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Giochi e passatempo di una volta: Jiucamu…? E a chi jiucamu...?

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“Lu carruocciu” – Per un bel po’ di tempo costituì “lo spasso” dei ragazzini ed anche degli adolescenti delle famiglie povere ( i figli della gente perbene avevano l’automobilina a pedali ) che veniva costruito in famiglia da qualche adulto, o là dove era mancante, dallo stesso ragazzo. Raramente ci si rivolgeva ad un falegname, perché anche quello costava.

Era fatto da una rozza tavola di abete lunga circa novanta centimetri e larga sessanta, sotto la quale venivano fissati due assi robusti di castagno o di faggio che fuoriuscivano, arrotondati in modo da poterci infilare, poi, le ruote spesse circa tre centimetri ché se erano di meno si curvavano e il “mezzo” si muoveva con difficoltà o si bloccava e non andava avanti. I ragazzi più ingegnosi invece che le ruote vi infilavano dei cuscinetti a sfera che reperivano tra i rottami delle rare officine meccaniche. In fine, era dotato di uno sterzo ricavato da un manico di scopa con sopra fissato un manubrio anch’esso in legno.

Per spassarsela bisognava essere in due: uno alla guida, l’altro a spingere, possibilmente con una pertica biforcuta. Vi montavano a turno.

 

Altri giuochi di quell’epoca ed ormai caduti nell’oblio e sempre praticato da giovani e ragazzi era quello della “singa” ; questa volta si trattava di giocarsi quei pochi soldi spicci che ciascuno riusciva a racimolare allo scopo di rimpinguarli. Erano i centesimi della lira quelli che si giocavano: “ lu sordu”- “ la raza” – “ lu nichili” rispettivamente cinque, dieci e venti centesimi.

Si tracciava per terra una linea orizzontale dalla lunghezza di circa mezzo metro limitata alle estremità da due brevi segmenti perpendicolari che demarcavano lo spazio del giuoco; al di là “lu foraliettu” cheimplicava l’estromissione, per quella tornata, di colui che avrebbe lanciato la moneta in quella zona.

Si poteva giocare anche in tre o quattro. Si stabiliva la distanza da dove si dovevano tirare le monete (anche più di una per giocatore) da farle cadere sulla “singa “ o ad un punto il più vicino possibile ad essa. Colui che risultava essere primo, tratteneva una moneta per sé e lanciava in alto le altre invitando il secondo a scegliere o testa o croce e che, a sua volta, si giocava quelle “indovinate” con il terzo con le stesse modalità e il terzo avrebbe fatto lo stesso se ci fosse stato anche il quarto concorrente.

Altri giuochi venivano praticati in quell’epoca per esempio correre lungo le strade con a fianco un cerchione di bicicletta sospingendolo per mezzo di un’astina di ferro ( l’abballoncinu ) inserita nell’incavo del cerchione stesso. E ancora, il gioco a noci che iniziava con i primi di ottobre in occasione della festa di San Bruno e di cui ne ho descritto le modalità nel racconto “Angelo”.

Pochi i giochi riservati alle femminucce. Il più diffuso era quello con la bambola, fatta di “pezza” se si apparteneva a famiglie povere, di celluloide se a famiglie piccolo-borghesi. Quest’ultimo tipo di bambola si poteva comprare soltanto sulle bancarelle, dato che a Serra non c’erano negozi di giocattoli, in occasione delle feste dell’Addolorata o di “Mezzagosto”.

Altro gioco, che non costava niente, era quello “delle pietre”.

Si sparpagliavano su una superficie non molto ampia, cinque o sei sassolini levigati presi nel letto del fiume, dopodiché se ne lanciava uno in alto e nel mentre veniva giù bisognava raccogliere e nello stesso tempo trattenere nella stessa mano del lancio, uno o più di essi; raccoglierli, trattenerli e lanciare un altro sassolino, questa volta messo sul dorso della mano e ripetere l’operazione di prima. Chi non era capace di afferrare il sassolino nella sua discesa e di trattenere contemporaneamente quelli che aveva già raccolti, perdeva il turno. Vinceva chi, con pochi lanci li aveva raccolti tutti . Era un giuoco di abilità e di destrezza.

Altro divertimento con cui le femminucce trascorrevano il tempo libero era quello della “campana”: si disegnava per terra, col gesso, un rettangolo in cui erano tracciate otto caselle, alcune delle quali, come i numeri 4 e 5 – 7 e 8 affiancate dove si potevano poggiare entrambi i piedi. Ciascuna giocatrice doveva procurarsi una pietra abbastanza piatta non troppo grande e neppure troppo liscia, perché non scivolasse.

La regola primaria era che si giocava saltellando su una sola gamba. Per decidere chi doveva iniziare si faceva la conta, la prescelta, quindi, tirava la pietra nella casella numero 1 e poi saltellando, sempre su una gamba, la andava a raccogliere, tornava indietro e la rilanciava nella casella numero 2 e poi nella numero 3 e si andava avanti sempre nello stesso modo fino alla casella 8.

Poi si giocava in senso contrario per cui la pietra si lanciava nella casella 8 e così via fino a ritornare al numero 1. In nessun caso la pietra o la giocatrice potevano toccare le righe che delimitavano le caselle. Se per caso la pietra cadeva in una caselle sbagliata o sopra la riga era “mpiernu” e la giocatrice perdeva il turno e poteva ricominciare, partendo dalla casella dove aveva commesso l’errore, soltanto dopo che tutti avevano giocato. Vinceva chi finiva per prima.

 

Poi le ragazzine ormai adolescenti non potevano più giocare, dovevano aiutare le mamme nelle faccende domestiche per imparare a diventare brave donne di casa e ottime madri di famiglia. Soltanto le ragazze appartenenti alle famiglie bene e che proseguivano negli studi, avevano la possibilità di svagarsi giocando con il “tamburello” o con il “ cerchietto” (giuochi simili) praticati maggiormente durante i saggi organizzati dal Regime Fascista.

Vestivano, per l’occasione, una camicetta e gonna pieghettata, calzini e scarpe da tennis bianchi e, sopra la testa, un nastrino per tenere raccolti i capelli.

Solitamente giocavano in una delle tante piazzette esistenti in paese, meglio se nell’ampio spiazzo della Certosa o di San Rocco o dell’ex campo sportivo. Giocavano in due, una di fronte all’altra, ad una certa distanza; infilavano, incrociati, in un cerchietto di legno due bastoncini, spessi all’impugnatura e sottili all’ estremità e poi tenendolo in alto ed esercitando una leggera pressione sui legni, lo lanciavano; l’altra giocatrice, con abilità e sveltezza, doveva infilarlo con i suoi bastoncini e rilanciarlo.

E i bambini? A loro era riservato il girotondo. Si riunivano nelle piazzette adiacenti alle loro abitazioni, per stare sotto l’occhio vigile delle madri, e prendendosi per mano si mettevano a girare lentamente cantando:

” Che belle figlie che avete madama Dorè, che belle figlie! ”

Ma, ce ne stanno ancora “ bambini” nel mio paese? In quale strada, via o piazzetta si rincorrono per giocare all’acchiapatella o a nascondino o a moscacieca ? Dove sono le gioiose schiere che con voci argentine tenendosi per mano e girando, intonavano:

-Siamo quattro Cavalieri, siam venuti dall’alto mare, fateci passare, fateci passare.

-Ma le porte son serrate, non si può passare, non si può passare….”

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