“…Sbampa lu focu, tuttu cunsuma…/ Cu’ ‘ndeppi, ‘ndeppi, ‘cchjiu’ non si fuma!”
Su questi versi si può impostare e tracciare l’intera vita di un personaggio che, a lungo andare e, solo post-mortem, la sua stessa terra, Monteleone di Calabria, riconobbe come uomo di valore e consacrò “Poeta”: Vincenzo Ammirà!
Un uomo inquieto, pensatore romantico, un irriducibile ribelle che fece della sua vita quasi un’avventura. Con la sua esistenza ha saputo, sia pure sgomitando, ritagliarsi una fetta di quell’irrequieto ed intraprendente ‘800 che la sua Monteleone, ha vissuto in maniera intensa, partecipando a quelle correnti letterarie che, a me piace ricordare come “momento vulcanico”, tanta era la forza e l’energia che esprimevano i versi dei vari D. Mauro, B. Miraglia, Padula e, incastonato tra questi meravigliosi e delicati cantori, anche il nostro monteleonese Vincenzo Ammirà, distinguendosi per la sua ironia, il suo amore per la patria e la dolcezza, quando il caso lo esigeva, come sottolineavano alcune poesie, considerate poi, veri e propri capolavori!
Un uomo che non ha esitato ad assecondare il condottiero Giuseppe Garibaldi che, dopo la breve sosta di una notte presso la Monteleone dei “Gagliardi”, prima di riprendere la risalita dello Stivale, lo volle accogliere fra i suoi “1000”, riuscendo ad ottenere, anche, un encomio ufficiale dallo stesso condottiero, per il suo “leale apporto alla causa”, prima di abbandonare il gruppo nei pressi di Soveria Mannelli! Il nostro personaggio, non ha avuto alcuna esitazione a voler competere con altri scrittori più qualificati, esibendo una produzione in lingua, alquanto interessante; infatti, molte sono le sue opere letterarie, tra cui due tragedie: “Lidia” e “Valentina Caudino” regolarmente rappresentate presso il teatro comunale di Monteleone, ottenendo i favori dell’allora molto colto pubblico, non solo monteleonese.
Compose diversi sonetti, canzoni, romanze; la sua poesia si inquadra nel periodo romantico e patriottico di cui la letteratura calabrese è permeata ma, ciò non basta per parlare di lui come di un grande, perché, in lingua italiana, non lascia un’impronta rilevante della sua arte, mancando, a detta di vari critici dell’epoca ed anche postumi, della giusta vitalità nel tragico, dal momento che gli stessi suoi personaggi, risultano essere privi di incisività, insomma, senza anima.
Il grande editorialista Alfio Bruno, del “Mattino” di Napoli, però, di lui parla in maniera lusinghiera, quando si riferisce alla sua lirica dialettale che, a suo dire “…zampilla dall’anima limpida come acqua di polla; verso sonante e puro, immagini argutamente e magnificamente incomparabili, formalità nel formare l’idea che tumulta nella sua anima”.
Non a caso io, assieme a tutti quelli che l’hanno fatto, perché letto, lo considero uno dei più grandi poeti dialettali della Calabria. Come stile e, quasi come un “rapinatore”, la sua poesia si trasforma in musica dolce e di pariniana memoria, se ci si sofferma su alcune poesie come “Morti di Zazzu”, “La Vergine cuccia”, “Chjantu di lu ciucciu” e, per finire, nella “Ninna nanna di lu Briganteju”, la cui lettura è capace di trasferire il lettore davanti ad un temperamento poetico di prim’ordine!
Questa interessante scia, Ammirà, la segue in altre poesie tra cui “A Pippa” e “A la luna” e, queste sono le artefici della sua grandezza di poeta dialettale. Ammirà è stato, purtroppo, compositore anche di altra produzione che non si può, certo, considerare letteratura, infatti, in quest’ultima, esplode tutta la sua gioventù ribelle, scioperata, amante smodato del sesso a volte triviale, anche se, per alcuni versi, l’ha trattato con spirito goliardico e, pure, come una presa in giro per la classe “bene” ed ipocrita del tempo, ivi compreso il Clero!!
“La Ceceide” ne è l’emblematico segno, non solo, ma è stata la causa di tante disavventure umane che lo hanno portato, quasi, alla disperazione, certamente alla galera ed anche alla solitudine cronica, in quanto ritenuta irriverente nei confronti della gente intoccabile che in quel tempo, contava e del pudore, molto ostentato sia dai nobili, sia dalla moltitudine dei prelati insistenti sul quel territorio. Il nostro Vincenzo Ammirà, infatti, morì, come se non fosse mai vissuto, nell’indigenza e l’oblio assoluto!
A proposito della Ceceide , mi piace sottolineare ed evidenziare in modo particolare come la stessa, rispecchiasse il codice sessuale della società arcaica contadina, impermeabile al moralismo “borghese”, accettando pienamente il sesso e intendendolo come funzione naturale e necessaria della vita dell’uomo. A seguito della sua ostilità nei confronti delle autorità francesi che, in quel tempo, spadroneggiavano in Monteleone, più volte manifestata, durante una perquisizione in casa sua, la Gendarmeria, avendo rinvenuto alcuni libri considerati osceni dalla legge, quali “il Decamerone del Boccaccio e la stessa Ceceide, fu prima esiliato, poi rimpatriato e chiuso nelle galere locali!
Mi piace pensare però, che un pugno di letterati romantici e nostalgici, amanti della nostra storia letteraria, abbia deciso di dare, finalmente, voce a chi, pur sgomitando e cantando alla luna, oltre che raccontando della sua fidata Pippa di Crita, a proposito della quale, il grande letterato Casalinuovo, disse che sarebbe bastato solo quel poemetto per qualificarlo “ il più grande poeta dialettale calabrese” e alla quale Pippa, come se la sua vita stesse per finire e, con essa, la sua incredibile avventura, fece dire, e qui, mi piace riportare i due versi con cui ho iniziato questa nota: “…Sbampa lu focu, tuttu cunsuma…/Cu’ ‘ndeppi, ‘ndeppi, ‘cchjiu’ non si fuma!”
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