“Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia” . Così, con Regio Decreto (formato da un solo articolo) del 17 marzo 1861, veniva decretato e proclamato il Regno d’Italia.
L’Italia si liberava così della sprezzante definizione di “espressione geografica” del Metternich. Al completamento della sua unità politico territoriale mancavano solo Roma e Venezia. Molto di più mancava al compimento dell’unità civile, economica, morale e spirituale.
Numerosi e gravi problemi, alcuni dei quali persistono purtroppo ancora oggi, impedivano l’unità completa e reale – e non solo formale – del nuovo Stato. Tra questi si impose, ben presto in tutta la sua virulenza, il fenomeno del brigantaggio, che riassunse in sé, in quegli anni, il più vasto e complesso “problema meridionale”.
Quale fu nei riguardi del fenomeno del brigantaggio l’atteggiamento dei governi moderati che si susseguirono dal 1861 ? In genere fu un comportamento condizionato da scarsa e libresca conoscenza delle “cose del Sud”. In alcuni ambienti era persino accreditata la teoria razzistica dell’inferiorità del Mezzogiorno riconducibile alla scuola positiva del Lombroso e del Ferri.
I problemi del Sud , il brigantaggio in particolare, venivano visti e valutati – o sottovalutati – alla luce di presupposti errati. Gli interventi anti – brigantaggio mirarono esclusivamente alla repressione militare, senza analizzare le cause profonde del fenomeno.
In questo scenario di prassi politica si inquadrano le azioni del generale Cialdini, che unificò nelle sue mani il potere politico e militare e le operazioni dello “stato di assedio“, adottato inizialmente da La Marmora per l’episodio dell’Aspromonte, ma che ebbe in seguito una chiara ed esclusiva funzione anti-brigantaggio.
Ma nonostante questi ed altri drastici interventi, il brigantaggio imperversava sempre più e le bande crescevano in numero ed in aggressività, coagulando intorno a capi più o meno noti.
Col brigantaggio vero e proprio era poi strettamente connesso il “manutengolismo” che costituiva la forma di appoggio offerta ai briganti dalle masse dei contadini, da alcuni possidenti, da preti, monaci e parenti di briganti.
Il tema del brigantaggio assunse particolare importanza nel parlamento unitario per l’azione, non molto coordinata ma incisiva, svolta dai deputati della sinistra democratica. All’indomani dell’unità andava prendendo sempre più corpo la necessità di un’inchiesta parlamentare. Una proposta in tal senso fu avanzata da deputato G. Ferrari, ma fu subito respinta dal governo. Ma dopo qualche mese, nel marzo del 1862, venne costituita una commissione di sei membri, tra cui il calabrese Luigi Miceli di Longobardi, col compito di studiare le condizioni delle province del Sud. La commissione, in breve tempo, presentò un memorandum con un interessante elenco di misure economico-sociali, cui il governo Rattazzi non diede alcun seguito.
Il 16 settembre 1862, finalmente, la Camera, non senza polemiche e contrasti, deliberò un’inchiesta parlamentare costituendo una commissione che è passata alla storia col nome del suo presidente: il pugliese Giuseppe Massari. Compito assegnato: accertare le condizioni di vita del Meridione e individuare i mezzi idonei per sconfiggere il brigantaggio.
La commissione Massari nei primi mesi del 1863 visitò molti luoghi del Mezzogiorno e a fine marzo ritornava a Torino con un dossier voluminoso.
La commissione elaborò la relazione sulle risultanze dell’inchiesta e nei primi giorni di maggio il presidente ne dava lettura alla camera riunita in seduta segreta.
Il Massari, dopo aver precisato i precedenti storici del brigantaggio meridionale, lo definisce “sintomo di un male profondo e antico”, originato da un duplice ordine di cause: “cause immediate” e “cause predisponenti”. Le prime vengono individuate principalmente nella crisi politica verificatasi nel Meridione dopo l’unità e che, come ogni crisi politica, ha scosso gravemente il principio di autorità, ha allentato i vincoli sociali e ha prodotto un grave turbamento della sicurezza pubblica. Ma queste più che cause possono ritenersi occasioni dell’esplosione del brigantaggio che affonda le radici in motivazioni più remote e generali che sono appunto le “cause predisponenti”. Queste vengono indicate nella condizione sociale, nella miseria e nell’ignoranza del “campagnuolo”, nei rapporti tra possidenti e proletari permeati ancora di feudalesimo , nella superstizione diffusa e, principalmente, nella mancanza assoluta di fiducia nelle leggi e nella giustizia. Queste cause messe insieme sono corroborate dal sistema borbonico che prima le aveva determinate e poi ne strumentalizzava le nefaste conseguenze sobillando i “cafoni” col miraggio della restaurazione. Grande responsabilità ricade anche sul clero, definito “manutengolo morale dei briganti”. Nella relazione si accenna, in modo superficiale, alle deficienze del governo e delle luogotenenze.
A queste premesse seguono alcuni suggerimenti di rimedi “a lunga scadenza” per rimuovere le deficienze denunciate: organizzazione dell’istruzione pubblica, equa composizione delle questioni demaniali, promozione dei lavori pubblici, potenziamento della viabilità e delle comunicazioni.
Ma subito dopo, in modo incoerente e contraddittorio, il relatore conclude dichiarando il brigantaggio “una vera guerra” che postula l’assoluta necessità di una legislazione eccezionale adeguata allo stato di guerra. In definitiva la relazione auspica “provvedimenti speciali corrispondenti alle necessità della difesa dell’indipendenza e dell’onore della patria”.
Il deputato tarantino insiste molto nella lunga relazione sul carattere ricorrente del fenomeno storico del brigantaggio meridionale. Ma il suo massimo sforzo viene indirizzato alla denuncia delle responsabilità borboniche, clericali e papali nel sostegno della guerriglia.
Mentre gli interventi preventivi (pur accennati nella relazione Massari) furono del tutto trascurati, vennero tempestivamente accolte e realizzate le indicazioni repressive con l’emanazione della legge 15 agosto 1963, proposta dal deputato aquilano Giuseppe Pica di chiara ispirazione filogovernativa.
La Legge Pica sospendeva le libertà costituzionali nelle province infestate dai briganti con l’istituzione dei tribunali speciali e delle giunte provinciali di pubblica sicurezza. In definitiva l’esigenza immediata che esprime il resoconto dell’inchiesta è soprattutto quella di legalizzare e inasprire la repressione già in atto. La Marmora ebbe a dichiarare: “Dal mese di marzo del ’61 al febbraio del ’63 abbiamo ucciso o fucilato 7151 briganti”.
Per comprendere la natura profonda del brigantaggio e individuare provvedimenti adeguati ed efficaci era necessario approfondire il contesto storico, socio-economico e politico della realtà meridionale. All’indomani dell’unità si era generata una crisi generale del tessuto sociale del Sud. Le operazioni repentine connesse con l’unificazione avevano sconvolto il tradizionale assetto politico ed economico del Mezzogiorno. Basta ricordare l’espropriazione e la laicizzazione delle proprietà ecclesiastiche, l’imposizione del più aspro sistema fiscale del Regno sardo, l’introduzione della coscrizione obbligatoria, l’invasione dei burocrati piemontesi. Senza contare che, cadute le barriere doganali, la concorrenza della più progredita industria del Nord aveva provocato il crollo della industria domestica meridionale.
Tutto ciò aveva prodotto un vero cataclisma anche perché il mutamento troppo vasto ed improvviso non era stato preceduto da un’adeguata evoluzione delle forze sociali. Infatti le leggi piemontesi si sovrapposero ad usi e costumi antichi di sapore medioevale.
Agli occhi dei contadini i nuovi dirigenti politici e militari assunsero ben presto i volti del padrone rapace, dell’esattore odiato, dell’ufficiale di leva, del carabiniere e del nemico della religione.
L’esplosione del brigantaggio fu la risposta dei contadini del Sud, sbigottiti da quei mutamenti e disorientati dalla propaganda borbonico-clericale. Ai contadini si aggregarono, spesso col ruolo di capi, gli ex soldati (congedati o sbandati) dell’esercito borbonico improvvidamente disciolto.
Pasquale Villari nelle Lettere Meridionali annota che per eliminare il brigantaggio fu “fatto scorrere il sangue a fiume, si fecero molte amputazioni col fuoco, ma non si pensò di purificare il sangue”.
Potevano i governi espressi dai moderati attuare una diversa strategia politica ?
Noi riteniamo di si. Ma una diversa linea politica richiedeva una migliore conoscenza dei problemi meridionali da parte dello stesso Cavour e degli uomini che gli succedettero; Essi furono invece costantemente condizionati dal timore di complicazioni internazionali e dal loro conservatorismo politico. I nuovi dirigenti mirarono esclusivamente a reprimere e a monopolizzare il potere, respingendo all’opposizione, oltre ai democratici, quella grande maggioranza della media e piccola borghesia liberale che era unitaria, ma non “annessionista”.
Il clero poi fu vessato e spaventato senza che il suo potere economico venisse realmente sradicato.
Il brigantaggio non fu un fenomeno di matrice politica nel senso che scaturisce dalla relazione Massari che si sofferma a lungo nell’esagerare le responsabilità borbonico-clericali che in effetti non ebbero così grande rilevanza. I moti contadini solo all’inizio furono orientati dalla reazione borbonica. Poi il rapporto tra direzione politica e contenuto economico-sociale si risolse in un netto prevalere del secondo sulla prima. La restaurazione borbonica sussiste più come pretesto che come reale piattaforma di mobilitazione delle masse contadine.
Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli (1945) accredita la tesi del brigantaggio come “guerra contadina contro lo stato unitario”. In una forma letteraria penetrante e suggestiva, lo scrittore piemontese interpreta il fenomeno come lotta tra “civiltà contadina” e “l’altra civiltà” cioè lo Stato unitario. Questa lettura del fenomeno appare piuttosto unilaterale e parziale perché trascura i motivi economici e sociali della rivolta contadina.
Per concludere possiamo dire che il brigantaggio si presenta come fenomeno molto complesso che si espresse in una guerriglia prolungata e primitiva, priva di direzione centralizzata e di obiettivi strategico-politici, anzi molto spesso è caratterizzata da aspetti anarcoidi. In essa si intrecciano, in modo contraddittorio, sia la protesta armata contro i gravami del fisco e della coscrizione obbligatoria, sia l’uso della violenza per vendicare le angherie e i soprusi dei “galantuomini” allo scopo di ottenere una parte di quella rendita agraria sistematicamente negata.
I “cafoni” si impegnarono per anni in una lotta disperata e condannata all’insuccesso, una lotta che si era scatenata, paradossalmente, dalla loro fatalistica rassegnazione. E quando essi furono sconfitti presero le “tribolate vie” dell’emigrazione.
Per la gente del Sud incominciava una nuova tormentata vicenda, incruenta, ma non meno drammatica che ancora oggi è dura realtà.
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