però non ebbe la medaglia d’argento che gli era stata assegnata per “….avere, con sprezzo del pericolo, attraversato più volte le linee nemiche, catturando numerosi prigionieri….”

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