Nella tradizione cristiana Natale si identifica con il presepe, con la celebrazione della novena, con i riti religiosi che accompagnano questo ciclo festivo dal 24 dicembre all’Epifania. In Calabria e a Serra il ciclo natalizio comincia, in certo modo, con largo anticipo, se è vero che una nota filastrocca popolare pone il giorno della nascita di Gesù come culmine di una lunga catena di ricorrenze significative: «Sant’Andria porta la nova, lu quattru è di Varvara, lu sie è di Nicola, l’uottu è di Maria, lu tridici è di Lucia, lu vinticincu di lu veru Misia». Naturalmente, ai riti religiosi si accompagna un’articolata costellazione di altri riti, credenze, manifestazioni della cultura popolare, per alcuni dei quali, sul finire del XIX secolo, studiosi come Vincenzo Dorsa hanno segnalato la continuità con la precedente tradizione greco-latina. È il caso della consuetudine, presente nella società meridionale, di bruciare un grosso pezzo di legno sul fuoco la notte della vigilia: «[…] Un fatto assai importante – scrive Dorsa – ci richiama al culto antichissimo del fuoco, rappresentato dal dio Agni nella mitologia vedica, da Vesta nella greco-romana. È l’uso del ceppo, che in Calabria, come in altre regioni d’Europa, si brucia la notte di Natale; in qualche villaggio anche la notte di Capodanno […]». La ragione di questa consuetudine, aggiunge Dorsa, è da rintracciarsi nella credenza «che gli Dei apparissero agli uomini nel tempo dei solstizi». Il rito del ceppo bruciato ha a che fare con la vita e con la morte, con le ansie e con le attese degli uomini che nemmeno il tempo natalizio cancella: «I Calabresi spesso compiono mesti questo loro rito natalizio, destandosi nell’animo loro in quei momenti il pensiero pauroso che nel ritorno della festa non avesse a mancare alcuno della famiglia […]. Ove poi ciò avvenga il ceppo non si brucia per qualche tempo, sino a che non si smetterà il lutto. Anzi in occasione di morte in una famiglia il fuoco si spegne nel focolare; come per l’opposto si ritiene d’infelice augurio se alcuna volta il fuoco vi manchi […]». D’altra parte, quello di Natale è un tempo magico, nel quale si producono prodigi sconosciuti negli altri periodi dell’anno: gli animali riacquistano il linguaggio, dai fiumi scorre olio e dalle fontane miele, gli oggetti quotidiani si tramutano, per una repentina e provvisoria metamorfosi, in oro e perle. Soprattutto, l’acqua attinta dalle fontane alla mezzanotte della vigilia è un’acqua miracolosa, che porta ricchezza e felicità e tiene lontano qualsiasi malanno. Ci troviamo di fronte, come appare evidente, all’idea di un tempo di salvezza per gli uomini, di salute spirituale e materiale, di profonda umanizzazione del mondo, nel quale acquistano un loro posto anche le abitudini alimentari, come testimonia la tradizione di portare in tavola le “nove cose”, avendo cura che non manchi nulla ai commensali. Caratteristica di Capodanno e documentata in diverse parti della Calabria, compresa Serra San Bruno, è l’usanza della strina. Nel passato a Serra, i bambini, muniti di gurzidhu (un sacchetto con funzione di salvadanaio, quasi sempre di raso bianco e legato al collo), il giorno di Capodanno dovevano prendere un grossa pietra e con questa bussare alla casa dei parenti dicendo: «Tant’uoru mu vi trasa l’annu, facitindi di strina ch’è Capudannu». Questo presupponeva che i bambini si comportassero bene perché, altrimenti, sarebbe scesa dal camino la juovina (una vecchia simile a una befana malefica) per impadronirsi della strina. A questa tradizione, che secondo Dorsa affonda le sue radici nel mondo romano, si aggiungevano in diversi luoghi della Calabria suoni e canti di vario tipo. Infatti, tra le tante forme di messaggio augurale «primeggiava la strena, dono speciale che traeva origine dal culto sabino, consistente in ramoscelli di alloro e di ulivo. Il Calabrese in omaggio all’antica tradizione inaugura anch’egli con regali agli amici il capodanno; ed ha pure la sua strina, che è o un donativo di danaro che fa il padrone ai servi e il padre ai figli, o un centone di sentenze augurali che la sera della vigilia della festa egli canta innanzi la casa degli amici o di persone ragguardevoli». Lo strepito prodotto dai mortai e dai tamburi percossi dagli strinari – le comitive di giovani maschi che in alcuni posti andavano a cantare la strina a Capodanno o il giorno dell’Epifania – aveva la funzione di allontanare le anime dei morti minacciosi e di celebrare, mediante questo rito, la vita. Ma c’è una figura, cara a tutti i “presepari”, che sembra assistere indifferente a tali riti per concentrarsi sull’unico evento davvero prodigioso della notte di Natale e questi è, come si dice a Serra, lu meravigghiatu o, come dicono altrove, l’incantato. Nulla conta, per questa figurina stupefatta del presepe, se non la nascita di Gesù bambino, tutto il resto svanisce: le occupazioni quotidiane, il laborioso affaccendarsi degli altri pastori, il paesaggio che lo circonda. Una pagina di Corrado Alvaro lo consegna per sempre all’eternità della letteratura: «L’Incantato è un pover’uomo che non ha nulla e non porta nulla. S’è fermato accanto alla grotta e guarda la stella che ‘è posata come una farfalla tra la neve della roccia, sulla mangiatoia dove è nato il Signore. Non si muove e non fa nulla. Sta lì a braccia aperte, a bocca spalancata, a guardare quella Stella. Tutti attorno a lui si agitano. […] Ma l’Incantato è là come uno scimunito, colpito dal segno celeste, senza poter parlare. Egli ha capito tutto, conosce il miracolo della nascita del Signore. Ma non potrà mai raccontarlo a nessuno».
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