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Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

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Il cruciverba in serrese

Gioacchino Giancotti
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Serra e spadolaSerra e Spadola, due paesi distanti pochi chilometri l’uno dall’altro, hanno vissuto nel corso dei secoli passati le loro vicende storiche gomito a gomito e non c’è stato avvenimento accaduto in uno dei due paesi che non abbia in qualche modo interessato l’altro. Tuttavia non sempre i due paesi hanno mantenuto un rapporto di buon vicinato. La storia riporta avvenimenti di vera e propria intolleranza reciproca le cui cause sono sicuramente da addebitare alle critiche circostanze che li hanno spinti a prendere tra di loro posizione di aperto contrasto, peccando forse di eccesso di prudenza, peraltro giustificato dalla pericolosità dei tempi.
Tra tutti merita di essere ricordato quanto accadde nel marzo del 1821. Si viveva, all’epoca, sotto l’occupazione dei Francesi i quali davano una caccia spietata ai briganti, che infestavano le montagne e che di tanto in tanto facevano irruzione nei centri abitati soprattutto quando veniva anche provvisoriamente a mancare una adeguata sorveglianza armata del territorio.. Contro chi ospitava o proteggeva i briganti i francesi avevano emanato leggi punitive tanto che i trasgressori rischiavano la fucilazione e, se a trasgredire era un’intera popolazione, tutto l’abitato veniva saccheggiato e poi raso al suolo fin dalle fondamenta in modo da non potere più essere ricostruito.. Tanto si rischiava ad essere amici dei briganti. Nonostante tutto, Serra, nel corso di una tragica notte, fu teatro di un grave avvenimento di sangue. Due soldati francesi Gerard e Ravier, furono attirati in un’imboscata e uccisi da due briganti che avevano finto di volersi costituire. I Serresi furono accusati dai Francesi di complicità e tacciati di essere protettori dei briganti. Contro di loro sono scattate le punizioni previste dalle terribili leggi francesi tanto che, per comminate le pene meritate, si precipitò a Serra, da Napoli dove risiedeva, il terribile generale Manhes, alter ego del re Gioacchino Murat.
Nell’attesa del suo arrivo si provvide a dare sepoltura ai due soldati francesi vittime dell’imboscata. La guarnigione francese che presidiava la cittadina di Serra agiva sotto le direttive del comandante Voster il quale giudicò i Serresi indegni di dare sepoltura ai cadaveri dei due soldati uccisi e indegni anche di ospitarli morti nel perimetro del loro territorio. A questo punto subentrarono nella vicenda gli abitanti del vicino comune di Spadola. Senza essere nemmeno interpellati gli Spadolesi si presentarono in buon numero al cospetto del comandante Voster chiedendo di concede loro il privilegio di dare degna sepoltura ai soldati Ravier e Gerard, portandoli nel loro paese e tumulandoli nella loro Chiesa. Famose le parole con le quali la richiesta fu supplichevolmente avanzata: “Datinnili a nui li Campiuni”. “Campiuni” è una parola ancora oggi usata nel linguaggio dialettale degli Spadolesi. Essa significa “uomo di valore”, “uomo eccezionale”. In quella occasione gli Spadolesi avrebbero dovuto come minimo esprimere piena solidarietà ai loro vicini Serresi oppure, al limite, avrebbero dovuto mantenersi neutrali, rimanendo per lo meno zitti e non prendendo parte alcuna alla vicenda. Invece, non solo non hanno espresso solidarietà ma, approfittando della disgrazia in cui erano incorsi i loro vicini di casa, hanno cercato di mettersi in bella mostra davanti agli occhi dei terribili soldati francesi, offrendosi di fare quello che i Serresi non meritavano di fare, quasi a voler confermare la condanna che il generale Manhes stava lì per lì per comminare.
Il comandante Voster, prendendo l’offerta a volo, anche perché non aveva in quel frangente nessun’altra alternativa, consegnò i “campioni” nelle mani degli Spadolesi perché dessero loro degna sepoltura. Pensate con quanto zelo e con quanta solerte venerazione presero in consegna i due soldati uccisi, aumentando in questo modo, forse senza volerlo, la colpa dei malcapitati Serresi. Così fu fatto. Gerard e Ravier, trasportati solennemente con gran concorso di popolo a Spadola, dopo una solenne cerimonia religiosa con celebrazione di messa e suono di campane, furono tumulati nella chiesa matrice di quel paese con grande umiliazione per i Serresi, ritenuti amici e fiancheggiatori dei briganti.
Quella vicenda fu pagata a caro prezzo dai Serresi che per punizione subirono la chiusura dello loro chiese e furono costretti per molti giorni a girovagare per le montagne e a fare strage dei briganti allo scopo di riscattarsi da quella colpa che per poco non costò la distruzione totale del loro paese. La cosa, tuttavia, non finì lì perché i Serresi si legarono al dito l’offesa ricevuta dagli Spadolesi in quella triste e tragica circostanza. In tempi migliori, quando tutto era ormai finito e quella vicenda sembrava essere stata ormai dimenticata, arrivò quasi inaspettata la vendetta dei Serresi. Per entrare in Serra dalla parte di Spadola bisognava passare per la via di San Rocco e imboccare lo stradone principale. Proprio quella zona era popolata dai cosiddetti “forgiari” che avevano le loro officine nelle traverse adiacenti allo stradone da dove si poteva controllare chi entrava o usciva dal paese. Narra la storia che appena uno dei forgiari avvistava uno spadolese che entrava in Serra per la via dello stradone, lasciava cadere il martello dalle mani e armandosi di un solido bastone, si avventava contro dicendo: “Adesso te lo do io il campione”. Lo stesso facevano tutti gli altri che, quasi per tacita intesa, accorrevano con altri bastoni a darle di santa ragione ai solerti becchini degli indegni soldati francesi. Per molto tempo gli Spadolesi non potettero mettere piede a Serra e se qualcuno per causa di forza maggiore era costretto comunque ad entrare in paese, lo doveva fare per la via dello “Schiccio”, una traversa laterale al centro abitato, che non era sorvegliata. L’astio contro gli Spadolesi durò per molti anni e, forse, a guardare la storia non si è mai spento del tutto. Non dimentichiamo, infatti, le critiche del nostro poeta mastro Bruno Pelaggi in tempi più recenti rivolgeva agli Spadolesi e ai Brognaturesi a proposito di certe pretese avanzate, a parere del poeta, impropriamente in campo letterario.
Oggi le cose vanno meglio e i rapporti di buon vicinato tra le due cittadine si sono alquanto ripristinati e non c’è più traccia di quegli antichi rancori, ma anche la storia ha una morale come le favole. In questo caso la morale della favola non può essere che questa: “Non farti bello con gli altri sulle spalle del tuo vicino se non vuoi incorrere nel detto che chi la fa l’aspetti”.

Il clerodi serraNel tentativo di attrarre il lettore, i titoli degli articoli, specie i miei, traggono in inganno. Nel presente caso il clero non si scaglia contro l’omonimo organo di stampa comunista, bensì contro l’Unità d’Italia. E’ noto che l’anticlericalismo professato da Cavour e dal Savoia aveva coagulato intorno alla bandiera borbonica l’intero clero meridionale. Aggredito nei suoi confini, pressato entro la cerchia muraria dell’Urbe, persa la prerogativa di capo temporale, il Papa aveva ordinato ai preti di avversare l’unione dei popoli italiani. Era anche in procinto di stabilire per dogma l’infallibilità papale e di lì a poco avrebbe dichiarato che mai Roma sarebbe caduta in mano ai Piemontesi. E, come prima manifestazione di infallibilità, l’esordio non era certo dei migliori. La condivisibile analisi sulla secolare incapacità di fare della penisola una Nazione porta a ritenere responsabile il ruolo avuto dal Papato nel volere conservare un suo Stato. A questo va aggiunto l’italico vizietto di combattere il vicino: Firenze contro Pisa, Siena contro Firenze e, nel nostro piccolo, Spinetto contro Terravecchia. I Savoia, dunque, diavoli negatori della religione e i Borbone suoi paladini e, nel 1861, nel clima arroventato dell’incendio unitario, sulla porta dell’Assunta di Spinetto appare un manifesto inneggiante al Borbone e, con termini censurabili, a totale dileggio del Savoia. I Meridionali, insieme ad altri Italiani, erano caduti nel tranello dei Plebisciti di annessione, cioè di votazioni truccate. Il governo era nelle mani dei Piemontesi, ultimi ad arrivare dopo le secolari carovane di germanici, longobardi, normanni, saraceni, spagnoli e francesi. I Piemontesi erano gli ultimi a pretendere di venire ad insegnare qualcosa al Meridione.
Gli archivi calabresi custodiscono le carte di numerosi processi istruiti dopo l’annessione per discorsi e grida sediziose, nonché per affissione di manifesti scritti a mano, inneggianti al passato regime. Gli autori erano in genere anonimi analfabeti, ciononostante le autorità di polizia ed i magistrati diedero la caccia ai colpevoli. Nelle indagini furono coinvolti i periti calligrafi e, come al solito, quali responsabili risultarono quelli già schedati, in questo caso i borbonici “antiliberali”. Uno dei capri espiatori fu Ferdinando Manno (1836-1898), giovane diacono, che ebbe la ventura di prendere nello stesso mese gli ordini di custodia cautelare e gli ordini canonici sacerdotali. Manno sarebbe diventato uno dei pilastri della chiesa dell’Assunta di Terravecchia.
Lo spazio è purtroppo tiranno, e sono costretto a procedere a sciabolate. Fu rilasciato e si dedicò a quelle che erano le sue passioni: la musica e la buona tavola. Era un mio avo, nonché antenato di mio cugino, l’attuale Priore dell’Addolorata. Un suo ritratto è nel coro della chiesa di Largo San Giovanni, ha in mano uno spartito e appare florido e in carne. In famiglia si racconta che sia stato un abbuffino senza pari: per rimaner leggero ingurgitava quaranta uova cotte al braciere. Ne avrà mangiate cinque, i nipoti le avranno raddoppiate, lo stesso avranno fatto i bisnipoti e a noi trisnipoti e tetranipoti ne sono risultate quaranta. Un miracolo di proliferazione degno dei pani e dei pesci di evangelica memoria.
documento cleroOra, vi siete chiesti perché nella chiesa dell’Assunta, sulla balaustra dell’organo, ci sono tanti affreschi di strumenti musicali? Quell’organo, un rarissimo Serassi, lo suonava Don Ferdinando, compositore e direttore d’orchestra raffinatissimo, che aveva studiato a Napoli al Conservatorio San Pietro a Maiella, dove a lui è dedicata una sezione dell’archivio. Era benvoluto e stimato da Mascagni e, spesso e volentieri, in abito talare e bacchetta in mano, dirigeva orchestre in vari teatri italiani. Celebre è stata una sua direzione al teatro di Cosenza e una a Napoli dove un suo Stabat Mater fu apprezzato da Rossini che si diede da fare per conoscerlo. Nel centenario della morte, il Premio Speciale Organistico del Concorso Nazionale di Viterbo, su indicazione del celebre Conservatorio napoletano, è stato dedicato a lui che, con le sue composizioni, aveva stravolto le tradizioni melodrammatiche della musica sacra. A Napoli, al San Pietro a Maiella aveva indirizzato il nipote Vincenzo, di cui giovanissimo, il Conservatorio tesseva sperticate lodi e prevedeva un luminosissimo futuro. Vincenzo cadde nel 1916 sul Carso, e a me sul Corso gli occhi mi cadono spesso sulla lapide del monumento ai caduti dove è ricordato. Al Tenente Manno è dedicata una breve stradina del nostro Centro Storico. Costretto a fermarmi, io cado qui, molto più fortunato di lui, stonato come una campana rotta, roba da far impallidire il pur rubizzo avo Ferdinando.

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