Nel 1957 mio fratello Sharo aveva avuto l’incarico di vice-direttore presso l’Istituto Italo – albanese di San Demetrio Corone in provincia di Cosenza. Era agli inizi della sua attività letteraria e, oltre a scrivere su vari giornali, incominciava a scrivere racconti e poesie. Ad incoraggiarlo e a spingerlo ancora di più su questa strada c’era il professore Alfredo Gigliotti con il quale aveva un ottimo rapporto di reciproca stima e amicizia.
Per meglio diffondere gli scritti di Sharo e anche i suoi personali, a Gigliotti venne l’idea di aprire una casa editrice nominando mio fratello direttore responsabile. Per questa sua funzione Sharo doveva essere autorizzato da un ufficio pubblico al quale bisognava consegnare l’originale dell’estratto di nascita in carta legale.
Il paese di nascita di Sharo era Vazzano e pertanto il documento poteva rilasciarlo solo quel comune. Con un telegramma ha informato mio padre di questa sua necessità. Ai tempi e con i mezzi di allora sbrigare una faccenda del genere diventava un problema. Per raggiungere Vazzano bisognava alzarsi la mattina alle sei, prendere il postale per Vibo Valentia, scendere a Soriano e prendere l’altro postale delle ore dieci diretto a Vazzano. Per il ritorno era necessario eseguire il percorso inverso con rientro a Serra San Bruno la sera alle ore cinque. Un’altra soluzione poteva essere quella di andare e ritornare a piedi utilizzando la strada che oggi si chiama di li carvunari. Oppure, ultima soluzione, oppure……….. oppure ………… ! Mi era venuta un’idea: mi sarei fatto prestare da qualche amico uno di quei tre o quattro scooter che esistevano in paese.
In quel periodo avevo un caro amico, purtroppo da tempo passato a miglior vita. Si chiamava Leonardo Abranca. Lavorava e abitava a Santa Maria presso lo stabilimento dei fratelli Poletto. Era il capo cantiere e tutti gli operai dipendevano da lui. Lo stimavano tutti e godeva della totale fiducia di signor Silvio e di signor Marco. Preciso e scrupoloso, per l’intero orario di lavoro non si fermava mai: con quella sua rollina era in tutti i posti dove c’era da misurare tronchi o le cataste di tavole preparate dagli operai. Le cataste a loro volta dovevano essere perfette. Guai se qualche tavola sporgeva in fuori. In quel caso gli operai che non erano stati diligenti dovevano smontare e rimontare il tutto.
Lo stesso scrupolo e la stessa cura Leonardo la riservava ai suoi oggetti personali tra cui una moto Vespa di colore azzurro argentato. La curava in tutti i particolari. Sempre pulita, sempre lucidata, perfettamente funzionante. La gomma di scorta debitamente coperta per evitare che si sporcasse. Come raffinatezza finale aveva adattato un parabrezza grande ampio, avvolgente e trasparente più che mai. Il motore, come lui spesso diceva, non faceva rumore, ma cantava. Per avviarlo bastava spingere con il piede il pedale della messa in moto una sola volta.
Leonardo, a sera, dopo la stressante fatica della giornata aveva l’abitudine di cambiarsi d’abito, montare sullo scooter e scendere in paese per trascorrere al Circolo Unione un paio d’ore per rilassarsi discutendo e chiacchierando con il preside Vincenzo Pisani, suo fratello Ciccio, il dottore Zaffino, il dottore Rebecchi, Cecè Neri, Fiorino Nicotra, Mario Valente, Carlo De Blasio e tanti altri amici.
Ritorniamo da dove siamo partiti. Dovevo andare a Vazzano e per evitare postali e camminate a piedi, mi sono rivolto a Leonardo per farmi prestare la sua Vespa. Sapevo che Leonardo era restio a cedere ad altri la sua Vespa, ma con me non ci sono stati particolari problemi.
All’Agip di Giovannino Mannella ho fatto aggiungere qualche centinaio di lire di miscela per riempire il serbatoio che era già quasi colmo e … viaaaa verso Vazzano!!
Oh, come è bello andare sulla moto Vespaaa!/ Il motore gira ch’è ‘na meraviglia/ mentre il sole su nel cielo brillaaa! Oh, come è bello andare sulla moto Vespaaa!
Quaranta minuti dopo sono a Vazzano. In poco tempo il responsabile dell’anagrafe stampa e mi consegna l’estratto dell’atto di nascita e senza perdere tempo scendo giù in strada e mi accingo a mettere in moto per ripartire. Mah, mah! Che succede? Il motore, che solitamente si avviava al primo colpo, stenta a ripartire. Provo una, due, tre volte. Alla quarta si avvia e io posso riprendere la strada del ritorno.
Attraverso uno dopo l’altro i centri abitati di Pizzoni, di Soriano e di Sorianello tra gli sguardi invidiosi dei passanti per quel gingillo di moto. Intanto l’azzurro del cielo era quasi scomparso dietro una nera coltre di nuvole che non promettevano niente di buono. Però non era questo il motivo di una mia iniziale preoccupazione, ma il fatto che lungo la salita ed i tornanti dopo Sorianello, quando acceleravo, il motore scoppiettava in modo anormale e tendeva a spegnersi e nello stesso tempo avvertivo una puzza di benzina che faceva presagire niente di buono.
Giunto alla località Savini quello che temevo si è verificato: il motore si è spento e io mi sono fermato in mezzo alla strada. Ormai la puzza della benzina si era fatta più forte: ho guardato nel serbatoio e, ahimè, il pieno della mattina era diventato quasi …… vuoto. Ho girato la leva della riserva e dopo diversi tentativi sono riuscito ad avviare il motore e ha ripartire con il cuore tra i denti.
Intanto le nuvole avevano oscurato completamente il cielo; cominciava a cadere qualche goccia di pioggia e il vento si era alzato soffiando nel senso contrario alla marcia. Ho percorso ancora alcuni chilometri sotto una pioggia mista a grandine sempre più consistente che ormai mi aveva totalmente inzuppato. Il parabrezza bello, elegante anziché ripararmi dall’acqua era diventato un ostacolo a causa del vento che a volte mi faceva perdere l’equilibrio. Nello stesso tempo il motore aveva ricominciato a fare i capricci: si spegneva, si accendeva, rallentava finchè all’altezza del km 47 si è fermato del tutto. Ho guardato speranzoso nel serbatoio: totalmente vuoto, asciutto; la miscela era scomparsa. Non mi restava altro che scendere dal sedile e spingere, spingere, spingere quel peso morto rallentato dal vento, dalla pioggia e dal parabrezza su una strada che ormai era tutta in salita.
Di mano in mano che andavo avanti le forze mi venivano a mancare. Non ce facevo proprio più. Spingevo e camminavo perché sapevo che a circa seicento metri iniziava la discesa che mi avrebbe portato a casa senza ulteriori sforzi. Ed eccola là, finalmente, la discesa! Ho tirato un sospiro di sollievo. Un sospiro, però, perché il respiro ormai era divenuto cortissimo. Quando sono arrivato vicino alla proprietà dei Cuteri, per come ho potuto, ho preso la rincorsa, ho superato il dosso della strada, sono saltato sul sedile della Vespa e via per la discesa.
Ma, che succede? Ah, malanova mu lu vena! (Cuomu dicimo nui italiani di la Serra ). E potevo mai immaginare che il vento avrebbe aumentato la sua forza sbattendo sul quel benedetto (?) parabrezza e non mi avrebbe permesso di approfittare della discesa? Seduto sullo scooter ho appoggiato i piedi sull’asfalto e ho tentato di andare avanti usando le gambe come due remi. Fu tutto inutile; mi veniva da piangere. Rassegnato, cu sta pioggia e cu stu ventu …, ho fatto a piedi gli ultimi cinque chilometri che mi separavano dall’officina di Cecè Neri, preoccupato per i danni che si erano potuti verificare alla Vespa a cui Leonardo teneva più di ogni altra cosa. Cecè non ha perso tempo: rapidamente ha aperto il cofano del motore, ha esaminato la situazione, ha preso un cacciavite, ha manovrato per trenta secondi, ha messo un po’ di miscela nel serbatoio, ha premuto sul pedale dell’accensione ed istantaneamente il motore è ritornato a cantare. Il guasto? Presto detto: una delle fascette che tenevano stretto il tubicino che porta il liquido dal serbatoio al carburatore si era allentata. Bastava stringerla.
E l’estratto di nascita di mio fratello Sharo? Per evitare che si stropicciasse l’avevo messo (meno male) nel cassetto della Vespa. L’ho estratto bello e asciutto e l’ho spedito a San Demetrio Corone.
Oh, come è bello andare sulla moto Vespaaa!
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