-Il 5 febbraio 1783, giorno del grande terremoto che devastò Calabria e Sicilia, il giovane sacerdote spagnolo Antonio Despuig y Dameto, trovandosi alla fonda su di una imbarcazione nelle acque di Tropea, non esitò a scendere a terra e si recò in soccorso fino alla Certosa di Serra. Qui conobbe il priore Pietro Paolo Arturi che, date le critiche circostanze, gli affidò un importante compito in nome del Signore.
Dameto, parroco della cattedrale di Santa Margherita in Palma di Majorca, tornato in patria, annotò l’evento nel repertorio (platea) della sua Chiesa.
-Segue l’estratto dal repertorio scritto da don Antonio Despuig y Dameto nel 1783: inizialmente custodito nella cattedrale di Santa Margherita in Palma di Majorca e ora in possesso di una biblioteca privata nella stessa città. Dopo accurate ricerche sono riuscito a copiare il prezioso documento. Ringrazio Don Pierre Durlivan, per l’aiuto nelle ricerche e per averlo fedelmente tradotto dalla lingua spagnola.
-Ore 13.30 del 7 febbraio 1783.
La grande scossa tellurica del 5 aveva reso inagibili e pericolanti tutti i locali della certosa di Serra. I monaci certpsini, sorretti dalla fede, si riunirono all’aperto raccolti a sicura distanza dalla chiesa ormai distrutta e fecero cerchio intorno al priore Dom Pietro Paolo Arturi aspettandosi, dal superiore, parole di conforto. Il priore, indicando quello che restava dei muri e della sovrastante cupola contorta, disse: Ringraziamo il Signore perché nessuno di noi è rimasto vittima di questo sisma e, considerando la imminente completa rovina del nostro tempio ed i pericoli che incombono, vi esorto a pregare per ottenere il perdono dei nostri peccati: perché è possibile che Iddio abbia destinato questo giorno ad essere l’ultimo di quel che ci concede per far penitenza. Appena il priore ebbe terminato questa preghiera, un frastuono precedette una seconda scossa che ci fece trasalire perché la terra si sollevò con violenza per poi sprofondare con un susseguirsi di boati e vibrazioni. Si vide la facciata della chiesa ondeggiare e, quello che restava della cupola, fu sospinto al di sopra della cima dei muri in un turbinio di frantumi. La massa di frammenti formò una densa nuvola di polvere che ci tolse il respiro. Tutti scappammo nella direzione opposta. Quando tornò la calma e il polverone si disperse, ci guardammo l’un l’altro, smarriti e prigionieri dell’incertezza del dopo. Poi, più per dissimulare la tragedia che per urgenza delle cose, ognuno tornò al suo da fare.
Alcune verdure raccolte nei prati circostanti -chiamate “razze”- furono cotte e distribuite senza alcun condimento usando, a mo di piatti, delle larghe foglie che crescevano rigogliose lungo gli argini di un vicino ruscello. Un gruppo di monaci giunse dall’esterno portando fascine di paglia e spoglie secche di granturco; scambiarono le loro impressioni sull’ultima scossa descrivendo ciò che avevano provato e visto mentre erano fuori e, dopo aver osservato quanto danno si era aggiunto al danno, portarono il materiale all’interno della capanna. Indi si accinsero a preparare un giaciglio comune per la notte. Il priore mi invitò a seguirlo per la verifica dei danni provocati dall’ultima scossa. Percorremmo, con cautela, la periferia delle rovine. Di tanto in tanto dovevamo scansare fangose pozze piene di acqua che erano state formate dai numerosi rivoli che, sgorgando dalla terra, riempivano le anse del terreno. La terra circostante, scossa dagli ultimi fremiti, si era alzata per solchi che apparivano come onde marine in un mare in tempesta. Tutto seguiva quel disegno ondulato che si perdeva alla vista spianandosi verso monte. Nei pressi dei magazzini crollati si vedeva l’olio fluire all’esterno; sorgeva da sotto i detriti che coprivano i corridoi e, dalla cantina, rivoli di vino, si spargevano nel giardino serpeggiando fino a riversarsi nelle profonde fenditure della terra ferita. Tutto era andato in rovina, tutto era inservibile ed impraticabile. Infine giungemmo nei pressi della falegnameria dove, un monaco, si stava affaticando per il recupero di qualche cosa di utile: pensammo che avesse bisogno di aiuto e ci avvicinammo e fu proprio in quel momento che alle nostre spalle un frate, correndo verso di noi, invocava a gran voce il nome del priore.
Ci fermammo e, quando ci raggiunse, ansimando disse:
-Padre Priore, è arrivato l’Espresso …Vi aspetta alla capanna …Urge la vostra presenza.
Il priore si affrettò verso la capanna seguito dal frate ed io rimasi con l’intento di aiutare il monaco che rovistava fra le rovine.
Quando, scavalcate le prime macerie, gli giunsi vicino questi mi salutò in lingua spagnola e così procedemmo nel dialogo. Si trattava di un monaco di origine ispanica a nome Juan Madera, ex priore dell’antica certosa di Jerez che, sette anni prima, aveva lasciato la Spagna per trasferirsi in questo eremo. Conosceva il mio nome, la mia provenienza e il motivo della mia visita perché, incuriosito dal mio accento, aveva chiesto lumi, sulla mia persona, direttamente al priore. Dopo questo scambio di notizie, riferendomi al suo rischioso operare fra quelle macerie, osservai che era più facile prelevare le tavole dalla vicina segheria piuttosto che avventurarsi fra i pericolanti muri di quella fabbrica. Padre Madera si aprì spiegandomi che non era alla ricerca di tavole ma si affannava a recuperare un quadro che aveva portato dalla certosa di Jerez, e poi riposto da tempo in quel luogo in mezzo ad una catasta di tavole addossate alla parete della falegnameria. Il quadro, mi spiegò, era stato inquisito e respinto dalla comunità certosina di Serra a causa delle spinte fattezze femminili della Vergine. Aggiunse ancora che, era proprio la mia presenza che lo incoraggiava a recuperarlo. Ora, dopo questo frangente, era intenzionato, con il permesso del priore, ad unirsi alla mia comitiva per tornare in terra di Spagna e cercare di dare nuova vita alla certosa di Jerez. Avrebbe portato con se anche il quadro della vergine: opera del pittore Francisco de Zurbaran, eseguita per la municipalità di Llerena e poi, da questa, donata alla certosa di Jerez.
Padre Madera aggiunse:
-Vorrei che il quadro della Vergine fosse esposto e venerato nella nostra grande certosa di Spagna: il Signore voglia perdonarmi ma, in questo terribile momento, è il mio unico desiderio.
Si inginocchiò sulla martoriata terra facendo il segno della croce e levando le braccia al cielo: domandava al Signore perché non avesse illuminato la mente del fratello Giuseppe che, appena dopo la prima scossa, si era prodigato, rischiando la vita, a scaraventare fuori dalla falegnameria attrezzi e materiale, ignorando il quadro della Vergine. Ora, il recupero del quadro appariva disperato per la enorme massa di macerie che si era accumulata nella falegnameria. Fu alla seconda scossa che la sovrastante magione, rovinando, si era abbattuta al suo interno.
Padre Madera, davanti a tanta difficoltà si sentì inerme e scorato, mi chiese quando sarebbe avvenuta la mia partenza per Palma di Maiorca. Risposi che all’indomani all’alba avrei lasciato quel luogo. A questa risposta abbassò la braccia in segno di resa. Poi, come se avesse avuto un’improvvisa rivelazione esclamò:
-Ho tutta una notte di tempo perché San Bruno possa esaudire il mio desiderio: mi farò aiutare dal fratello Giuseppe; è l’unico che sa come avanzare, con perizia, in questo cumulo di macerie. Devo tentare di salvare il dipinto.
Non aggiunsi parola; la forza della fede può superare i più grandi ostacoli. Che la volontà del Signore sia fatta.
Ci avviammo con passo spedito verso la capanna alla ricerca di Frà Giuseppe che era il più impegnato a costruire con il legno il riparo e gli accessori di conforto. Nel contempo si stava costruendo anche una paratia di tavole, parallela al muro di cinta e scostata da questo di un paio di metri: tanto per nascondere il posto dove era stata scavata una fossa adibita a latrina.
Nei pressi dei fuochi erano state accatastate fascine di legna, rami, sterpaglie, trucioli e pezzi di tavole scartate nel corso dei lavori in atto. In alcuni recipienti di fortuna si stavano cuocendo delle patate raccattate chissà dove; in altri bollivano verdure raccolte nei campi vicini. Tutto si svolgeva intorno alla secentesca fontana del chiostro dei Padri composta da tre bacini sovrapposti. Il sisma aveva ondulato il terreno sottostante inclinandola leggermente senza altri danni. L’acqua, ora, colava da un solo lato. Dal bacino centrale veniva attinta l’acqua per la cucina e per altri servizi; quello di base veniva usato come lavatoio. Due tavole, poste di traverso sul bordo della vasca bassa, servivano per sostenere i recipienti da riempire e le cose da lavare. Poco distanti dalla fontana erano state infisse nel terreno alcune pertiche terminanti a forcella che sostenevano dei bastoni orizzontali che fungevano da supporto per panni e oggetti bagnati.
La capanna, come riparo provvisorio appariva accogliente. All’interno, servendosi di grosse pietre a guisa di mazza, alcuni frati stavano piantando dei paletti nel terreno a sostegno degli assi che avrebbero sorretto due ordini di tavoli con panche addossate alle pareti. Al centro era stato lasciato libero uno spazio a mo di corridoio; così da poter raggiungere con facilità ogni punto della capanna. Guardando dalla soglia verso il fondo, si vedeva il brillio della statua di San Bruno, miracolosamente salvata che, colpita dai raggi di luce provenienti dalle due finestrelle laterali, spargeva argentei bagliori. Ai lati della statua si stavano approntando le pareti divisorie di poco più alte di un uomo, che avrebbero delimitato due comparti: uno riservato ad alloggio per il priore e l’altro adibito per i servizi di sacrestia.
In quelle avverse condizioni, quanto era stato costruito serviva per dare un po’ di dignità, coraggio e conforto a quelle anime ferite ma non dome. Anzi, con spirito leonino, prevedendo un avvenire difficile, avevano concertato di utilizzare l’area a sud, ora sgombra e coltivata, per una più acconcia provvisoria sistemazione.