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Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

Domenico Calvetta
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Il cruciverba in serrese

Gioacchino Giancotti
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piazza san giovanni 1852 ceravolo
Svizzero e chirurgo del tredicesimo battaglione cacciatori, Horace Rilliet (Unterseen, 17 novembre 1824 - Napoli, 6 agosto 1854) era giunto a Serra nell’ottobre del 1852, dopo essere passato per Simbario e Spadola, dove gli abitanti posti sulle soglie delle case con delle torce accese in mano, gli avevano prodotto un’impressione solenne e spaventosa, tanto da far pensare «a una doppia siepe di spettri funebri». In Calabria e a Serra, Rilliet si era portato al seguito di Ferdinando II di Borbone, il quale, come racconta Raffaele De Cesare, verso la fine di settembre del 1852 aveva voluto «dare agli esercizi autunnali d’istruzione per l’esercito un’importanza maggiore del consueto», ordinando «che una colonna mobile, formata da due divisioni con otto squadroni di cavalleria e venti pezzi di artiglieria, partisse alla volta delle Calabrie». E dal viaggio di Rilliet era scaturito un singolare prodotto tipografico (Colonne mobile en Calabre dans l'anné 1852  pubblicato a Ginevra, con ogni probabilità nel successivo 1853, presso la stamperia Pilet & Cougnard), dal formato di un piccolo album di 174 pagine quasi tutte corredate con gustosi disegni di mano dello stesso Rilliet e stampate con tecnica litografica che riproduce perfettamente il manoscritto originale. Libro, peraltro, tra i più rari tra quelli sul meridione d’Italia, come già aveva segnalato Benedetto Croce, che, tuttavia, adesso si può leggere anche in una recente traduzione italiana pubblicata dall’editore Rubbettino. Di Serra e delle Serre Rilliet era rimasto colpito soprattutto dal paesaggio naturale, che nella sua osservazione, non esente da pregiudizi etnocentrici, veniva assimilato al più familiare ambiente montano di oltre confine: «Il paesaggio ha interamente il carattere delle nostre montagne svizzere; una segheria di tavole, collocata sul corso del ruscello, lungo il quale sono sparsi tronchi d’alberi, la casetta grossolanamente costruita, con tavole mal collegate, la foresta di abeti da dove esce spumeggiante la cascata che fa girare la segheria, tutto ciò forma un quadro alpino dei più pittoreschi. Certamente in mezzo a un paesaggio simile si fa fatica a non credere di essere in un paesaggio del Nord, in una delle tante vallate sperdute nelle montagne dell’Oberland o del Valais, mentre ci troviamo nell’estremità dell’Italia, nella più calda provincia del paese, dove come canta Mignon, fioriscono i limoni e le arance brillano come palle di fuoco nel loro scuro fogliame». In altri termini, il carattere alpestre del paesaggio veniva posto da Rilliet in contrapposizione con il luogo comune, accettato acriticamente, di una Calabria terra di agrumi, nella quale il territorio delle Serre avrebbe rappresentato, a suo dire, un’anomalia, un’eccezione degna di nota. Il suo sguardo non era in grado di “porre tra parentesi” il proprio corredo di immagini acquisite né di scrutare con “occhi nuovi” una realtà fino a quel momento pressoché sconosciuta: allo stupore nel non imbattersi in quello che si attendeva di vedere si accompagnava il compiacimento nel ritrovare proprio ciò che mai avrebbe pensato di osservare. D’altra parte, il racconto di Rilliet costituiva una documentazione di prima mano – purtroppo non esente da errori - sugli effetti della storia calabrese degli ultimi settant’anni (dal macro-sisma del 1783 al decennio francese, dai problemi legati all’insorgenza delle bande brigantesche alla rivoluzione del 1848), colti, come in un fotogramma, in un suo specifico momento e organizzati come tessere essenziali di un mosaico storico che era continuamente evocato, almeno ogni qual volta un luogo, un personaggio, un nome ne sollecitavano un’associazione o un richiamo. Se ne ha una testimonianza evidente a proposito del terremoto settecentesco, di cui si ricordano le rovine, le distruzioni, i lutti e del quale, in alcuni importanti esempi, i disegni dell’autore “esibiscono” le reliquie architettoniche e monumentali. Si veda proprio il caso della Certosa di Serra San Bruno e della documentazione iconografica relativa allo stato delle sue fabbriche. Due disegni in particolare, inseriti alle pagine 132 e 133 dell’edizione originale ottocentesca, si segnalano per il loro valore documentario. La prima immagine è una veduta d’insieme dell’area prospiciente l’ingresso della chiesa conventuale cinquecentesca, con la facciata diroccata che lascia chiaramente vedere il fenomeno delle guglie ruotate nel secondo ordine e con il chiostro dei Procuratori nei cui pressi si eleva una fontana in pietra; mentre la seconda immagine consente di cogliere, prima del loro smembramento, il colonnato del cimitero certosino - con la croce in mezzo che Rilliet dice spezzata - e i ruderi del chiostro dei Padri claustrali, con i due ordini sovrapposti perfettamente visibili. Tuttavia sbaglierebbe chi dovesse ingenuamente ritenere del tutto corrispondente al vero la testimonianza di Rilliet, proprio perché formata “in diretta” e a stretto contatto con i fatti. L’esempio dei disegni sulla Certosa è illuminante anche sotto questo aspetto, se si pensa che sfuggono alla sua penna, nelle nicchie al lato della porta d’ingresso della chiesa, le due statue di San Bruno e S. Stefano che vi erano certamente collocate e che sono documentate, ancora in quella posizione, in una foto degli ultimi anni del XIX secolo. Insomma, una testimonianza, quella del chirurgo ginevrino certamente eccezionale, ma da filtrare, come ogni testimonianza, con la lente paziente e attenta della storia.

Fiume allaro
In questo strano inverno, con un febbraio caldo, quasi fosse un periodo tardo primaverile, lascio Nardodipace, lungo la strada  che porta a Caulonia, per il mio viaggio lungo l’Allaro e la sua storia .
Allaro, un nome dall’etimologia incerta, ma la leggenda dice che potrebbe essere legato al nome dell’Eremo, oppure al nome di un condottiero italiota, un certo Elleporus,  morto nel 388 o 389 a C., in battaglia, forse, sulle sponde di questo fiume.  
In vista di  Caulonia mi fermo per una breve sosta, qualche attimo, per ammirare la città dall’alto e, via.
Pochi minuti e sono sulla via principale del paese; mi guardo intorno e vedo ancora i segni di un passato ricco di storia:  stemmi nobiliari, palazzi, chiese, ma è nella Chiesa Matrice che trovo tracce della storia più interessante di questo grazioso paesino medievale. La tomba, oggi monumento funerario dove è sepolto Giacomo Caraffa, sin dal 1483.
Mi prometto di ritornare.
Lascio la piazza davanti alla chiesa e, scendo lungo i vicoli dell’antica Castelvetere, perché è così che si chiamava l’odierna Caulonia sin al 1863, anno in cui venne cambiato nome.
Poco dopo mi muovo lungo i suoi viali stretti e tortuosi, quasi fossero lettere dell’alfabeto greco, scendo e mi trovo davanti ad una chiesa il cui accesso alla piazzetta mi è impedito da una enorme cancellata in ferro battuto.
Lo spettacolo che mi si para d'innanzi è a dir poco straordinario.
Rimango estasiato; mi avvicino ancora di più; le sbarre di ferro in verticale del cancello m'impediscono di andare avanti, mi fermo, involontariamente reclino leggermente la testa, con una lieve inclinazione in avanti ed un po’ a sinistra; il raggio di sole che scalda con un tepore quasi primaverile, la mia guancia sinistra e la mia nuca, è complice di un maggiore intontimento, se non addirittura di un rapimento dell'anima.
-Peccato!-
 E' l'unica cosa che riesco a dire; o meglio, ad esclamare.
Il mio cervello, avvolto come da una strana sensazione di pacatezza,  riesce a far dire a me stesso: "Avrei visitato volentieri l’interno della chiesa ed osservato meglio la sua facciata neoclassica baroccheggiante e stilisticamente armoniosa". Ma, come ridente per quel caldo raggio di sole che la illumina, vedo, nella parete concava della nicchia laterale destra, quello che rimane di un dipinto di un angelo con il suo indice destro elevato al cielo (senza il Timèo), secondo la rappresentazione raffelliana del concetto platonico di Dio. Sono ammirato, estasiato, dolcemente confuso, da quel che rimane di quella pittura murale, per il suo  significato su  e in  quel contesto storico. Così, dopo qualche minuto, lascio alle spalle la chiesa e nella direzione diagonalmente opposta, mi trovo di fronte ad un palazzo nobiliare di fine settecento,  con delle rappresentazioni in rilievo di un satiro danzante, con  la sua eterna uva e  la sua perenne faccia infantilesca: un po’ inebetita un po’ sorniona, sulla facciata  principale; espressione di visione illuminista ed illuminata. E, sull’altra parete, quella che si orienta a sud-est, invece, sempre in rilievo, un saraceno con degli enormi baffi ed una lancia, a testimonianza di un passato ricco di storia e saturo di implicazioni umane; mentre, con il suo sguardo pensieroso, il saraceno, volgendosi al mare ed al suo Oriente, sembra richiamare alla sua mente affetti tensioni e passioni di un territorio lontano, che con i suoi profumi, le sue spezie ed i suoi harem, potranno rivivere in un flash, visioni immaginarie di momenti vissuti.  
Mi immetto di nuovo sulla provinciale che porta al fiume, dalla quale osservo delle strane, ma belle conformazioni geologiche a forma di pinnacoli o di enormi seni, i quali, visti dall’alto, sembrano danzare come una ballerina spagnola.
Dopo una breve escursione sulla cima dei pinnacoli, riprendo il mio viaggio lungo la strada che costeggia il fiume e porta all’Eremo di San Ilarione. Circa un chilometro dopo le suggestive conformazioni geologiche, il paesaggio comincia a cambiare.
Mi fermo, scendo dalla macchina per qualche ripresa, ma  il silenzio, il cielo azzurro vivo ed i colori riflessi nelle acque dell’Allaro, mi fanno venire in mente le parole di Strabòne, degli altri classici e della tradizione, i quali  identificano, in questo fiume, le sponde del  vecchio Sagra, antico nome  di  un fiume che divideva il confine tra le città stato di Locri e Crotone. Rive, sulle quali, nel 560 a.C.,  15 mila locresi avrebbero sconfitto 130 mila crotoniati, causando l’inizio della fine della città di Pitagora.
La leggenda, estrapolando dalla palude nebbiosa della memoria le sue “verità,” dice che l’esercito crotoniate sarebbe stato  raggiunto e finito dove iniziano le  colline, luogo sul quale  poi sarebbe sorto un altare votivo dedicato a Castore e Polluce: i dioscuri tebani, venuti in soccorso dei locresi.
Ma, lascio la storia e forse le sue fantasie e le sue leggende,  mi rimetto in macchina, ed in poco meno di dieci minuti arrivo all’Eremo. Situato su uno sperone di roccia sulla sinistra del letto del fiume, immerso nelle voci del silenzio e nel suono dolce dello scorrere delle acque, lo vedo osservare, dall’alto della sua millenaria esistenza, come un vecchio seduto davanti all’uscio di casa, col mento poggiato sul bastone ricurvo, guarda il bambino giocare;  così, egli scruta l’adagio a volte  scorrere delle acque ed il lento passare  del tempo e della storia.
La bellezza del luogo, il rumore dell’acqua in sottofondo e l’aria di spiritualità da cui sono avvolto, mi fanno ripiombare di nuovo nella leggenda.  E cosi, tra me e me, mi domando. E se avessero ragione gli antichi? Se questo fiume fosse il vecchio Sagra? L’ Eremo, per quello che sappiamo, identificato come di sicura matrice bizantina in periodo normanno, dalla  sua architettura,  potrebbe (idealmente) anche poggiarsi, forse, sui resti di quel luogo di culto “costruito” nel sesto secolo a.C.
Storia che si unisce alla leggenda o viceversa,  fino a divenire tradizione epica per un territorio. Un popolo si alimenta anche di questo, tenendo viva così la sua memoria .
Ma a noi, l’Eremo, interessa per la sua verità storica e per i legami che ha avuto nel corso dei secoli con il fiume e le popolazioni locali, sia a sud che a nord dello stesso Romitorio. Il rapporto dei monaci e dell’Eremo con il fiume e le sue popolazioni a nord,   sembra essere provato anche da due  grotte di tipo eremitico dopo le gole, sotto Nardodipace.

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