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Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

Domenico Calvetta
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Non solo frutta delle 2 P

Il cruciverba in serrese

Gioacchino Giancotti
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mastru biasiMi capita spesso, ormai, di tornare con la mente indietro, indietro nel tempo. Ed i miei ricordi, a volte nitidi, a volte vaghi e sfumati come possono essere i ricordi dell’infanzia e della fanciullezza, mi portano costantemente al vico secondo Sette Dolori dove era la mia abitazione o a quella piazzetta di via Sette Dolori n° 10 dove trascorrevo quasi intere giornate a giocare e a bisticciare con i miei compagni di allora e le loro voci, ripetendo i versi del Pascoli, “ le conosco tutte all’improvviso, - una dolce, una acuta, una velata … - A uno a uno tutti vi ravviso, - o miei compagni!”.
Non è solo i miei compagni di gioco che io ricordo, ma anche i grandi, le persone adulte amiche di famiglia che abitavano in quella piazzetta, se non addirittura nello stesso enorme fabbricato, distribuito su tre piani, il quale iniziava da piazza Monumento e, a furia di casa aggiunta a casa attraverso pareti limitrofe e contigue, arrivava al vicolo dove abitava la mia famiglia. Unico fabbricato, però case autonome con accessi separati salvo, per quanto riguarda la mia famiglia, ad avere un’altra porta interna che permetteva di accedere alla casa di Francesco Gallè, Ciccone, e a quella di Biagio Pelaia, mastru Biasi, che abitava al piano di sotto assieme alla moglie Virginuzza, Virginia Pelaggi figlia dello scalpellino e poeta mastru Brunu .
Tra la famiglia di Antonio Gambino e quella di Biagio Pelaia, per quanto io ricordi, c’è stata sempre una calda amicizia fatta di rapporti di buon vicinato e di stima reciproca.
I miei fratelli Sharo e Vinicio, le mie sorelle Licia e Rosita erano particolarmente legati ai figli di mastru Biasi cioè al ragioniere Bruno, Angelo, il maestro elementare emigrato poi in Canada assieme al fratello Salvatore, Brunina, Suora di Carità e Innocenza Rosa. Con loro abitava pure Stella, figlia di Nucienza Rosa, che dava una mano d’aiuto alla nonna Virginuzza
Bruno tutti giorni, in bicicletta, si recava a Santa Maria dove teneva la contabilità della ditta Zoldan proprietaria di quello stabilimento e del bosco. Ricordo, per inciso, che tutte le sere io aspettavo in piazza Monumento il suo rientro perché lui mi collocava sulla canna della bicicletta e mi trasportava per 40 metri fino a casa tra l’invidia dei miei compagni di gioco.
Durante le lunghe gelide serate d’inverno e, in particolare, durante le feste di Natale era usanza che i giovani Gambino si riunissero con i giovani Pelaia per trascorrere qualche ora assieme. I due appartamenti, come già detto, erano sovrastanti ed il pavimento del piano superiore corrispondeva al soffitto di quello inferiore. Ad una certa ora della sera si sentivano alcuni colpi di bastone sul pavimento della cucina di casa mia: era il segnale. Sotto avevano finito di cenare e, quindi, potevamo scendere giù percorrendo la scala interna buia o scarsamente illuminata da qualche zolfanello che Sharo accendeva ed appestava l’aria.
L’assemblea, a cui partecipavano anche tutti i figli di Nucienza Rosa che arrivavano dal rione Zaccanu, si svolgeva nella stanza da pranzo, tutti attorno al braciere ardente sovrastato dal tavolo sui cui erano poggiate le carte da gioco o la tombola con pezzettini di buccia di arancia o fagioli per segnare i punti. Quando non si giocava si chiacchierava o si ascoltava dalla bocca di mastru Biasi o di Virginuzza qualche storia dei tempi passati. Un acre odore di tabacco si diffondeva nell’aria: era mastru Biasi che, caricata la pipa con tabacco apposito o di sigaro sbriciolato, aspirava ed emetteva il fumo quasi con gioia.
Le sue pipe erano diverse come le occasioni in cui venivano utilizzate. Alcune, attaccate su un supporto in legno, erano appese ad una parete della stanza da letto. Erano quelle dei giorni festivi o delle grandi occasioni tutte fatte a mano con il cannello di diverse sagome, ma tutte con il fornello rigorosamente di ciocco di erica. Negli altri giorni, li lavoranti, mastru Biasi usava una pipa dal cannello lungo ed arcuato con un fornello di terracotta raffigurante la testa di un vecchio dalla lunga barba. A volte io me lo gustavo quando caricava il tabacco: lo faceva con attenzione e quasi scrupolo perchè significava avere un buon tiraggio per evitare boccate a mantice e il bruciore alla lingua.
Non sempre, comunque, fumava la pipa; qualche volta anche il sigaro. Il giorno della festa della Madonna dei Sette Dolori, come mi ricorda mio fratello Vinicio, nell’uscire di casa per andare a messa, si fermava un attimo sulla soglia di casa, accendeva, per voto o devozione non lo so dire, un mezzo toscano, s’incamminava lentamente fumando fino a quando, arrivato nei pressi dei gradini della chiesa, spegneva il sigaro e conservava la restante parte per il prossimo anno.
Mastru Biasi era un valente falegname. La sua bottega, ampia e attrezzata addirittura con la sega a nastro e la pialla, era ubicata nell’attuale sala biliardi del cinema Aurora. Nel 1945 don Angelo Pelaia aveva aperto sul corso Umberto una sala cinematografica. Inizialmente venne chiamata Cinema Zizì come era scritto in un pentagramma appeso sul muro esterno e successivamente rinominata Cinema Aurora.
Le 370 sedie ribaltabili in legno che per lungo tempo hanno costituito i posti a sedere del cinema, erano state costruite proprio da mastru Biasi con perizia e fine artigianato e senza l’aiuto di chicchessia.
Mastru Biasi fisicamente era una figura particolare. Robusto, alto (come lo vedevo io bambino dal mio metro di altezza). Aveva un incedere imponente, quasi altezzoso. Pancia in fuori, testa alta, leggermente reclinata indietro. Durante l’inverno, quando usciva da casa, indossava sempre il mantello a ruota, lu mantu, entro cui si avvolgeva girandoselo sulla spalla. Il mantello lungo, nero, senza una macchia, usato nei giorni festivi, aveva, come chiusura al collo, una grossa borchia dorata che accentuava ancora di più quella sua aria severa. Nei giorni di sole, invece, indossava un abito nero e sotto l’apertura della giacca si notava una lunga e grossa catena dorata che partiva da un taschino del gilet e arrivava all’altro taschino dove teneva un orologio a cipolla.
I folti baffi incutevano rispetto e lo facevano apparire burbero, ma burbero non lo era proprio. Aveva sempre la battuta pronta: salace, umoristica, ma benevola specie verso i nipoti e gli amici affezionati.
Una di queste battute la ricordo con in modo particolare. In quel tempo a Serra San Bruno non esisteva una rete idrica o fognante. Rare erano le case che avevano il gabinetto e nessuna l’acqua corrente venuta, poi, negli anni cinquanta. Le famiglie si servivano delle fontane pubbliche come Bonsignuri, la Scorciatina, Galedha, di li Celesti o di la Cruci, dove si faceva il turno per riempire li quartari, li gozza, li limbi che costituivano, poi, la riserva d’acqua nelle case.
Un giorno io ero sul balcone di casa mia quando ho visto mastru Biasi affacciato alla finestra che dava sul vico II Sette Dolori. Lo faceva quasi sempre subito dopo il pranzo per fumare la pipa di li lavuranti e per avere l’occasione di scambiare qualche parola con mio padre interlocutore della finestra a fianco o con don Pasquale Gioffrè lu ligugiaru affacciato alla finestra di fronte.
Ad un tratto ho visto arrivare di corsa il mio amico Benito che era andato alla fontana di li Celesti a prendere acqua; appena imboccato il vico, ha inciampato su una pietra sporgente dal selciato andando a ruzzolare per terra sbucciandosi un ginocchio e mandando in frantumi la brocca, lu guozzu, che teneva in mano.
La disperazione di Benito fu immediata non tanto per il bruciore ed il dolore al ginocchio, quanto per il fatto che aveva rotto la brocca: non sapeva come giustificarsi con mia madre che gli aveva dato l’incarico. Quando mastru Biasi ha visto le lacrime e la disperazione di Benito, prima ha aspirato una bella boccata di tabacco, poi ha emesso una nuvola di fumo, si è raschiata la gola, ha sputacchiato sulla strada e con voce calma e serena si è rivolto al ragazzo:
- “ A zzitiedhu mio, chi ciangi a fari! Tu la furma pirdisti ca lu materiali l’hai tuttu ‘nterra! “
(“Bambino mio, perché piangi?! Tu hai perso solo la forma della brocca, ma il materiale ti è rimasto”)
Benito alzò gli occhi verso mastru Biasi; lo guardò incredulo e risentito. Con stizza alzò di scatto il braccio destro verso l’interlocutore e poi zoppicando venne da mia madre.

storie di morti onda-E ca iieu mo putìa mmaginari sa cosa? Vi staciti sintiendu miegghiu? o aiu mu chiamu la mbulanza? Siti tutti dui ianchi cuomu nu linzuolu! -No,no, mo chianu chianu ndi ripigghiamu, non vi proccupati. -E tu cuomu ti chiami?...ca mi scurdai. -Ntuoni; sugnu lu figghiu di “Ppina la Furazza” -Capiscivi, la canusciu a mammata! e l'amicu tuoi? -Franciscu... esti cuginima, idhu stacia a Terravecchia. -Va buonu! mo chi ndi canuscimma, iieu mi pigghiu la tazza mi ndi tuornu alla casa. Li Jiuri li putiti dassari, ormai li purtastivu...e stacitivi buoni. Anzi, si bbi truvati a passari vicinu alla casa mia bussati; però...di la parti giusta sta vota... bussati ca vi offru nathru cafè. Va beni? -Grazi assai. Grazi... Signora aviti mu ndi scusati... nui...chidha notti... -Si, si mo ndi parramma abbastanza, e si iimu avanti cu lli cirimuoni va a finiri ca risbingghiamu puru li santi muorti. Arrividerci, arrividerci. -Era il 2 novembre e in quella ricorrenza, come tutti, vado al cimitero per ricordare le persone care e deporre qualche fiore sulle tombe. Quell'anno, dopo la visita agli intimi, mi ricordai di un mio zio che era sepolto al di là del viale e che trascuravo da tanti anni. Mi proposi di trovare la sua lapide per deporre l'ultimo mazzetto di fiori che mi era rimasto. Non ricordavo con precisione la zona e giravo intorno leggendo i nomi e le date, infine la trovai. Ma proprio in quel punto, due giovanotti stavano scambiando frasi confusi con un'anziana signora vestita di nero. Per non disturbare rimasi in disparte nei pressi, e ascoltai il dialogo che ho riportato sopra. Poi, gli “attori”, si allontanarono e io, con calma, ho potuto assolvere a quanto mi ero preposto. Dello strano discorso di quelle persone, vi confesso: non avevo capito niente. Trascorso qualche mese, destino volle che, mentre attendevo il mio turno dal barbiere entrò il ragazzo del cimitero: Antonio. Salutò e con un sorrisetto enigmatico mi disse: Sintistivu chidhu iurnu allu campisantu, lu discurzu cu chidha vecchia?- Si, risposi e aggiunsi: Ma non capiscivi nenti. Lu sacciu -disse Antonio- non putivivu capisciri, e mo vi dicu picchì. Non dissi altro e lo lasciai parlare... fino all'ultimo. “Era la sira di menzagustu, anzi la notti; c'avienu già fattu li spari e ndi staciemu ricugghiendu alla casa. Eramu culla machina: ieu, cuginima Franciscu e lu niputiedhu suou: Ciccilluzzu; di na settina d'anni chi stacia arriedu la chiesa di lu Spiniettu. Guidava ieu. Pi prima cosa aviemu m'accumpagnamu lu zitiedhu alla casa, puoi tuccava a cuginima e alla fini iia mu mi curcu puru iieu. Pi nommu m'azziccu nthra lli viniedhi -sapiti c'arriedu la chiesa li sthrati sugnu strhitti- mi firmai davanti alla chiesa...-tandu non nc'eranu mancu chidhi pietri quathrati chi nci sù mmò- cuginima scindiu cullu niputi e s'anziccaru pi ssupa. Non passau mancu nu quartu d'ura e Franciscu turnau cu nna tazza di cafè alli mani, trasiu ntra lla machina e mi dissa: Chistu è lu tuoi, mbivatilu ca ndi l'offriu na vecchia di dhuocu arriedu. Lu guardai spanticatu, non mi paria na cosa giusta...mi dissa natra vota:“Bivatilu c'aiu mu nci tuornu la tazzina”. Mi lu mbippi e nci diezhi la tazza, e siccuomu sta cosa mi parìa curiusa nescivi di ntrha lla machina e nci dissi: Viegnu puru iieu ca vuogghiu mu ringrazziu sta signora; lu cafè era addavieru buonu. E camina! -rispundìu viatu cuginima- però chiudimu la machina; pi sicurezza non pi atrhu. Chiusi lu sportellu e iimma pi arriedu la chiesa. Quandu arrivamma davanti alla porta -ch'era supa alla strata- era tuttu nu silenziu. Ilhu mi mustrau la manigghia e iieu allargai li vrazza e nci dissi: movala. Franciscu abbasciau la manigghia nu paru di vuoti ma dintrha non si ntisa nudha mossa. Mi mbicinai e nci dissi ntr'alla ricchia: iimundindi ca si nno cca risbigghiamu tutta la ruga, la tazza nci la purtamu dimani matina. Va buonu mi rispundiu: dimani turnamu, tantu è puru festa e lu tiempu l'avimu. Turnamma alla machina e iimma mu ndi curcamu. Mo vena lu bellu. La matina duoppu, culla machina ndi firmamma allu stiessu puostu e iimma a ppedi mu nci turnamu la tazza alla vecchia. E, sta vota, vidiendu la porta chiusa, bussamma e bussamma tanti vuoti, e nudhu apirìa. Guardai a cuginima e nci dissi: Ma si sicuru ca la porta era chista? Sti puorti supa alla strata paranu tutti guali. Si ca sugnu sicuru, ava la stessa manigghia di la casa di mama, e chissu mi ristau mpressu. Ntantu ndi mbicinamma alla finistredha a destra di la porta ca ncera nu sportellinu apiertu e guardamma di ntrha lli vithra. Inthra, sutta alla finestra, c'era nu lavandinu e supa allu davanzali avia bicchera, piatti e atrhi cuosi di cucina, e chidhu chi ndi mpressionau eranu trhi tazzini e quatthru piattini; tutti di culuri guali guali a chidha c'aviemu ntralli mani: russigni e con li ricami d'uoru. Eranu pusati a ihancu di na caffittera lorda di cafè. Ndi guardamma e cuginima dissa: Mo sii cumbintu ca la casa è chista? Non fici ntiempu mu nci dicu c'avia ragiuni quandu. na signora di la casa di frunti -chi ndi guardava di la finestra- apiriu e ndi gridau: A cu circati? Ndi giramma e quasi nsiemi dissamu: Alla patruna di sta casa cavimu...: Non spicciamma mancu la parola e ndi gridau: Ma siti pacci, ntrha ssa casa non stacia nudhu, la patrhuna ava siei misi chi murìu. Ristamma ncazzunuti e non appamu mancu lu curaggiu mu rispundimu na parola. “Stacìa la signora Rosa Pilotta”, dissa la vicina, “Aviti corchi bulletta ntistata cu stu nuomu? Siti di lu cumuni?” Quandu ntisamu sti paruoli, ristamma friddi cuomu dui iitrhola e non sappamu chimmu rispundimu... e pi nommu allungamu lu brodu, salutamma la vicina e ndi ndi iimma. Quandu arrivamma ntrha lla machina ndi guardamma cuomu dui salami. Madonna, dissa cuginima, allura stanotti vitti li muorti? E divintau iancu cuomu la nivi. Ieu non sappi chimmu dicu e parramma sulu di morti e di li cuosi pagurusi chi ndi cuntavanu quand'eramu zitiedhi. Cuginima ripitìa sempi la stessa cosa: “Si stu fattu mi la cuntavanu, ti giuru ca non nci cridìa, mo pimmìa li muorti si vidanu addavieru, e chistu lu puozzu diri e lu puozzu puru giurari.” Iieu nci dietti ragiuni e sparai la mia: “Ndi mbippamu nu cafè fattu di na morta...ndi iiu bona ca non ndi ficia mali; iieu stanotti m'adduormintai cuomu n'agghiru. “Se ppi chistu, puru ieu” rispundiu cuginima. E la cosa putìa spicciari cca, mbeci no. Lu iuornu di li muorti ndi vinna la pinzata mu iimu allu campisantu mu vidimu sta Rosa Pilotta, e la pinzata cchiù bella fu di cuginima; nci vinna la dea mu nci turnamu la tazzina cu nnu luminu dha dinthra; e puru nu mazzu di jiuri. Accattamma li jiuri, e iimma. Giramma ntrha llu campisantu fina chi non la truvamma. Nc'era puru na fotografia bella randi: ROSA PILOTTA 1929-2010. Cuginima la guardau pi cchiu di nu minutu cuomu ncazzunutu, puoi si girau e mi dissa: E' propiu idha, ti lu giuru supa all'anuri di mama...è idha. Mo appicciu stu luminu e nci lu dassu ntralla tazza e nci dicu puru nu recumaterna. Stacìa pigghiandu la machinetta quandu ntisamu na vuci d'arriedu: Ma vui cca chi staciti faciendu? Ndi giramma nsiemi e vittamu a cui? alla MORTA. Madonna chi pagura! non sapiemu caviemu mu facimu, iieu mi sintìa li gambi cuomu paralizzati. La “morta” guardau a cuginima e nci dissa: “Ma tu non ssi chidhu di menzagustu chi ti diezhi nu cafè?” Cuginima era iancu iancu -e ieu pienzu chera cchiu iancu didhu- e, cu nna vuci di gattu, rispundìu: SI, SI era ieu, ma vui non siti morta? “Ieu sugnu cchiù viva di tia, cazzuni chi non si atrhu”, Ma allura -rispundiu cuginima- e mustrava la fotografia di la morta di supa alla tomba- chista, chi pariti vui, que? E' cuginima, a cazzuni, mo capiscivi picchì t'imprissiunasti. “Simu figghi di dui suoru e nescimma quasi guali, iieu nci passu quattru misi. La casa duvi staiu era randi e ndi la spartimma cu Rosa, e ieu aiu la nisciuta di l'atra vanda. Duoppu murìu, li figghi -ca sugnu alla Francia- non tuccaru nenti e mi dassaru li chiavi. Chidha notti di mezzagustu, no pigghiava suonnu e mi vinna mu mi fazzu nu cafè, siccuomu avia spiccciatu lu gas, iivi mu lu fazzu ntralla cucinedha di cuginima Rosa. Mo capiscisti picchì mi vidisti ntra chidha casa?” Antonio così espose il suo racconto e concluse: Eccu, mo non vi dicu cchiu nenti. Lu riestu lu sintistivu puru vui. Durante la mia visita al cimitero, avevo ascoltato solo quanto segue: -E ca iieu mo putìa mmaginari sa cosa? Vi staciti sintiendu miegghiu? o aiu mu chiamu la mbulanza? Siti tutti dui ianchi cuomu nu linzuolu! -No,no, mo chianu chianu ndi ripigghiamu, non vi proccupati. -E tu cuomu ti chiami?... ca mi scurdai. -Ntuoni; sugnu lu figghiu di “Ppina la Furazza” -Capiscivi, la canusciu a mammata!...e l'amicu tuoi? -Franciscu... esti cuginima, idhu stacia a Terravecchia. -Va buonu! mo chi ndi canuscimma, iieu mi pigghiu la tazza mi ndi tuornu alla casa... Dello strano discorso di quelle persone, vi confesso: non avevo capito niente.

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