Nel tentativo di attrarre il lettore, i titoli degli articoli, specie i miei, traggono in inganno. Nel presente caso il clero non si scaglia contro l’omonimo organo di stampa comunista, bensì contro l’Unità d’Italia. E’ noto che l’anticlericalismo professato da Cavour e dal Savoia aveva coagulato intorno alla bandiera borbonica l’intero clero meridionale. Aggredito nei suoi confini, pressato entro la cerchia muraria dell’Urbe, persa la prerogativa di capo temporale, il Papa aveva ordinato ai preti di avversare l’unione dei popoli italiani. Era anche in procinto di stabilire per dogma l’infallibilità papale e di lì a poco avrebbe dichiarato che mai Roma sarebbe caduta in mano ai Piemontesi. E, come prima manifestazione di infallibilità, l’esordio non era certo dei migliori. La condivisibile analisi sulla secolare incapacità di fare della penisola una Nazione porta a ritenere responsabile il ruolo avuto dal Papato nel volere conservare un suo Stato. A questo va aggiunto l’italico vizietto di combattere il vicino: Firenze contro Pisa, Siena contro Firenze e, nel nostro piccolo, Spinetto contro Terravecchia. I Savoia, dunque, diavoli negatori della religione e i Borbone suoi paladini e, nel 1861, nel clima arroventato dell’incendio unitario, sulla porta dell’Assunta di Spinetto appare un manifesto inneggiante al Borbone e, con termini censurabili, a totale dileggio del Savoia. I Meridionali, insieme ad altri Italiani, erano caduti nel tranello dei Plebisciti di annessione, cioè di votazioni truccate. Il governo era nelle mani dei Piemontesi, ultimi ad arrivare dopo le secolari carovane di germanici, longobardi, normanni, saraceni, spagnoli e francesi. I Piemontesi erano gli ultimi a pretendere di venire ad insegnare qualcosa al Meridione.
Gli archivi calabresi custodiscono le carte di numerosi processi istruiti dopo l’annessione per discorsi e grida sediziose, nonché per affissione di manifesti scritti a mano, inneggianti al passato regime. Gli autori erano in genere anonimi analfabeti, ciononostante le autorità di polizia ed i magistrati diedero la caccia ai colpevoli. Nelle indagini furono coinvolti i periti calligrafi e, come al solito, quali responsabili risultarono quelli già schedati, in questo caso i borbonici “antiliberali”. Uno dei capri espiatori fu Ferdinando Manno (1836-1898), giovane diacono, che ebbe la ventura di prendere nello stesso mese gli ordini di custodia cautelare e gli ordini canonici sacerdotali. Manno sarebbe diventato uno dei pilastri della chiesa dell’Assunta di Terravecchia.
Lo spazio è purtroppo tiranno, e sono costretto a procedere a sciabolate. Fu rilasciato e si dedicò a quelle che erano le sue passioni: la musica e la buona tavola. Era un mio avo, nonché antenato di mio cugino, l’attuale Priore dell’Addolorata. Un suo ritratto è nel coro della chiesa di Largo San Giovanni, ha in mano uno spartito e appare florido e in carne. In famiglia si racconta che sia stato un abbuffino senza pari: per rimaner leggero ingurgitava quaranta uova cotte al braciere. Ne avrà mangiate cinque, i nipoti le avranno raddoppiate, lo stesso avranno fatto i bisnipoti e a noi trisnipoti e tetranipoti ne sono risultate quaranta. Un miracolo di proliferazione degno dei pani e dei pesci di evangelica memoria.
Ora, vi siete chiesti perché nella chiesa dell’Assunta, sulla balaustra dell’organo, ci sono tanti affreschi di strumenti musicali? Quell’organo, un rarissimo Serassi, lo suonava Don Ferdinando, compositore e direttore d’orchestra raffinatissimo, che aveva studiato a Napoli al Conservatorio San Pietro a Maiella, dove a lui è dedicata una sezione dell’archivio. Era benvoluto e stimato da Mascagni e, spesso e volentieri, in abito talare e bacchetta in mano, dirigeva orchestre in vari teatri italiani. Celebre è stata una sua direzione al teatro di Cosenza e una a Napoli dove un suo Stabat Mater fu apprezzato da Rossini che si diede da fare per conoscerlo. Nel centenario della morte, il Premio Speciale Organistico del Concorso Nazionale di Viterbo, su indicazione del celebre Conservatorio napoletano, è stato dedicato a lui che, con le sue composizioni, aveva stravolto le tradizioni melodrammatiche della musica sacra. A Napoli, al San Pietro a Maiella aveva indirizzato il nipote Vincenzo, di cui giovanissimo, il Conservatorio tesseva sperticate lodi e prevedeva un luminosissimo futuro. Vincenzo cadde nel 1916 sul Carso, e a me sul Corso gli occhi mi cadono spesso sulla lapide del monumento ai caduti dove è ricordato. Al Tenente Manno è dedicata una breve stradina del nostro Centro Storico. Costretto a fermarmi, io cado qui, molto più fortunato di lui, stonato come una campana rotta, roba da far impallidire il pur rubizzo avo Ferdinando.
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