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“Riportare a casa la pelle” di Raffaele Cutullè.

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Il libro che racconta le paure e le atrocità vissute dal padre Umberto durante l’inutile guerra.

copertina cutulleAccostarmi a questo libro del serrese Raffaele Cutullè, scrittore solo per una volta, come atto d’amore,  solo per ricordare il padre Umberto che io stesso, nella giovinezza,  ho frequentato come papà del mio amico e compagno di studi Bruno, è come scoprire nel fondo di un cassetto un mondo di ricordi, di testimonianze, di momenti di vita. È come un rivisitarsi dentro il libro, una rivisitazione che, sulle ali della memoria, fa ripercorrere l’itinerario degli anni bellici, anni che appartengono al passato e che testimoniano di una vitalità ricca anche di mordente e ironia. Sto dicendo del romanzo “Riportare a casa la pelle” edito  dalla Mapograf di Vibo Valentia.

Il titolo sono le parole che Umberto, (nel libro prende il cognome Curti), come ci riferisce l’Autore in premessa, “era solito dire ogni qualvolta, vincendo la riluttanza con cui trattava quegli avvenimenti, si lasciava andare a qualche breve racconto di quel periodo.”

È il periodo che va dal settembre del 1942 quando Umberto Cutullè, dentro la guerra già intrapresa, parte, è costretto a partire, soldato, inviato a Roma al Reparto Autieri Ministeriali.

È un romanzo – racconto pieno di pathos intenso e  molto ben scritto con linguaggio efficace, talvolta scabro. Storia bene ambientata e con impalcatura che ti coinvolge pagina dopo pagina con prosa anche scherzosa, spumeggiante e scanzonata.

Vengono alla luce storie, vicende, aneddoti narrati con passione e pazienza che rispecchiano lo stile, la struttura e lo scavo psicologico tipici dell’epoca narrata. Si tratta tuttavia di episodi profondamente sentiti, condotti con dovizia di particolari e ricchi di risvolti profondamente umani.

Nelle pagine si coglie una carica umana che rende vive le vicende le quali risultano, peraltro, cariche di valori etici. Si incontrano, come nel primo capitolo, un mondo antico e moderno insieme che riguardano la cultura di una terra, Serra San Bruno, che tanta storia ha dato in una universalità pensosa fatta anche di dolore, di prove, di esperienze, di aspirazioni comuni.

Sono sei capitoli tutti legati tra di loro da un’intima e pensosa vitalità. Vi sono pagine in cui prevale, e non poteva essere diversamente, la paura, la preoccupazione e lo sconcerto come quelli vissuti durante i giorni del tragico bombardamento nel quartiere romano di San Lorenzo. Qui “Umberto disteso sulla branda, sguardo fisso nel vuoto, non smetteva di ripetersi perché mai la sua generazione aveva dovuto sostenere una guerra di cui non conosceva le ragioni e subirne le conseguenze fatte di privazioni e sofferenze, senza nulla in cambio.”

E per fortuna delle giovani e spaesate reclute vi sono anche momenti di spensieratezza, se così si può dire. L’incontro con compaesani quali l’analfabeta e simpatico Bruno Scriso (Scrivo), Cesare Barili (Barillari), Pierino Tripi (Tripodi), Nazareno Cardi (Carchidi ?) e Giuseppe Riga.

E l’allegro siparietto che vede protagonisti l’Umberto e il citato Scrivo al Teatro dell’Opera tra gente elegante e ben disposta ad ascoltare musica operistica diversamente dai due che proprio non ne capiscono ma tant’è Bruno era in possesso di due biglietti gratuiti e bisognava sfruttarli.

Forse, e senza forse, bisognerebbe soffermarsi su ogni pagina, riflettere, scavare. Fermarsi per intuire e cum-prendere l’inutile perché di una terra, l’Italia, martoriata da questi  eventi storici cruenti per cogliere i nessi di un discorso che Raffaele Cutullè conduce senza mezzi termini e che, in fondo, nei suoi squarci, nelle epifanie di profondi significati, calca la mano sui sentimenti dei nostri compaesani commilitoni e di tutti gli altri e delle loro famiglie, di una comunità intera.

A me piace lasciare  qui la penna  per non sciupare l’attenzione del lettore.

E per concludere, però,  voglio sottolineare che, ironia della sorte, lo straordinario itinerario del soldato Cutullè si conclude col mancato riconoscimento del servizio militare ai fini pensionistici ma addirittura denunciato per renitenza alla  chiamata alle armi dell’ottobre del ’44. Ovviamente ne è seguita l’assoluzione da parte del Tribunale militare di Napoli.

Insomma è un libro da leggere ma soprattutto da meditare e  da intendere come messaggio di fede e di speranza in questo centenario della Grande e Inutile Guerra e poter dire, come fa Umberto, “c’ero anch’io, ma lasciatemi in pace, quel passato non m’interessa.”

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