Era quasi la mezzanotte di una giornata di fine estate. La compagnia al completo bivaccava sugli ancora caldi scaloni dell’Addolorata. C’era una strana indolenza che sconsigliava ogni azione ardita. Le notti precedenti erano state piene di avvenimenti. Corse sfrenate tra vicoli e sentieri per sfuggire al rabbioso inseguimento di alcune pattuglie dei carabinieri. Porte divelte da petardi simili a dinamite. Fuoco incendiario al ‘santuario’ di Vittorio di li Ciai. Rogo di copertoni agli ingressi del paese. Soldi rubati alle acque del Santo e consumati in caffe’ in un bar di Simbario. Quella notte nessuno avanzava proposte audaci. Si era gia’ agli sbadigli quando Vincenzo Amato, sempre l’ultimo a cedere al sonno, fece una proposta inconsueta ma allettante: andare a Soverato a mangiare il pesce. Nessuno si oppose e, trovato su un elenco telefonico il numero di telefono del ristorante Nocchiero, consigliatoci da Maurizio Procopio che diceva di essere un lontano parente del proprietario, procedemmo alla prenotazione. Vista l’ora tarda ,per invogliare il proprietario a riceverci ci presentammo come una compagnia di dieci giovani in preda ad una fame antica.
Sebbene la cucina stesse per chiudere, il proprietario, avido di guadagno, ci promise che ci avrebbe servito personalmente. Tuttavia, a seguito di alcune defezioni , ci si ridusse a sole sei persone stipate nella cinquecento di Luciano Calabretta. I fratelli Bertucci, io, Vincenzo Amato, Luciano Calbretta ed Emilio De Raffele. Arrivammo al Nocchiero verso l’una di notte. Il ristorante era chiaramente vuoto. Il titolare ci accolse dapprima con un sorriso di compiacenza. Quando pero’ si accorse che eravamo solo in sei, il suo volto si rabbuio’ e ci comunico’ il suo disappunto con un rabbioso ‘….e gli altri? ’ . Ci inventammo un guasto alla seconda macchina che, lo rassicurammo, avrebbe solo ritardato di poco l’arrivo del resto della compagnia, sebbene precisammo che non ci fosse motivo di attenderli. Con il volto infuocato il titolare , sempre meno gentile, diede mano alla comanda . Comincio’ da Emilio. Il rosso delle guance si trasmise agli occhi quando si senti’ rispondere ‘ non ho molta fame, bevo solo un po’ di vino’. Fu la volta dei fratelli Bertucci, che intanto avevano consumato due intere confezioni di grissini. ‘ Si’ ,anche per noi va bene un po’ di vino’. Per un momento pensammo che il titolare andasse in fiamme e , nel tentativo di spegnere il fuoco, Vincenzo Amato, trattenendo con immane sforzo le risa , si fece avanti con un riparatorio ma mal modulato, a causa del riso trattenuto , ‘ pe’ me iuna friiitiura di pesse’. Io e Luciano rimanemmo ammutoliti e rivolgemmo lo sguardo al pavimento per evitare che la Gorgona del titolare ci riducesse in pietra granitica. L’oste notturno, brandendo una sedia, ci accompagno’ a pedate all’uscita con delle poco pregevoli considerazioni su di noi e sui nostri genitori.
Ci ritrovammo in breve nella piazzetta antistante al Nocchiero e ci abbandonammo alle convulsioni del riso. La piazzetta era completamente vuota. In un angolo, a ridosso di un camioncino, un cumulo di cocomeri incustodito sollecito’ l’istinto predatorio di Gerardo, che, senza proferire parola, seleziono’ con calma un grosso cocomero e, quasi a non voler disturbare il sonno del proprietario dentro il camioncino, si avvio’ defilato verso la spiaggia. Noi lo seguimmo con complice naturalezza. Imbandimmo la tavola su un barcone adagiato a ridosso della battigia e affondammo rapaci le mani nel rosso sanguigno del cocomero. La luna accarezzava i nostri pensieri. Ripensammo alla ‘….friiitiura di pesse’ e con un sorriso di trionfo ci ritenemmo soddisfatti di aver trasformato l’iniziale indolenza in una delle nostre solite avventure.
Clicca per votare questo articolo!
[Voti: 0 Media: 0]
Articoli Correlati
2 Marzo 2025