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Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

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Il cruciverba in serrese

Gioacchino Giancotti
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carbonai tripodi
Nei paesini come il mio, dove c'è tanta abbondanza di legna varia, il carbone da ardere, era ed è molto usato.
Chi non aveva in casa un caminetto o una stufa a legna, usava ancora il vecchio braciere con carboni ardenti. Sul finire dell'estate cominciavano ad arrivare i camion carichi provenienti spesso da Serra San Bruno, che giravano per il paese a vendere il famoso combustibile ed ognuno s'approvvigionava secondo le necessità. In paese i carbonai erano pochi, ma fino a circa venti anni fa, ricordo che c'erano ancora due signori che facevano questo mestiere.
Lo ricordo bene perché tanti anni fa, avendo nel nostro terreno molta legna, mio padre decise di fare del carbone e fu proprio uno di questi signori che ci preparò la carbonaia. Avevamo delle querce secolari e molti pioppi e faggi, così decidemmo di provare. Mio padre, dopo aver preparato tutta la legna in varie pezzature e numerosi fasci di felci secche, chiamò il carbonaio che preparò il tutto. Ricordo che in un vasto spiazzo vicino alla vasca per irrigare (gìabbia) perché l'acqua sarebbe servita, cominciarono ad issare una specie di torre quadrata con i tronchi più grossi lasciando vuoto il centro e man mano andavano allargando a forma di cerchio a terra e a cupola sopra.
I pezzi più grossi stavano all'interno e fuori sempre i più piccoli fino ai ramoscelli più sottili, ma possibilmente verdi, per evitare di bruciare subito. Quando la grande cupola fu pronta, la rivestirono di felci secche e su queste ammassarono tanta terra battuta per bene con una pala. Il monticello ben compattato che aveva l'aspetto di un piccolo vulcano con tanto di cratere, era quindi pronto per essere acceso. Il quadrato lasciato vuoto in precedenza, serviva proprio a questo. Riempito di felci secche e frasche, veniva acceso come un camino e proprio come un camino, cominciava a fumare. Tutt'intorno alla base, il carbonaio praticò dei grossi fori che ci spiegò, servivano alla ventilazione e alla fuoriuscita del fumo. Non era un lavoro semplice né piacevole. Solo se non si provano certe cose non si riescono a capire. Solo allora capisci quanto sudore e fatica c'è dietro a tutto ciò che a noi sembra scontato e dovuto a poco prezzo.
Ricordo che mio padre per qualche giorno dormì lì in campagna perché la carbonaia doveva essere alimentata e compattata spesso e anche sorvegliata perché a seconda di come soffiava il vento, alcuni fori, mi pare andavano chiusi, altri aperti. Dopo molti giorni di lavoro all'addiaccio, quando ormai il grosso era stato fatto e la carbonaia era già cotta e quindi non doveva essere alimentata più, una sera, mio padre stanco, decise di dormire a casa per riposare un po' e convenimmo che l'indomani, io e mia sorella saremmo andati con lui di buon mattino. Svegliarsi alle tre del mattino e mettersi in cammino una mezz'oretta dopo non è certo il massimo, ma ricordo ancora vivamente quella fresca mattina d'autunno. Ancora insonnolita e infreddolita, arrivati al Cannale, mi svegliai incuriosita dal quadro che avevo davanti. Il paese, con le sue case che sembravano tuffarsi da un momento all'altro nel fiume, illuminate dalle luci fioche dei lampioni, sembrava un presepe d'altri tempi. S'udiva solo il mormorio del fiume e il fruscio del vento unito ai nostri passi e camminando al solo chiarore della luna che per fortuna era abbastanza luminosa, lontano dalle luci artificiali dei lampioni, una coltre straordinaria e meravigliosa di stelle che non avevo mai visto, m'affascinò per quei quindici minuti di cammino mattutino. I rami degli alberi, il ruscello che borbottava, qualche uccello disturbato che si destava... tutto sembrava far parte di un mondo magico e senza tempo che ci apriva le porte per entrare ed io assaporavo ogni attimo di quell'alba ancora lontana.
Arrivati sul luogo però le mie fantasie sparirono presto perché già da lontano s'intravedeva un rossore strano che colorava il cielo e che non lasciava dubbi: la carbonaia s'era incendiata. Allungando il passo ed ormai svegli completamente, cominciammo ad attingere acqua dalla vasca per spegnere le fiamme già belle alte. Ci volle un po', ma riuscimmo a domare il fuoco spegnendola completamente, anche dal camino. Mio padre capì subito che c'era stato un venticello continuo durante la notte che aveva alimentato le fiamme verso il lato incendiato. Per fortuna eravamo arrivati in tempo o forse non era tanto che ardeva e quindi, non c'era stata una gran perdita. Era brutta, poi la carbonaia. Prima dava un senso di vivo con quel fumo che svolazzava ora bianco ora azzurrino nell'aria, ora, restava un ammasso informe, dalla parte bruciata, di fanghiglia attaccata ai tronchi carbonizzati e un odore acre tutt'intorno. Con la pala mio padre cominciò a ripulirla un po' scoraggiato, ma in fondo, contento perché ormai il carbone era fatto e se ne era perso poco. Un esperimento riuscito visto che non eravamo del mestiere. Lasciammo asciugare i carboni bagnati e dopo li trasportammo a casa soddisfatti da quell'avventura che però non abbiamo più ripetuto. Certo la nostra è stata una prova, ma a pensarci, quante famiglie vivevano con quel lavoro ormai quasi scomparso? Per non parlare poi dell'utilità che giovava a tutti quando non esistevano stufe e camini o meglio ancora i riscaldamenti elettrici.
I bei bracieri spesso di lucente rame, li potevi vedere sui balconi, sui marciapiedi, sugli usci di casa. Sembra facile, ma anche per far un buon braciere ci voleva un po' di maestria. I carboni più grossi con la loro polverina nera e fastidiosa che volava dappertutto, dovevano essere adagiati in fondo, al centro mentre intorno e sopra, quelli più friabili che dovevano incendiarsi presto e far brace. Per accendere s'usavano le frasche d'ulivo secche o quelle della vite (papatuni) e quando questi diventavano incandescenti, si cominciava a soffiare con un ventaglio o un pezzo di cartone. Le scintille scoppiettanti saltavano curiose di qua e di là soprattutto se c'era vento e quando il tutto diventava di un bel rosso vivo, se si voleva far durare quel calduccio un po' di più, si copriva con cenere che veniva rimossa man mano durante la giornata, a mo' di cupola come la carbonaia altrimenti si lasciava a fuoco vivo alimentato di continuo. Stare sull'uscio di casa a fare il fuoco era spesso un passatempo. Non era raro, infatti vedere capannelli di vicine che sedute intorno al braciere trascorrevano qualche ora pomeridiana intente a far la maglia, ad arrostire peperoni per la cena o far caldarroste magari cucinando legumi nelle famose “pignate” di terracotta che conferivano insieme al calore del fuoco un gusto ed un profumo particolare... profumo d'altri tempi che purtroppo, stanno scomparendo.

Vent’anni fa una ENTITA’ dell’Aldilà mise in guardia Natuzza dal vescovo.
Chiesa Natuzza Cuore Immacolato di Maria
Mi spiace molto scrivere sul Caso Natuzza e lo faccio con estremo imbarazzo e intensa concitazione, dovute al personaggio eccezionale con odor di santità che è stata e che è la mistica di Paravati; ma questo mio stato d’animo viene in parte mitigato da altri giornalisti che hanno scritto prima di me ( in primis Luciano Regolo, da cui traggo spunto per redigere questo scritto, poi Andrea Gualtieri del Corriere della Sera, oltre i giornali on line ) e di cui le fonti e le notizie che hanno fornito, filtrate e verificate da una giusta ed equilibriata informazione in loco, sono serviti a comporre questo sofferto articolo, comunque rivolto a quei lettori e devoti che già conoscono la cronaca del triste accaduto di Paravati.
Ma andiamo ai fatti che hanno scatenato sconcerto e meraviglia nel mondo cattolico. L’attuale vescovo della Diocesi Mileto-Tropea- Nicotera Mons. Luigi Renzo, il primo agosto 2017, ha emesso un decreto con il quale revoca il riconoscimento dell’ente ( Fondazione Cuore Immacolato di Maria Rifugio delle Anime – Cimra - ), avvenuto nel 1999 dal suo predecessore mons. Domenico Tarcisio Cortese, vieta ogni attività di culto e persino la conservazione del Santissimo Sacramento all’interno della Villa della Gioia; con provvedimenti e toni “di tipo medieval conservatore” ( sanciti dal diritto canonico ma anti democratici per lo Stato Italiano ) costringe alle dimissioni don Pasquale Barone ( direttore spirituale della Evolo ) quale presidente della Fondazione, don Michele Cordiano e don Francesco Sicari, rispettivamente parroco e vice parroco di Paravati, sotto comminatoria di sospensione a divinis per disobbedienza; per statuto della Fondazione subentra al presidente uscente, il Vice Presidente Marcello Colloca, illustre avvocato del Foro di Vibo Valentia che insieme ad altri sei soci fondatori votano a favore delle modifiche pretese da mons. Renzo allo Statuto della Fondazione ( contro i 116 no dell’assemblea plenaria del 22.07.2017 ). Nelle sue esternazioni pubbliche e soprattutto nella conferenza stampa del 17 agosto, senza alcun contraddittorio, il prelato ribadisce comunque con bizantine disquisizioni che si tratta di modifiche minime e riguardano solo l’aspetto liturgico, teologico e dottrinale. Tuttavia questo veemente ostracismo contro la Fondazione e contro i suoi stessi sacerdoti, da parte del vescovo, pare sia dovuto al fatto che i suoi subordinati non siano stati capaci di convincere i soci di accettare le modifiche proposte.
Per quanto riguarda le modifiche da apportare e sulla insincerità del prelato, dicono i soci della Fondazione, Niente è vero di quanto affermato e voluto dal vescovo Renzo, principalmente per due ordini di motivi. Il primo è quello di rispettare la precisa volontà della futura Santa che voleva che il regolamento dello Statuto fosse immodificabile, tanto che, nel 1999 l’allora vescovo Cortese riconobbe tutte le prerogative che oggi ha l’ente, anche se, venti anni fa, in una visione ultraterrena con una entità prima non rivelata ( si trattò comunque di mons. Pasquale Colloca morto nel 1901 ), la mistica di Paravati fu messa in guardia che il suo ruolo di messaggera della Madonna ( mons. Renzo pretende di sostituire “messagera” con ispiratrice ) potesse essere messo in discussione da un vescovo succeduto a mons. Cortese! Una profezia drammatica che si è materializzata colpendo oggi la credibilità della Fondazione; concetto poi ribadito e dettato dalla Mistica alla figlia in uno scritto circostanziato in ogni momento verificabile; il secondo motivo riguarda invero la chiara lettura delle norme che regolano l’attività dell’ente e “le modifiche non sono minime”, come aveva affermato il prelato, ma riguardano ben 9 articoli dell’attuale statuto! In sostanza la Diocesi non si deve interessare solo della gestione in via diretta della pastorale e del culto ( che comunque sono attività già riconosciute ex legge dal diritto canonico ), ma anche della gestione “dei beni patrimoniali della Fondazione e del compimento di ogni relativa attività economica”, ciò significa dell’intera gestione.
natuzza dipintoSi aggiunga che per questo articolo scritto da Luciano Regolo ( su “giornalistitalia” del 27.08.2017 ), lo stesso, - che ha scritto più di dieci volumi sulla figura della Mistica di Paravati - in una telefonata di mons. Renzo si è sentito dire di “stare molto attento” alle “gravi conseguenze” che ne sarebbero derivate per tutta l’opera di Natuzza. Aggiunge Regolo:” da credente non riesco proprio a spiegarmi come un vescovo abbia potuto azzerare in toto la componente clericale e poi consegnare la Fondazione a un massone dichiarato come l’avv. Marcello Colloca”. Dice la Chiesa che “i fedeli iscritti nelle associazioni massoniche sono in stato di grave peccato e non possono ricevere la Santa Comunione”. A queste perplessità il prelato non ha risposto. Questa la tesi avanzata dai soci anti Renzo. Ma cosa dice l’altra parte dell’opinione pubblica militese che difende l’operato della Diocesi? alcuni uomini di cultura che stanno dentro le segrete cose, hanno evidenziato che negli anni passati la gestione dei cantieri non è stata chiara e trasparente come doveva essere ( esiste un’inchiesta della Procura di Vibo parzialmente archiviata ) per infiltrazioni mafiose come dicono i giornali e forse pure per “ruberie” ancora oggi da accertare; è logico che il Vescovo pretenda il rispetto delle regole e della legalità onde evitare di legittimare, sotto “il suo ombrello”, attività illecite o sospetti sul ruolo della Chiesa in seno alla Fondazione; hanno pure aggiunto, quale “contorno”, l’antica e latente rivalità esistente tra i militesi ( Mileto ) e paravatesi ( Paravati ) che sono depositari del fenomeno Natuzza e percepiscono la missione del vescovo quale intromissione fastidiosa, sia nella sfera spirituale ( il vescovo però rappresenta la Chiesa! ) e sia nel settore degli interessi economici ( business ). Ma è pur vero che in fin dei conti, questo scontro in atto – all’apparenza tutto in nome di Mamma Natuzza – non è altro che un modo di quasi tutti i contendenti, di accaparrarsi il controllo della Fondazione che rappresenta una gallina dalle uova d’oro fra quelli che traggono vantaggi personali! La città della Gioia è un complesso edilizio con chiesa, centro anziani, casa d’accoglienza e un hospice per investimenti che superano nell’insieme oltre 30 milioni di euro e quindi gestione di potere e denaro: mete preferite ed ideali dell’uomo da quando è comparso sulla terra! Radix enim omnium malorum est cupiditas ( la radice di tutti i mali è la cupidigia ) dice San Paolo, l’avidità dell’uomo, condannata sia nel mondo classico che in quello cristiano come peccato grave, ancora continua a colpire e a produrre danni nel mondo moderno. Allora ha ragione quel vecchiarello che qualche settimana fa incontrai a Paravati e gli domandai per provocarlo: “ma chi succeda qua buonuomu? Lui si guardò intorno e mi disse nella sua semplicità ma da uomo saggio: “ chi succedi…si acchiappanu sulu pa sordi e poi veni idha!”. Già gli aspetti esiziali della controversia in atto cominciano a produrre i loro effetti deleteri nei Cenacoli e nonostante una lettera dai toni pacati dell’attuale vescovo di captato benevolentiae, dice sempre Regolo, essi devoti, “non sembrano abboccare all’amo”, accogliendo algidamente la comunicazione della Diocesi. In conclusione, questa diatriba dagli alti toni non va da nessuna parte ed è foriera di un futuro incerto su quanto costruito dalla Mistica di Paravati. Ne fa le spese tutta l’eredità spirituale di Natuzza che visse nella povertà non prendendo mai un soldo da nessuno!
Ma noi da calabresi, senza enfasi o retorica, pur maltrattati di qua e di là ingiustamente per altre faccende, dobbiamo concludere con una nota positiva e auspichiamo che questa diatriba tra Fondazione e Diocesi presto possa dirimersi, se non altro per salvaguardare e mantenere la dolce venustà di Natuzza Evolo e la bellissima eredità che ci ha lasciato: la sua proclamazione a Santa, 450 cenacoli in tutto i continenti, migliaia di fedeli che vengono a Paravati e affidano a Lei le loro sofferenze e sperano in una vita migliore. Ritorneremo su questo argomento.

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