Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

Serra San Bruno | Mastru Peppi “Stivaleda” e la mastranza di lu “mannisi”.

Mastro Peppe Albano Stivala Serra
SERRA SAN BRUNO –  Nonostante il duro lavoro che ne ha caratterizzato l’esistenza, la parabola umana di mastro Peppe detto “mastro Stivaleda” racchiude in se tutte le sfumature dell’animo autentico di chi, nei boschi ha vissuto con profondità e saggezza succhiando alla propria forza e alla natura, madre o nemica, il midollo della vita. Il duro mestiere di “mannese” di mastro Peppe affonda le radici nell’antichità e trova le sue origini nella figura che sta a metà tra l’artigiano e l’artista, il quale opera con fatica e sudore, con il solo contributo dell’esperienza e della pratica acquisita da generazioni, per sagomare a occhio il legno per mezzo dell’ascia serrese. Durante l’infanzia, le possibilità di studiare erano poche e le necessità erano tante, per questo alla tenera età di 10 anni, Giuseppe incominciò ad aiutare il papà nei boschi della Sila, dove viveva in baracche di legno con la propria famiglia che partiva da Serra San Bruno a primavera, quando la natura sembra svelare la ricetta della rinascita, e vi faceva ritorno a Natale. «Le baracche di legno – racconta mastro Giuseppe - che spesso dovevano proteggerci da un freddo polare generato da tre metri di neve, erano composte da quattro stanze e la cucina e le intercapedini venivano riempite da segatura che fungeva da isolante per il freddo e l’umidità. Il ritmo della vita di allora era scandito dal levarsi del sole e dal suo tramonto, infatti iniziavamo il lavoro a cottimo alle cinque del mattino per terminare il turno lavorativo alle diciotto». Il lavoro di mastro Stivaleda consisteva nello squadrare a mano con l’ascia serrese le travi per le coperture delle costruzioni, le traverse per i binari della ferrovia dello Stato e i cosiddetti “bordonali”, cioè pezzi di abeti dell’altezza da 6 a 16 metri che diventavano gli alberi maestri delle navi della Regio Marina. «Usavamo – ricorda l’anziano mannese – un filo bagnato da una spugna impregnata di un terriccio rosso che ci permetteva di segnare le misure e i bordi dove intagliare poi con l’ascia». La produzione delle traverse, avveniva per mezzo di un procedimento particolare che incominciava con la restrizione della  base di querce secolari con l’ascia e poi, con il loro successivo abbattimento per mezzo di una grande sega manuale detta “struncaturi”; dal tronco, infine, si segnavano e si estraevano il numero e le dimensioni delle varie traverse che venivano dapprima lavorate con la sega e successivamente rifinite a mano con l’ascia serrese. Le traverse cosi ultimate venivano collaudate da un ingegnere che ne stabiliva la loro destinazione. «Lavoravamo – spiega mastro Peppe – con l’ascia serrese che era costruita dagli artigiani di Serra San Bruno e che si caratterizzava per l’occhio di ferro  nel cui foro veniva inserito il manico in legno, mentre la parte tagliente era di acciaio che veniva lavorato e temprato a seconda del tipo di lavoro che dovevamo svolgere. Il manico era in acacia, faggio o leccio». C’erano quindi asce serresi per la squadratura dei tronchi, per la pulizia dei nodi e per la pulizia dei ceppi, mentre l’apposita ascia per il legno di abete era temprata in maniera più resistente proprio per la particolarità morfologica di questo legno. «La nostra – rimembra ancora mastro Stivaleda - era una vita sacrificata, da Serra San Bruno verso la Sila e ritorno, ci sposavamo per mezzo di un autonoleggio, mentre in montagna ci spostavamo a piedi e nessuno mandava i propri figli a scuola perché era necessario che tutti lavorassero per i bisogni della famiglia». In quegli anni la Sila sembrava una enorme periferia in eterno fermento, carbonai, boscaioli, mulattieri, mandriani ed ogni genere di lavoratori prestavano la propria attività, spesso anche sotto caporalato e in condizioni di sfruttamento. Gli operai lavoravano per il puro soddisfacimento dei bisogni esistenziali che li costringeva a diventare serbatoio di manodopera a basso costo di cui si avvalevano i baroni proprietari terrieri. I lavoratori, infatti, facevano la spesa nelle spezierie dei baroni e ogni sei mesi, al momento di riscuotere la paga per il lavoro prestato, lasciavano la differenza come dovuto per l’acquisto di generi alimentari presi per il sostentamento della famiglia, esisteva quindi una sorta di doppio sfruttamento da parte dei ricchi possidenti. Dopo aver lavorato per quaranta anni in Sila e successivamente in molti altri cantieri, mastro Giuseppe “Stivaleda” si gode il meritato riposo, il simbolo più emblematico del suo duro lavoro oltre che nei pensieri lo porta nelle mani che rievocano la forma dell’impugnatura del manico dell’ascia serrese. Il contributo artigianale di mannese che “mastro Giuseppe” ha dato al territorio vibonese è da considerarsi quasi unico, infatti nell’universo calabrese dei legno oltre a racchiudere nei suoi gesti la memoria storica di questo antico mestiere, ne costituisce, attraverso i suoi lavori, che oggi come allora si possono apprezzare nel territorio che fu dei Bruzi, l’espressione più viva. Dai locali rustici che ospitano noti ristoranti dal soffitto in castagno con la travatura a faccia vista, alle coperture lignee delle splendide chiese barocche del comprensorio serrese, le tappe presso le quali è possibile vedere i suoi lavori sono veramente tante e tutte rendono omaggio a questo antico mestiere di cui Giuseppe “Stivaleda” rimarrà per sempre un maestro.

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La mattanza del “porco” nella storia e nella letteratura calabrese.

maiale
Nel 1995 il poeta crotonese, di origini serressi, Bruno Tassone titolava una sua fortunata raccolta di poesie e satire dialettali “Ppi vv’arricurdari i ricurdari”.
E chi dice il contrario? Ricordare, il nostro dovere, il “come eravamo”, “chi eravamo”, “da dove veniamo”; ricordare, insomma, il passato come origine del nostro futuro. Ebbene, sotto questa luce, a me piace ricordare, soprattutto ai nostri giovani lettori, i giovani della nutella e dei pub, un evento che rallegrava e arricchiva le nostre contrade di Calabria tra Natale e Pasqua. Dico “rallegrava e arricchiva” perché ormai sono pochi gli eletti che possono godere di tale festa. Sto parlando…del “porco”, pardon, del “maiale”, sintesi di cultura, storia ed economia. Il periodo del Natale lo ricordiamo sempre tra presepe, albero, zampogne e torroni. Ma subito dopo la Befana veniva l’altra festa: l’uccisione del maiale.
“Chi festa ch’è lu puorcu, gioia mia!/ Comincia versu i primi de jennaru:/ quannu la nivi ammanta puru ‘a via,/ quannu dicia ch’è viernu ‘u pecuraru.”, e ancora: “ ‘A festa rura quasi ‘na bimana:/ ‘u primu jurnu c’è ‘na zimpunia:/ gammiellu, cordicelle e la quadra…U jurnu appriessu: ‘mbitu generale:/ parienti, amici ‘nu catuiu chinu./ Chissa è la festa ranne du maiale:/ pasta, suffrittu, purpettelle e vinu.” come scriveva il poeta di Castelsilano Teodoro Torchia.
Lo capivamo subito quando, nelle nostre serate gelide di montagna, accanto al caminetto il nonno ammulava lu scannaturi e la nonna ammaccava lu sali.
Dopo averlo prelevato dalla ‘nzimba, il maiale veniva legato e scannato e a noi bambini veniva offerta la coraggiosa opportunità di tenerlo per la coda e poi il seguito. Franco Blefari di Benestare ben ricama l’avvenimento con questi versi: “E cinqu ‘ndi levammu: tri perzuni,/ e ‘nta vineglia ppiccicamma ‘u focu:/ passa ‘nu trappitaru e ‘nu garzoni:/…Brusciunu rrami e cippu di livara,/ ‘a notti vaj e veni ‘nta vineglia;/ mama chi attizza ‘ì vasciu d’a cardara/ cummari ‘Ntona ffila se’ curteglia”.
E per Giuseppe Oliverio di San Giovanni in Fiore nella sua Porcheide scrive che “U puorcu porta festa,”… e i giorni della macellazione “su mumenti ‘e vera vita,/ ognunu penza a nun restare affrittu,/ e biviennu e cantannu, ‘a fa finita,/ e se scorda lli riebbita e l’affittu,/ e la mente è cchiù frisca e cchiù pulita.”
Può sembrare storia povera dei nostri poveri contadini antenati. Non è così. Già nelle pitture rupestri di dieci mila anni orsono delle grotte di Altamira in Spagna veniva raffigurato l’evento e successivamente nella tradizione greca-romana e soprattutto in quella etrusca le rappresentazioni della macellazione del suino. Marrone, scrittore romano del 1° sec. a.C., ci ricorda che ai generali che godevano della piena fiducia dei loro soldati, si soleva assegnare il nome di scrofa perché negli assalti, sarebbero stati seguiti dai soldati fino alla fine, così come i maialini con le loro madri. Nelle campagne archeologiche numerosi sono i rinvenimenti di statuette votive raffiguranti fedeli che portano in braccio un maialino da sacrificare alla divinità. Lo stesso Enea avrebbe sacrificato a Giunone la bianca scrofa allattante trenta porcellini, per ringraziarla di aver raggiunto le desiderate coste laziali (Eneide, VIII). Invece, con l’avvento del Cristianesimo le cose cambiano. Nei primi secoli del Medioevo, la simbologia cristiana ne fa del maiale un’immagine del diavolo. Povero maiale, quali le sue colpe? Sant’Antonio Abate, in questi giorni venerato, viene raffigurato con i piedi sulla testa del ricco animale giacchè nel deserto aveva vinto le tentazioni del diavolo. Ma il tempo passa per tutti e col tempo il caro maiale si prende le sue rivincite e viene riabilitato e valorizzato. Così più tardi la pietà popolare ne ha rivalutato l’immagine e, nelle successive rappresentazioni, il maiale, o porco che sia, non è più sotto i piedi del Santo ma al suo fianco come un compagno di viaggio. Infatti è presente nella storia semplice e quotidiana di tante generazioni che per secoli lo hanno adottato ed integrato nella propria economia familiare. “Di lu puorcu nun si jetta nenti”: così dicevamo le nostre madri.
Bella sintesi questo proverbio, bella sintesi della sapienza popolare che per tanto tempo ha saputo e dovuto sfruttare l’utilizzazione complessiva di ogni parte della bestiola, anche di quelle non carnee: il grasso non commestibile come lubrificante, le setole per pennelli e spazzole, i budelli come involucri naturali per insaccati. E i monaci dell’Abbazia di sant’Antonio Abate di Ranverso (Val di Susa) usavano trattare l’Herpes zoster (il ben noto fuoco di sant’Antonio) con un unguento tratto dal grasso suino. E soprattutto: salsicce, soppressate, capicolli, ‘nduja, frigulaji, frittuli, lardu, pancetta e…il mio dolce e caro sanguinaccio. Era il nostro supermercato per un anno e oltre. E così un grazie alla povera bestia lo rende Vittorio Bufera di Confluenti per il quale “Ccu tuttu ca si puorcu, senza cuntu/ ‘usu riguardi e tte deugnu vrudate/ E pecchì ‘u ddici ca ‘stu viernu ‘e scuntu/ menze a sazizze e mezze a supprissate?”
Oggi, poi, l’industria chimica e farmaceutica utilizza il sangue e le ossa per farine alimentari ad elevato valore proteico. Fatte salve le mistificazioni che sono sempre dietro l’angolo. E ancora in campo medico si utilizzano molti ormoni ricavati dalle ghiandole dell’animale che, peraltro, ci somiglia. E comunque il nostro povero sporco maiale, guarda un po’, è proprio il simbolo della prosperità e dell’abbondanza ed è associato al risparmio come emblema del primo salvadanaio.
E Michele Pane di Decollatura scriveva: “ Fràtimma, si lu puorcu nun t’ammazzi,// nun fai né soppressate né sazizze, né mussu t’unti ccu’ lli sangunazzi,// nullu te cura e fàdi civilizze! Cà si propri l’amante vai mu abbruzzi, // illa te sbruffa e negga lli carizze, e cce pierdi li prieghi e ll’amminazzi:// la cuntentizza sua su le sazizze.”

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