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Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

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Il cruciverba in serrese

Gioacchino Giancotti
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Convegno Giuseppe Calvetta
Patrocinata dal Comune di Serra, previa autorizzazione del Sindaco Luigi Tassone che sta dimostrando, insieme alla sua amministrazione, vivo interesse per la cultura; organizzata dalla nostra rivista ( presenti il capo redattore avv. Gerardo Drado e il direttore avv. Domenico Calvetta ) e con la collaborazione concreta di Maria Rosaria Franzè, nuovo Presidente del Consiglio Comunale della cittadina bruniana, puntuale e scrupolosa in tutte le fasi di preparazione dell’evento, si è svolto un interessante dibattito tra studiosi sul tema “Quale eredità del novecento” che parte dal saggio di Giuseppe Calvetta, reduce dalle presentazioni del libro a Bruxelles, Roma e Vibo Valentia, per poi sviluppare un’ampia e nutrita discussione sulle problematiche del secolo scorso. Secondo il filosofo Biagio De Giovanni, in una delle recensioni sul saggio ( 20 marzo 2016 sul quotidiano “Il Mattino “ ) evidenziò come l’autore con argomentazioni valide e dimostrabili nel libro, oggi sostiene che trattasi addirittura di due secoli in uno e di conseguenza, con questa sua affermazione “provata” e confermata dalla storia, capovolgesse la tesi del grande storico inglese Eric Hobsbawm che parlò invece del novecento come secolo breve.
Il diplomatico ha voluto partecipare a questo confronto al “cospetto” dei propri compaesani che in compenso, sia per lui e sia per la presenza degli altri intellettuali, hanno gremito la sala Chimirri nel tardo pomeriggio del 22 agosto 2016. Infine per usare un termine militare, ufficiale di collegamento dell’evento, è stato il prof. Luigi Vavalà che ha egregiamente coordinato i contatti preliminari con i relatori.
Nonostante la complessità degli argomenti trattati ( rivoluzione delle ideologie, dell’arte, della filosofia, della musica ) la gente ha lasciato per oltre due ore “mari e monti” in questo periodo di ferie per partecipare al dibattito, chi per curiosità personale e chi per interesse culturale. Il pubblico all’entrata della sala non ha trovato il saggio distribuito dalla Casa Editrice Franco Angeli ( perché esaurito nella prima stesura ), bensì le recensioni e pubblicazioni di filosofi e docenti universitari che hanno seguito ogni presentazione, distribuiti dalla diciassettenne hostess Benedetta Pisani, scelta insieme ad altre due ragazze ed inserite fra tante, nella nota rubrica della rivista “Santa Maria del Bosco – Serra e Dintorni” Le belle di oggi, studentessa dell’Istituto Einaudi di Serra e promettente scrittrice. Interessante la presenza della giornalista Maria Grazia Franzè quale moderatrice del convegno che ha saputo dirigere il confronto serrato dei membri del tavolo di presidenza, con discrezione e competenza ma con un pizzico di tolleranza in più nei confronti di alcuni relatori che hanno sforato i tempi d’intervento concordati. Quest’ultimi hanno parlato scegliendo alcune delle tematiche che hanno caratterizzato il novecento.
Giuliano Campioni, docente di storia della Filosofia all’Università di Pisa, ha delineato seguendo le indicazioni di Nietzsche che “voleva nascere francese”, lo spiraglio di uscire dalle sussunzioni o sottomissioni alle macchine militari, statuali, ai forti disciplinamenti devoti e feudali soffocanti la libertà dell’individuo. Ha delineato un filo conduttore chiarissimo contro le uniformità e le omologazioni, cancellanti le differenze. Temi forti e attuali. Altrettante importanti le articolate risposte dell’Ambasciatore Giuseppe Calvetta, la sua realistica conoscenza del mondo, il suo disincanto e al tempo stesso le sue speranze per un futuro sostenibile. Articolato il suo libro, meriterebbe una lettura attenta nelle scuole e nelle università. L’intervento di Luigi Vavalà, docente di Filosofia e Storia al Liceo Classico di Trani, ha sottolineato l’importanza notevole della grande guerra e la necessità di superare le comunità organiche e romantiche sostenute dai biologismi, religioni perniciose, miti pericolosi e semplificanti. Antonino Ceravolo, Dirigente dell’Istituto Superiore Einaudi di Serra, ha messo in chiara evidenza l’importanza di alcuni aspetti della psicoanalisi di Freud e la sua influenza nel secolo scorso, centrando in modo molto chiaro il tema della caducità. Armando Vitale , Presidente dell’Associazione Culturale “Gutemberg”, ha voluto dare una lettura molto articolata del lungo Novecento, rifiutando la categoria generica del totalitarismo…Ottima l’attenzione del pubblico, pregnanti e significative le domande. Insomma una bella serata di discussione sobria, appassionata e per niente intellettualistica, seguita da un simposio dove si sono coniugate l’assaggio di prodotti tipici e la continuazione di discussioni su tematiche ideologiche fra i relatori del dibattito. Visto il successo incassato e al di sopra delle aspettative, si è pensato di organizzare una seconda edizione della Rassegna di alta cultura di agosto 2017!

azaria tedeschi lettere dal fronte
«Oggi vorrei essere un pidocchio: almeno questi, di cui alcuni in piena padronanza passeggiano sulle mie spalle, stanno al caldo, mentre io … nevica e siamo a oltre duemila metri. Ho una tana, nella quale ho fatto accendere del fuoco, ma temo di fare la fine del ghiro. Ad ogni modo sto bene e anche la nevralgia non mi tormenta più». Vorrebbe essere un pidocchio, per stare al caldo, così scrive dal fronte Azaria Tedeschi il 20 ottobre del 1916 alla cugina Peppinuzza, destinataria delle sue lettere (e viene in mente il grande viaggiatore e scrittore Bruce Chatwin, che, invece, sostiene di essere, e non di voler essere si badi bene, una rondine). Peppinuzza - Giuseppina Tedeschi, di 9 anni più piccola - è la destinataria della corrispondenza di Azaria, oggi conservata presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, che comincia da Bengasi il 29 febbraio 1912 con la ormai nota lettera sull’«anima mussulmana» (nota perché già pubblicata dal “Fatto quotidiano”), si interrompe sino al 26 aprile del 1915 e da quella data continua intensamente fino all’8 settembre 1917, con la ripresa della notizia del suo ferimento alla coscia destra («senza ledere né osso né nervi») di cui aveva parlato in una precedente missiva del 5 settembre. Azaria Tedeschi, ufficiale di carriera del 79O Fanteria, medaglia d’argento al valor militare proprio per la ferita sulla Bainsizza («per una fucilata sparatami da un testone di croato») raccontata nelle due lettere a Peppinuzza sopra richiamate, era nato, com’è noto, a Serra il 30 gennaio del 1887 e morto alla testa del suo battaglione il 25 ottobre del 1917. Una morte eroica, che gli era valsa la medaglia d’oro al valor militare alla memoria conferita il 4 luglio di tre anni dopo con questa motivazione: «Non ancora completamente guarito da una ferita riportata in combattimento, di propria iniziativa accorse ad assumere il comando del suo battaglione che sapeva in procinto di essere impegnato nella lotta. Sferratosi un improvviso, irruento attacco di forze nemiche grandemente superiori, che in breve creò al reggimento una situazione disperata di confusione e di isolamento, conscio della estrema gravità dell’ora, alla testa delle sue truppe, corse con serena decisione e straordinaria fermezza ad arginare l’uragano, ma premuto sempre più dall’impeto di un avversario tre volte soverchiante per numero e per mezzi ed imbaldanzito ormai dal suo successo, con eroica decisione ed incitando col mirabile esempio del proprio ardimento i dipendenti, per primo si slanciò a capo fitto contro la ferrea cerchia degli assalitori, ed insieme con le proprie truppe si impegnò con essi in violento corpo a corpo, che con accanita tenacia sostenne, fin quando cadde gloriosamente colpito a morte». Le sue lettere, anche tragiche nel racconto di uccisioni e ferimenti, nel terribile resoconto delle notti al gelo, degli abiti inzuppati per giornate intere, dei vestiti mai dismessi per quaranta giorni consecutivi e delle scarpe una volta non levate per oltre una settimana, sono, tuttavia, attraversate dal filo rosso dell’ironia, di una certa levità e serenità che non le abbandona, tanto da sembrare un antidoto, una sorta di “salvavita” dentro le feroci “tempeste d’acciaio” della I guerra mondiale. Si pensi alla vicenda della sua “amante”, la cornacchia Borcoletta, che diventa compagna nell’antro in cui Azaria trova riparo: «Dimenticavo il più bello: la mia caverna io la divido con una compagna. Arricci il naso? Non so che farci. In una mia ricognizione ho catturato … una austriaca? Un’austriaca, dato che è nata in territorio soggetto agli Asburgo, ma una austriaca cornacchia. […] Una cornacchia autentica, che ora da padrona si aggira nel modesto antro» (lettera del 25 giugno 1915). E in una lettera successiva: «Povera bestiola, non sta molto bene. L’altro giorno per rubare della pasta è andata a finire con una gamba nella marmitta con l’acqua bollente. Si è scottata e spennata un poco, ora zoppica e non può camminare molto e perciò passa le sue giornate appollaiata sul tetto della mensa. Grida e protesta se tardano a portarle la sua razione di carne, perché malgrado tutto conserva un discreto appetito» (9 agosto 1915). Il segreto di questo suo atteggiamento è Azaria stesso a “svelarlo” nella lettera a Peppinuzza del 5 maggio 1916: «Del resto anche la guerra, come tutte le altre calamità e tutte le cose umane, è destinata a finire […]. Un po’ di pazienza, un po’ di rassegnazione, della vita bisogna guardare solo il lato bello e mettere nel dimenticatoio tutto il resto. Io, vedi, è da un anno che mi trovo in guerra, ma se dovessi continuamente pensare a essa a quest’ora sarei sottoterra o nel manicomio: invece sono contento e allegro, sto benissimo, […] alla guerra penso quel tanto che è necessario e non più poi … poi ho il mio cardellino, che canta sempre […]». Non certo un ottimismo ingenuo, facilone, ma la consapevolezza, chiara e lucida, della precarietà e della finitezza, da affrontare quasi con stoicismo, come ben si vede in un’altra epistola: «Mi dispiace per la morte di quei quattro serresi e specialmente quella di Micuzzo Barillari. Ho scritto ad Alfonso facendogli le mie condoglianze. Del resto di questi tempi per noi militari vale l’antico detto: oggi in guerra domani sotterra». Forse, in trincea, era la più opportuna tecnica di sopravvivenza.

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