«Avete mai visitato, per caso, la Certosa di Serra San Bruno? Io sì, tante volte; e ho potuto fiutare l’odor… mistico dell’incenso e quello ancor sapido delle cucine; e vedere nell’ombra dei chiostri profilarsi i rettangoli luminosi dei finestroni, con crudezza geometrica che consentiva le sfumature leggiadre d’un impalpabile e danzante polverio d’oro; e ascendere scalette a spirale dove t’accorgi d’aver sotto i piedi la pietra bianca della vicina montagna, per affacciarti a una cantoria o ad un pulpito, l’uno in fondo a una chiesa e l’altro in mezzo a un refettorio.
Com’è strana quella fila di goffi boccali di terracotta che scandiscono i posti dei frati sulle rustiche mense! La regola severa consente senza scrupolo la frigida dimestichezza di Sor Acqua, ma contenuta in secchi a caraffe, non espanta e cantante da bocche di fontane. Queste bisogna trovarsele e sentirsele fuori, fra l’erbe e gli abeti del bosco, come in un concerto musicale all’aria aperta. La Certosa non ha neppure organo; è inutile cercare sulle pareti della chiesa o delle cappelle uno di quei polverosi e fragorosi cassoni ripieni di canne di stagno che seguono angosciosamente, come vecchi in salita, l’allegro coro del popolo nelle Messe grandi e nei nostri villaggi. Qui i nudi versetti dei salmi cantilenano stanchi su labbra avvezze al silenzio e al digiuno. E c’è un riquadro triste di terra rimossa, segnata dalle croci bene in vista dalle finestre delle squallide celle: il cimitero.
Ma più in là, eccoti filari di viti dai grappoli acerbi chiazzati di zolfo, o, a secondo del tempo, ciliegie vermiglie, peri stracarichi come in orto di cuccagna. La vita e la morte si spiano vicine, senza sorrisi e senz’odio, come due belve che dormono assieme. Voglio dire che i contrasti non mancano neppure in questo regno di rinunzie proterve e assolute, ove la guerra dello Spirito contro la carne – e sia pure quella delle susine – ha uno dei suoi formidabili quartieri.
Mi fermo, per esempio, ad ammirare le severe superstiti muraglie della chiesa del Palladio, dalla nuda facciata assai simile al frontespizio della Regola certosina; la pietra e la struttura, la carta e la parola, dell’Asceta e dell’Architetto, s’eguagliano. Anche il chiostro cinquecentesco, mutilo e quadrato, svolge gli archi fra il verde dell’erba e l’azzurro del cielo, con pieghe flessuose di rami. Ma di là dalle siepi di bosso del viale, a sbaragliare immagini e impressioni che avrebbero colmato di mistica letizia il cuore e la pagina del vecchio Huismans, ti giunge uno starnazzare e crocidare di galline di un bianco uniforme di latte, tranne i rubicondi bargigli e le creste, georgico bordone alle salmodie in canto fermo dei Padri. Ancora e sempre contrasti: la matassa del tempo si dipana anche qui, forse più lentamente, sull’aspo della dialettica, coi tagli più duri. E gira e fa groppo, e si snoda ad ordine questa trama di vita simile a tutte le altre e uguale a nessuna: la vita della Certosa.
Ma i Padri dove sono? Quello che v’accoglie alla porta – e tutti gli altri addetti ai servizi della casa – è un frate che può e deve, con discrezione riguardosa, trattare con chiunque faccia squillare il campanello: il portinaio, che diventa cicerone coi visitatori ed elemosiniere coi poveri. Egli esclude inesorabile dalla soglia le donne; rare volte, e sempre per rescritti papali,la clausura alzò le sbarre per farle passare. I Padri attendono alla perfezione dell’anima, quell’esclusivo esercizio della vita ascetica. Naturalmente, la virtù loro non sopprime contiene e riduce le esigenze e le trasporta su un piano di analogie spirituali; se no, l’esercizio più autentico degli asceti dovrebbe essere il suicidio, e la loro vita un breviario di tutte le più strampalate follie. Sono invece gli uomini più sereni e più esperti che si conoscano. Non pesci d’acquario, ma vele aperte nel vento del cielo e del mare. E neppure vittime o relitti di disperazioni mondane, buttati sul lido della mareggiata delle passioni; pur lasciando, come si conviene, il dovuto margine alle eccezioni. Sono anime assetate di Dio e di silenzio: monaci, con nel petto l’arsura della solitudine e della preghiera da quando nascono. “Io t’ho chiamato fin da quando eri nel ventre di tua madre”. È una frase biblica imbullettata in un ritaglio di cartone bianco sulla porta d’una cella della Certosa. E quest’altra: “Orebe mia certum” ch’è una sommessa parola di amore».
Don Francesco Laugelli, Mille cerini per un sigaro, (Edizione familiare a cura del nipote Lelè Laugelli), Squillace Lido 2008, pp. 95-97.
Don Ciccio (per gli amici) Laugelli nacque ad Amaroni il 25 gennaio 1906. Divenuto sacerdote, fu prima parroco di Nardodipace e poi di S. Pietro a Squillace. Insegnò discipline letterarie nel seminario di Squillace e rifulse come eccellente oratore sacro. Oltre ad una profonda sensibilità umana, ebbe anche una grande cultura nel campo artistico, letterario e filosofico. Morì il 30 luglio 1996 a Catanzaro.