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Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

Domenico Calvetta
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Il cruciverba in serrese

Gioacchino Giancotti
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Ringraziamo il nostro collaboratore serrese Francesco Pisani, "Cicciu Pisani di li Guerri", che dal Canada partecipa attivamente da 12 anni con la Rivista Santa Maria, proponendo sempre articoli interessanti e racconti inediti.
Amalfi cattedrale
Quando l’avvocato Calvetta, direttore della Rivista Santa Maria del Bosco, lanciò l’idea di raccontare “fatti di muorti”, per me fu un invito a “pasta e carni”. Avevo trattato l’argomento una ventina d’anni addietro su l’Altra Calabria. Quanto segue lo riporto pari pari dal mio libro “Il portone”.
Nelle lunghe serate d’inverno, prima dell’avvento “televisione”, chi aveva la corrente elettrica, possedeva, tutt’al piú, un apparecchio radio (e per quelle poche famiglie che lo possedevano, bastavano le dita delle due mani per contarle). Chi no,passava le serate al braciere raccontando favole e fatti di morti. Abbiamo già parlato dei lavori a maglia o all’uncinetto che si facevano attorno al fuoco. Allo stesso tempo si raccontavano favole. L’argomento però che attirava tutta l’attenzione e che lasciava tutti a bocca aperta (anche se ripetuto diecine di volte) era quello dei morti. Il solito spiritoso non mancava mai, quando il racconto toccava la parte piú paurosa, di lanciare un grido o fare un rumore tale da spaventare gli ascoltatori.
Il primo fatto che mi viene a mente è quello della cattedrale di Amalfi (se non è successo là, sarà successo altrove, o non sarà mai successo, quel che conta è il fatto).
Si racconta dunque, che nella bella cattedrale di Amalfi, in certi giorni precisi dell’anno,quando il sagrestano apriva la chiesa per la prima messa,trovava i banchi rovesciati; ciò succedeva da anni e nessuno riusciva a dare una spiegazione.
Una sera, il figlio del sagrestano, stanco di dover aiutare il padre a mettere a posto i voluminosi e pesanti sedili, parlando col parroco, si lagnava dell’incapacità di questi di risolvere il problema del rovesciamento dei banchi. Tantopiú, diceva, che il padre non era in grado di maneggiare i pesanti scanni e che dunque stava a lui aiutarlo; anzi, aggiunse, l’avrebbe fatta finita rimanendo in chiesa a vedere chi si divertiva a mettere sottosopra i citati banchi.
Evidentemente non doveva essere scarso di coraggio. A quei tempi i morti si seppellivano sotto la navata centrale delle chiese e passare la notte in tanta compagnia non era facile per gli sprovveduti di fegato. A mezzanotte in punto (come per tutte le storie dei morti che si rispettano) uscì dalla sagrestia un prete parato e pronto a dir messa. Accese due candele, depose il messale sull’altare, s’inginocchiò sul secondo gradino, fece il segno della croce ed incominciò:
“-Et introibo ad altarem Dei.”-
Poi, girata la testa sulla sinistra e non ricevendo la risposta del chierico, andò verso la navata e, con forza sovrumana, rovesciò tutti I banchi. Ciò fatto scomparve da dove era venuto: dalla porta della sagrestia. Dopo l’immediato sbalordimento, il baldo giovane andò a raccontare il fatto al curato, il quale come si trattasse di cosa da niente, fece al figlio del sagrestano, il seguente discorsetto: “Giacché hai dimostrato di avere tanto coraggio, va fino in fondo. Quando il prete inizia la messa, rispondigli”.
L’indomani notte, puntualmente,il giovane si fece trovare in chiesa. A mezzanotte la scena della notte precedente: Il prete arriva, poi, accende due candele, depone il messale, s’inginocchia ed incomincia:
“-Et introibo ad altarem Dei-.”
“-Ad Deum qui letificat juventutem meam-.” Rispose il figlio del sagrestano
“-Confitebor tibi in cithara Deus meus: quare tristis es anima mea -.”
“- Et quare conturbas me-?” Rispose ancora il giovane.
“- Spera in Deo, quoniam adhuc…-
Insomma, fra l’officiante ed il servente, si era creata quella comunione che imponeva il momento. Sino alla fine, quando, preso il messale, il giovane precedette il prete in sagrestia dove il sacerdote esclamò:
“Grazie a te e al tuo coraggio, figliuolo,sono ormai salvo. Da tanti anni soffro in Purgatorio. Da vivo avevo incassato soldi per delle messe che, per pura negligenza, non ho mai recitato. Grazie a te posso ora sperare nel perdono di Dio.”
Ciò detto sparì.

Un parallelo difficile, fra tante diversità…qualche comunanza.

alla luna
A 104 anni dalla morte del poeta serrese ( 1912-2016) ho pensato di non scrivere -almeno per adesso- la sua biografia e commentare le sue composizioni in vernacolo ( ‘operazione’ già eseguita da miei illustri predecessori…) bensì di trattare un argomento davvero singolare che è quello di un confronto critico tra due poesie fra le più belle della letteratura italiana. Infatti la tematica che mi cimento ad illustrare sia pure brevemente, viene proposta al lettore pur nella consapevolezza delle insidie che presenta il campo minato della critica letteraria. Suonerà strano questo parallelo anomalo fra due personaggi, vissuti nello stesso secolo – strana coincidenza, Leopardi morì nel 1837 mentre Pelaggi nacque lo stesso anno e morì nel 1912, anno nel qualè morì il Pascoli - ma diversi di ceto, d’indole e ovviamente di formazione culturale. Fatta questa utile e necessaria premessa entro subito nel vivo della trattazione.
Da un approccio mirato dentro lo spirito delle due composizioni poetiche, si evince che le uniche affinità sono il titolo “Alla luna” e il pessimismo endemico degli autori, ma già quest’ultimo è diverso; un pessimismo “artigianale”, ovvio e forse rude nell’opera del Pelaggi contro un pessimismo per c.d.“élitario”, dolce e sublime nel Leopardi che infonde nel sensibile lettore un intenso pathos di lieve pianto. L’uno e l’altro colpiscono l’animo da diverse angolazioni suscitando emozioni variegate, ma pur sempre emozioni forti. Un pessimismo quello del Pelaggi che pesca nello stagno disperato del sociale, mentre quello del Leopardi un pessimismo che raccoglie le sue rose nel Giardino di Mnemosine, cioè che fruga nella memoria i dolci ricordi con stile semplice ed icastico insieme. Tutte e due si rivolgono ad un astro muto pur nella consapevolezza che non può rispondere né alleviare il loro dolore, ma lo fanno lo stesso preferendo più la freddezza ed indifferenza della luna che quelle dell’essere umano già sperimentate. Proprio Mastru Brunu aveva diretto le sue doglianze e contestazioni, condite da simpatiche parolacce, a Re Umberto I, al Diavolo, alla Vergine Maria e nientedimeno al Padreterno, ma da ciascuno di essi non ebbe mai risposta perché le sue composizioni, non furono mai spedite, mai recapitate o giunte ai destinatari. E poi, a parte il Monarca Sabaudo, gli Altri non avevano certo bisogno della posta per recepire il messaggio sociale dell’autore serrese.
Altre diversità fra l’idillio del Leopardi e la composizione del Pelaggi e l’aver usato la lingua italiana il primo e il linguaggio vernacolare il secondo ( oltre la brevità e lungaggine delle rispettive poesie ). Da notare l’atteggiamento ostentato dei due nel rivolgersi a questo astro silenzioso che è quello di richiamo accorato ed energico (“incazzatura” ) da parte dell’autore serrese, mentre il poeta di Recanati si rivolge con gentilezza estrema, usando un linguaggio costituito da sottigliezze di altissima poesia come “ oh grazziosa luna …o mia diletta luna…”, così come l’innamorato si rivolge con agape e tenerezza alla sua amata.
Il Pelaggi considera la luna come un corpo celeste vivente, esortandola a cambiare la sua fortuna…”datu chi tuttu pue…( dato che tutto puoi) attribuendole poteri soprannaturali, ma poi spazientito le dice” Luna si non niscia quant’era miegghiu!” ( Luna se non nascevo quant’era meglio!). Ma la luna continua a stare muta davanti alle lamentele del poeta, tanto che lui l’apostrofa con parolacce, non temendo consapevolmente la reazione di essa: “ Ma mo chi cazzu pigghiu ca ti lu dicu attia: para ca sienti a mmia ntra’ sta nuttata…” ( Ma mo che cazzo guadagno che parlo con te in questa nottata ). “ Tu, ggià, non sì mparata? Cchiù crudeli di chistu! Si tti gustasti a Cristu chi muria! ( Tu già non sei abituata? Più crudele di questo! Ti sei gustata il Cristo mentre moriva!), volendo dire che essa è rimasta indifferente davanti alla morte del Cristo e certamente non può sentire pena per quello che succede a lui. Continua nelle sue doglianze affermando che dall’inferno sono scappati i demoni che portano lo scompiglio nel mondo e che ormai l’essere umano ha perso la coscienza e non esiste più la Provvidenza per la povera gente ( punto in cui si nota l’attualità del poeta calabrese ). Solo il Padre Eterno potrebbe risolvere questi problemi e che lui si è già rivolto dicendole come la pensa. Continua l’autore nel suo lamento affermando che quel silenzio dell’astro offende pure Dio che non s’accorge del cuore piangente del poeta. Intanto nella serata d’estate nella quale la luna dà l’ispirazione al Pelaggi, c’è gente che si diverte e mangia e c’è gente che invece insieme alla cicala canta guai; ma Tu luna, dice il poeta indignato, “ndi strafutti” ( te ne freghi) e sopra di noi ti alzi e sali “ lu stiessu fai dimani e nnui murimu” ( tu lo stesso fai domani e noi intanto moriamo ).
In fondo la composizione del poeta serrese, pur essendo intrisa da presenze metafisiche come la Provvidenza - entità che ha sempre affascinato la filosofia antica pagana, veicolata con maestria nella religione cristiana - alla fine di essa, il nostro, conclude con un versetto disperato dove evidenzia il corso ellittico eterno dell’astro ( quindi fisico e materialistico diverso dall’inizio della poesia ) che illumina con indifferenza le miserie e le brutture del mondo. Proprio in queste parole che chiudono la poesia in vernacolo, scaturiscono la sorte ineludibile e il problema escatologico dell’essere umano.
Nella lirica del Leopardi non vi è traccia di presenze metafisiche. Il tema principale sono i ricordi. L’anno prima il poeta osservò l’epifania della luna ergersi sul monte Tabor con gli occhi velati di pianto. Non è cambiato nulla da allora (…ne cangia stili o mia diletta luna...) continua la sofferenza esistenziale del poeta nel ricordare quella luna che ispirò il suo idillio, solo che “le ricordanze” anche se tormentosi col trascorrere del tempo appaiono dai contorni sfumati e quindi meno dolorosi davanti a quell’astro che è sempre lo stesso nel suo percorso eterno.
Lo spazio “galeotto” della rivista ci costringe a concludere questo anomalo e forse utopico confronto fra due delle più belle composizioni della letteratura italiana ( anche vernacolare ) ma alla fine ci rende soddisfatti del lavoro fatto, perché per la prima volta, da calabresi, con qualche forzatura e con un pizzico di fantasia, abbiamo fatto cavalcare il nostro Mastro Bruno Pelaggi sul Cavallo del Sublime poetico del Leopardi che corre verso l’Eternità.

Alla Luna (di Mastro Bruno Pelaggi)
Povaru Mastru Brunu,

quant’appa mu ’ndi vida

e quant’appa mu grida

fin’a mmò!

 

Cu sapa chi ’nci vò

mu cangirìa furtuna?

Fuorzi chi tu, ghuè luna,

sapirissi,

 

si ’n casu volarissi,

datu chi tuttu pue,

cà culli giri tue

puru nescimu.

 

Fuocu, quantu patimu!

Jio sparti mo’ sapìa

cà mancu ’n casa mia

puozzu muriri?!

 

Mu mi ’ndi puozzu jiri

vurrìa, allumènu a ppedi;

cà si ’n casu adapèdi

viegnu menu,

 

vurrìa mu sugnu armenu

vicin’a ccu mi ciàngia,

e non a cu’ mi scangia

pi nnu cani.

 

Vinni m’abbùscu pani

e quasi non putenti,

ed ammienzu ’st’aggenti

su ’nu stranu;

 

e si sutta a ’stu vanu

l’uocchi pi sempi chiudu,

si m’atterranu nudu

è puru assai!

 

E di pue (non sia mai!),

sup’a ’stu cuorpu muortu,

senza mancu cumpuortu

di ’na cruci,

 

la notti, quandu luci,

tu truovi ardichi e spini

chi cancellanu ’mpini

a Mastru Brunu.

 

Non crijiu cà ’stu dunu

lu Cielu ’nci stipàu,

cuomu ca puru ’nzurtau

lu Patritiernu!

 

Però, picchì lu ’mpiernu

pi mmia cumincia prima

e ccu arrobba e jistima

si la goda?

 

Su’ piéju di cu froda

sup’a ’na martidhata,

chidd’anima scancata

di l’avaru?

 

Quant’agghjuttìvi amaru

’ntra ’st’esistenza mia!

Luna, si non niscìa

quant’era miegghju!

 

Ma mo’ chi cazzu pigghju

ca ti lu dicu a ttia:

para ca sienti a mmia

’ntra ’sta nuttata?

 

Tu, ggià, non si’ mparata?

Cchiù crudeli di chistu!:

si tti gustasti a Cristu

chi murìa!

 

Jio mo’ chi bolarìa,

di mia mu sienti pena?

Tu ti guodi la scena

e passi avanti!

 

’Ntra ’stu mundu briganti,

chinu di rivuturi,

chi chiova, di duluri

e patimienti,

 

tutti l’abbiertimienti

cuntra l’inimicizzia

pi lla bona amicizzia,

e lu pirdunu,

 

li fannu a nnui chi ognunu

atru non suspiramu,

e, ciangiendu, circamu

fratillanza

 

di chidhi chi lla panza

pòrtanu sempi china,

di chidhu chi camina

’mbastuncinu,

 

lu riccu signurinu

chi mancu ti saluta

e chi sulu t’aiuta

pimmu muori.

 

Sacciu si fazzu arruri?

Cu è c’avarìa mu ceda,

lu povaru ch’è preda

o lu tirannu?

 

Idhi, chi fannu fannu,

hannu sempi ragiuni:

sprùttanu lu minchiuni

e la ’gnuranza.

 

Pi chissu la crianza

quasi sempi pirdivi

e frustai muorti e vivi

ad unu ad unu!

 

Si pue spari a corcunu,

la leggi ti ruvina;

però a ccu t’assassina

cu’ la fami

 

nci ràpira li mani

e sparti li prutéggia;

e nnui pi ’nu manneggia

simu rei.

 

Di ’mpami e farisei

lu mundu è chinu paru,

ca si mortipricaru

a non finiri.

 

E putimu durmiri.

Non ci ’nd’è cchiù riparu;

di lu ’mpiernu scapparu

li dimuoni.

 

’Ntra li puopulazziuoni

si pirdiu la cuscienza;

non c’è cchiù pruvidienza

pi nu’ atri!

 

Sulu lu Tiernu Patri

sapirìa chi mmu fa.

Jio ’nci lu dissi già

cuomu la pienzu.

 

Ma tu, cu ’stu silenziu,

chi ’nzurta puru a Dio,

vidi lu cuori mio

cuom’è chi ciangia;

 

e cu diverta e mangia,

’ntra ’sta bella sirata,

e ccui fa sirinata

e ccu si sciala;

 

e ccui cu’ la cicala

si menta e canta guai.

Tu passi, ti ndi vai,

ti ndi strafutti,

 

e supa di nui tutti

muta tu t’irgi e ’nchiani.

Lu stiessu fai dimani

e nnui murimu.

 

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