Ho nostalgia della Serra di una volta, di quella che produceva. Non mi piace quella di oggi che consuma soltanto. Quella laboriosa, creativa, di quando le botteghe artigiane erano numerose e sparse per tutta la cittadina ed eravamo orgogliosi di possederle. Oggi il loro posto è stato occupato dagli esercizi commerciali, ne trovi uno ad ogni angolo di strada, perché il consumo si è sostituito alla produzione.
Non che io sia contrario al benessere della popolazione, anzi mi fa piacere ché tutti i ceti sociali possano godere di quanto oggi offrono i mercati e che si abbia anche il superfluo, ma non mi va giù quando si fanno paragoni tra la Serra di una volta e quella attuale: si rapporta l’arguzia degli antichi serresi a quelli di oggi ma, per me, il paragone non regge. L’ arguzia, secondo il mio punto di vista, è consequenziale alla creatività che è capacità di creare con l’intelletto e con la fantasia. E’ processo di dinamica intellettuale che ha come fattori caratterizzanti: particolare sensibilità ai problemi, capacità di produzione di idee,di originalità nell’ideare, capacità di sintesi e di analisi.
E’ lo strumento con cui la mente viene sollecitata a cercare la soluzione dei numerosi problemi che si presentano quotidianamente. Ricerca che educa alla riflessione, fa acquisire capacità di giudizio, fa funzionare il cervello e, quindi , capacità di cogliere le più sottili sfumature dei vari linguaggi compreso quello ironico.
Oggi noi viviamo soltanto di rendita.
A quell’epoca le botteghe artigiane non si contavano tante ce n’erano: dei falegnami, dei fabbri, dei sarti, dei calzolai, degli armaioli, degli ebanisti, degli intagliatori, degli incisori.. dove si eseguivano con meticolosità e professionalità lavori di ogni genere. Presenti anche le maestranze costituite da ottimi muratori, carpentieri, scalpellini, mannesi ……E in fine, i laboratori in cui si eseguivano veri capolavori come: quadri, affreschi, dipinti di vario genere utilizzando diverse tecniche pittoriche, fotografie; inoltre venivano realizzati con grande maestria orologi per campanili, altari, statue di Santi, di Madonne; restauri di oggetti antichi di vario genere e poi sculture in marmo, in legno, in argilla, in bronzo..
Le donne non erano da meno rispetto gli uomini: con i loro telai realizzavano splendide coperte, scialli, stuoie. Alcune, poi, ( la Signora maestra ! ) con prestigiosa abilità e utilizzando con maestria fili colorati di oro, d’argento, di lana e di seta ricamavano a mano meravigliosi paramenti sacri e addobbi per gli altari.
Serra produceva di tutto e la gente del Circondario affluiva a fornirsi dagli oggetti più complessi a quelli più semplici: dai mobili intagliati alle cassepanche, dagli infissi agli zoccoli, dalle madie alle bigonce, dalle statue dei santi agli altari. Ed ancora dai dipinti alle fotografie artistiche; alle sculture, dai monumenti ai portali in granito…
Nelle forge, poi, c’era da acquistare dai letti in ferro battuto ai balconi, ai cancelli finemente lavorati, dalle accette alle zappe, alle chiavi, alle serrature, agli attacci (chiodi a testa larga che proteggevano il cuoio delle scarpe dall’usura); dalle lucerne alle molle e palette per attizzare il fuoco, alla cerchiatura delle ruote dei carri.
Erano numerose queste botteghe artigianali; mi vengono in mente, per quanto riguarda i fabbriferrai: quella di Talau, di Mastru Rafieli di ncinni, di lu Macchiettu, di Pepparò, di Ciccilleu, di lu Culastru, di mastro Domenico Bubba, di Michilinu di ruocciulei, di Giacù ..quasi tutte ubicate su una stradetta secondaria, lungo la riva sinistra del fiume Ancinale, denominata: arriedu li fuorgi; una prosecuzione di via Fiume, dietro la chiesa Matrice.
Altra forgia era quella di Luiginu di l’asu, l’unico in grado di cerchiare le ruote dei carri, ubicata all’inizio del paese, sul lato sinistro entrando da S. Rocco.
A tale proposito mi piace aprire una parentesi per descrivere le modalità di esecuzione di tale lavoro: nello slargo antistante la forgia veniva sistemata una doppia fila di mattoni a forma di cerchio dal diametro delle ruote da ferrare in cui ardeva una consistente quantità di carbone di radica mentre all’interno della fucina veniva sagomata a forma di cerchio e a colpi di mazza, una sbarra di ferro incandescente, da alcuni aiutanti (tra cui, ovviamente, “Quartara”) sotto la direzione del maestro.
Contemporaneamente, dall’altro capo del paese, scendeva “Manicu”, persona dal fisico slanciato e robusto, facendo scorrere contemporaneamente le due ruote di carro, da lui costruite, con il palmo delle mani, per tutto il Corso Umberto (lungo oltre un chilometro e all’epoca non molto trafficato ).
Nel frattempo, ultimata la sagomatura, il cerchione veniva collocato sui carboni ardenti dentro la filiera di mattoni, in modo che si mantenesse infuocato e non si perdesse la quadda ( il ferro arroventato ) fino a quando “Manicu” non sarebbe arrivato con le due ruote.
La ruota, poi, veniva poggiata per terra, sul mozzo e immediatamente aiutanti e maestro, con lunghe e robuste tenaglie, toglievano dal suo alloggio il cerchione incandescente e lo calavano con millimetrica precisione sulla ruota che, al contatto, bruciava tra una nuvola di fumo, il legno superfluo.
Io, quando avevo bisogno di attacci mi recavo nella forgia di Pepparò, un uomo corpulento, enorme, come enormi erano le mani, i piedi, la testa. Il locale in cui lavorava era angusto, semibuio sia perché riceveva luce da un finestrale non molto ampio, sia perché le pareti, senza intonaco, erano coperte di cinesa (cenere di carbone di radica).
Pepparò non aveva discepoli che l’aiutassero nel lavoro per cui doveva fare tutto da solo: battere sull’incudine il ferro incandescente, soffiare con i mantici sul fucinaru per ravvivare il fuoco…quando non ne poteva più di quel lavoro bestemmiava la forgia di Bettelemme e la sua cattiva sorte.
Eravamo diventati molto amici e anche senza bisogno di attacci andavo a trovarlo spesso per chiacchierare con lui
Un pomeriggio lo trovai intento a limare un pezzo di ferro stretto in una morsa. Gli domandai cosa stesse facendo di buono. Mi rispose che stava ultimando un paio di cancarietti (cerniere ) per un portoncino
Notai che non era del solito umore e preso della curiosità gli chiesi cosa aveva, che cosa gli era successo. Smise di lavorare e girandosi verso di me fece con voce bassa:
“Compare, vi devo raccontare in segreto quello che mi è capitato. Tempo fa stavo chiacchierando con alcuni amici quando ad un tratto ho sentito suonare le campane a martuoru chiedo ad uno dei presenti, dico: “ a Luvici, cu muriu ?” e quello con aria compunta mi fa “ Nicola di lu pustinu requi e sempiterna .”
“Mo’, Cumpari, arzira, duoppu che chiusi la forgia di” Bettelemme” e prima di andare a casa sono passato dalla cantina di Ntunuzzu per bere un mezzolitro di vino dato che il freddo parlava con dio. Mi siedo, Compare, e ad un tratto chi ti vedo davanti a me? Nicola, Nicola di lu pustinu, “ verba et opera” ?!
Compare, si arrizzaru li carni. Sono rimasto senza fiato. Allora mi sono rivolto a lui e con aria supplichevole gli ho detto: a Nicola mio ca di vivu mi vulisti sempi beni e mo’ di muortu vinisti mu mi truovi. Vidisti a mama, vidisti a patrima… Compare, sapete come mi rispose guardandomi di traverso e toccandosi quegli…. affari ? Mi rispose: tu no mbai mu lu pigghi…… Credetemi, Compare, ancora sono impressionato !”.
Ci davamo del compare anche se tra noi non c’era stato alcun accadimento di carattere religioso o civile che consentisse di scambiarci quell’ appellativo. Secondo un’usanza paesana, però, qualora ci fosse stata un’amicizia basata su reciproca stima e profondo rispetto tra due persone, il vincolo che li univa era benedetto da San Giovanni: da qui la qualifica di compare Sangianni o solo Compare.
Alle volte sull’uscio della fucina si affacciava Giacchino. Dava uno sguardo fugace all’interno, accennava ad un saluto e andava via. Pepparò rispondeva senza entusiasmo e continuava nel suo lavoro. Un giorno, preso dalla curiosità, gli chiesi come mai tanta freddezza nei riguardi del cugino e mi raccontò l’affronto che gli aveva fatto una quindicina di giorni prima.
“ Compare, ero riuscito in questi tempi di carestia a trovare un pugno di fagioli chi misi mu cocianu ‘ntra na pignata supa allu fucinaru. Era quasi mienzijuornu. Avevo fame e non vedevo l’ora di ultimare una zappa per mangiarmi quei fagioli che ormai erano cotti. Ad un tratto che cosa ti vedo sulla soglia della forgia di Bettelemme ? Il sole e la luna, l’ombra. L’eclissi Compare! L’ombra dell’elefante, Giacchinu ! vestito con una giacca di velluto ed i pantaloni di lino. Una catena d’oro di qua e una d’argento di là. Entra e senza salutare o dire una parola si avvicina allu fucinaru, scuppa la pignata mu vida chi nc’è e quando si rende conto che si tratta di fagioli li versa in una insalatiera e con quelle mani a cuoppu di hilona ( guscio della tartaruga – hilona vocabolo greco) afferra il cucchiaio e si mette a mangiare e la smette fino a quando non ce n’era più. Dopo di che, gira le spalle e se ne va, senza dittu e senza fattu!…….. Mi sappa malu, Cumpari, criditimi! “ Poi, rivolto lo sguardo verso una immagine di S.Rocco affissa alla parete, supplicò: “ A Santuruoccu mio, tu vidi ca si sta livandu l’acqua di la funtana ch’esti accanto alla chiesa tua mu fai gazosi e stai mu guardi ? Mandanci nu cuocciu malu, oppuramenti allissanci ( aizzagli ) lu cani c’hai alli pedi, fa mu jetta lu pani c’hava alla vucca ca pue ti l’accattu io natru! …
“ Pepparò “…“ li fuorgi ”…altri tempi…altri modi di vivere…