Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

Il “compagno visibile”. San Bruno di Colonia patrono e protettore.

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certosa di serra san bruno festa 6 ottobre
Con la festa del 6 ottobre 2010 – nella quale si è celebrato, per la prima volta, il patronato di San Bruno su Serra – è giunto a compimento un processo storico secolare, che, alla fine, è approdato al riconoscimento giuridico di un “fatto” religioso già ampiamente presente nella mentalità dei fedeli. A voler prendere le mosse dall’inizio, occorre segnalare che il culto di San Bruno in Calabria è strettamente legato, nelle sue origini e negli sviluppi successivi, al ripristino della Certosa agli inizi del XVI secolo e al contemporaneo riconoscimento papale della santità del patriarca certosino. Sembra, infatti, molto probabile che, dopo il passaggio della Certosa all’Ordine cistercense (avvenuto tra il 1192 e il 1193) la presenza spirituale di Bruno, sicuramente viva nelle altre Certose, abbia subito in Calabria un sostanziale oblio. Furono proprio il ritrovamento delle reliquie e la loro traslazione in occasione della Pentecoste - secondo quanto tramandato dalla memoria storica locale - a dare un impulso decisivo alla devozione religiosa dei fedeli e, per diversi aspetti, a fissare i caratteri di un culto costantemente vivificato dalla pietà popolare.
San Bruno, che nel suo tempo storico venne percepito soprattutto come un magister e un anacoreta dedito alla preghiera e all’ascesi, divenne in Calabria da quell’epoca in avanti anche taumaturgo e protettore. La circostanza non deve stupire, poiché nei santi, anche in quelli spiritualmente più “aristocratici” come Bruno, non si è visto in primo luogo il modello religioso, l’esempio di virtù cristiane, lo speculum perfectionis da imitare, ma l’intercessore, l’uomo dotato di una potenza che si esprime in particolar modo nel far fronte alle avversità della natura e della storia. Il santo è l’uomo che guarisce dalle malattie, che moltiplica il cibo in tempo di penuria, che protende la propria mano soccorrevole a fermare le catastrofi naturali o a contenerne i danni, che si contrappone ad eventuali invasori.
È, peraltro, significativo che nessuna fonte coeva, ma neppure posteriore, attribuisca miracoli di guarigione a San Bruno in vita, limitandosi, al più, a collegargli taluni “prodigi” quali quello delle sette stelle - che appaiono in sonno a Sant’Ugo per preannunciargli l’arrivo di Bruno e dei suoi sei compagni - o del sogno di Ruggero il Normanno, che avrà dal fondatore dei certosini la rivelazione di un tradimento ordito ai suoi danni da un certo Sergio e da duecento armigeri a lui fedeli. Saranno, invece, alcuni testi agiografici elaborati dopo la beatificazione di Bruno (1514) e spesso influenzati dall’ambiente calabrese, a coniare e consolidare, in particolare tra XVII e XVIII secolo, la figura del santo taumaturgo.
Il primo dato che emerge evidente, anche ad una sommaria analisi dei miracoli compiuti da San Bruno post-mortem, è la loro ambientazione, circoscritta di fatto alla Calabria e in gran parte correlata con episodi o personaggi in contatto con la Certosa calabrese. Sembra abbastanza agevole osservare che l’azione attribuita a San Bruno, nei riguardi dell’ambiente che è stato teatro degli ultimi dieci anni della sua vita, sia di un duplice tipo: da un lato, protezione nei confronti della sua Casa religiosa, dei monaci, dei fedeli; dall’altro, “sanzione” per tutti coloro - compresi, talvolta, alcuni religiosi - che minacciano il monastero, la regola certosina, la fede cristiana.
Tuttavia, se c’è un tratto distintivo, un carattere agiografico specifico, che riguarda la figura di San Bruno di Colonia è quello che lo considera come il guaritore degli spirdàti, secondo la denominazione che nel dialetto calabrese assumono coloro che sono preda degli “spiriti maligni”. Questa connotazione agiografica, per esempio, è esplicitamente ricordata nella Bibliotheca Sanctorum e ha attirato, nel corso del tempo, l’attenzione di intellettuali e studiosi, tra i quali bisogna ricordare gli etnologi Raffaele Corso ed Ernesto De Martino e il fotografo Franco Pinna. Le origini di questa credenza risalgono agli inizi del XVI secolo quando – in base alla documentazione riportata dal Tromby - Garetto Scopacasa di Simbario e la moglie Isabella condussero la loro figlia a Santa Maria perché San Bruno potesse liberarla dallo “spirito immondo” che l’aveva invasa. Da quel momento, molti spirdàti vennero fatti accorrere a Serra, ritenendo che la presenza delle reliquie del santo e l’immersione nel suo laghetto di penitenza a Santa Maria del Bosco avessero la “meravigliosa virtù” di mettere in fuga il Maligno.
Diversi altri elementi del culto tributato a San Bruno trovano la propria origine o sono collegati al contesto calabrese. Sono, per esempio, riconducibili a questo ambiente due noti caratteri agiografici, che, al tempo stesso, esaltano le virtù ascetiche di San Bruno e lo pongono come in grado di “dominare” le forze della natura. Il primo di questi caratteri è rappresentato dalla notissima tradizione secondo la quale, in pieno inverno, il santo avrebbe macerato la propria carne nelle acque di un gelido laghetto, eleggendolo a luogo di preghiera e contemplazione. Il motivo dell’acqua è, peraltro, presente nell’agiografia bruniana secondo il topos della “fonte viva”, che San Bruno avrebbe fatto scaturire sia in Francia - in occasione dell’edificazione della prima Certosa - sia in Calabria, come sorgente di acqua miracolosa originatasi dal suo sepolcro. Da ricondurre interamente all’ambiente calabrese, e collegata alla tradizione della penitenza in acqua fredda, è la leggenda dell’abìti ‘ndinucchiatu (l’abete inginocchiato), riportata anche da alcune fonti ottocentesche e così descritta da Sharo Gambino: «Proprio in quel punto, che era là dove oggi un piccolo ponte di tavole scavalca l’Ancinale e lega lo spiazzo all’ombroso vialetto che conduce alla fontanella in granito (...), in quel punto (..) un antichissimo abete piegava il proprio tronco a J sfiorando con la gobba le acque. La gente lo chiamava l’abìti ‘ndinucchiatu (...) ritenendo che la curiosa posizione l’albero (una vera e propria anomalia, crescendo tale tipo di pianta svettante e dritta) l’avesse assunta per imitare il santo da lui per anni veduto genuflesso nell’acqua».
Trova, infine, una collocazione sia calabrese che europea il motivo dell’ulivo, associato a San Bruno soprattutto nell’iconografia a stampa - ma una traduzione pittorica la si può vedere nel quadro di Francesco Caivano Trinità con Santi certosini (1633), conservato nella chiesa Matrice di Serra San Bruno - e accompagnato dal versetto dei Salmi Ego sicut oliva fructifera in domo Dei. Una “versione” calabrese di questo tema è quella del cosiddetto ulivo di San Bruno, un albero, secondo la tradizione ormai quasi millenario, nei pressi del paese di Sorianello, sotto il quale il santo avrebbe trovato riposo durante i suoi spostamenti tra l’eremo di Santa Maria della Torre e la corte normanna di Mileto.
La tradizione, tutta calabrese, dei certosinetti, i bambini che indossano un abito della stessa foggia di quello del santo, è, invece, da collocare nel contesto della sua funzione protettiva, che lo pone come un santo “vicino” che sostiene e aiuta: «Quando la vita d’un bambino o d’una bambina è in pericolo - viene scritto nella ristampa ottocentesca della Vita di S. Bruno di D. Giacomo Desiderio - o per malattia, o per gracilità, o per altro accidente, i parenti ansiosi della sua conservazione, fanno voto a S. Brunone di vestirlo, in caso di guarigione, degli abiti di Certosino e farne così un monachello od una monachella. Alcuni portano dei ceri da far accendere sull’altare del Santo, ed altri fanno celebrare una messa, e poi fiduciosi continuano le preghiere e la cura dell’infermo. La grazia che si ottiene non è in vero sempre, e neppur sovente, miracolosa; ma che importa ciò? è grazia, ed i parenti quindi alla Pentecoste portano festosi il graziato bambino alla Certosa, con insieme una tonachella, una cintura ed una cocollina di lana bianca da essi preparata; e là il p. Sacrista benedice gli abiti e il bambino ed ajuta a vestirnelo. Di questi certosinetti d’ambo i sessi, per grazia ricevuta se ne vestono ogni anno da dieci a quindici, e l’abito si lascia loro indosso finché sia usato.
Tale rapporto “preferenziale” di affidamento e devozione che si è stabilito nel corso dei secoli tra i calabresi e San Bruno venne, peraltro, canonicamente riconosciuto dalla Congregazione dei Sacri Riti a metà del XVIII secolo, quando, dietro petizione del priore certosino Bernardo Sirleti, «et totius Cleri, et Universitatum dioecesis», essa approvò che San Bruno venisse eletto protettore di Serra, Spadola, Bivongi, Montauro, Gasperina e Montepaone.
All’intercessione amorevole di San Bruno la pietà popolare fa risalire numerose “grazie”, tanto che nella documentazione storica è possibile rintracciare significative tracce degli interventi attribuitigli. Nel 1894, ad esempio, il busto reliquiario del santo venne condotto in processione per ringraziarlo di aver protetto il paese di Serra dagli effetti di un forte terremoto che aveva colpito la Calabria. Al suo soccorso benevolo venne pure attribuita la cessazione delle epidemie di “spagnola” e scarlattina, che, in tempi diversi, avevano coinvolto la comunità serrese nel secolo scorso. Allo stesso modo, nel primo anniversario dell’alluvione del dicembre 1935, la statua argentea del santo venne esposta nella chiesa Matrice di Serra alla venerazione dei fedeli - insieme con quelle dell’Addolorata e del patrono San Biagio - come ringraziamento per aver impedito il prodursi di danni più gravi e come implorazione per scongiurare il ripetersi di analoghi eventi.
La diffusione del culto di San Bruno in Calabria ha, evidentemente, trovato le proprie aree elettive, oltre che a Serra, nei diversi paesi che hanno intrattenuto solidi legami con la Certosa, com’è il caso di quei centri nei quali sono sorte grange certosine o che si sono trovati sottoposti alla giurisdizione abbaziale. Ma anche altre comunità “distanti” dalla Certosa hanno trovato in San Bruno un punto di riferimento spirituale e religioso, come Reggio - dove esiste una parrocchia intitolata al fondatore dei certosini - o Oppido Mamertina, tributaria di proprie celebrazioni per il santo di Colonia.
Sono, soprattutto, i pellegrinaggi lo specchio di questo rapporto intenso col santo, la cui presenza a Serra San Bruno ha attirato, nel corso del tempo, fedeli e devoti da ogni parte della Calabria. La lettura di alcuni documenti archivistici, che registrano dati relativi a questo fenomeno, lascia intravedere una Calabria “in viaggio” verso i luoghi bruniani, una Calabria che si muove spinta da un profondo sentimento religioso e dal bisogno di trovare “risposte” di fronte alle insicurezze di cui è intessuta la vita. Un santo che nel suo tempo storico aveva compiuto una scelta di vita “aristocratica”, difficile, adatta a pochi, è diventato in Calabria un santo “popolare”, un “compagno visibile” – modificando parzialmente una bella espressione di Peter Brown - in grado di parlare agli uomini e alle donne che, tuttora, ne alimentano e diffondono il culto.

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