L’odontoiata e scrittore-poeta sannicolese ricorda i Certosini che conobbe già negli anni ’30 del secolo scorso.
Sulla rivista letteraria “Incontri” di Catanzaro del 1988 appariva un bella e poetica nota di Domenico Teti da San Nicola da Crissa, odontoiatra e scrittore-poeta dal titolo “Come vi racconto la Certosa di Serra San Bruno”. A distanza di tanti anni fa un certo effetto rileggere questa pagina che ho custodito, per tutti questi anni, gelosamente nel mio modesto ma prezioso archivio. (Mimmo Stirparo)
“Sono ritornato, dopo 55 anni, alla Certosa di Serra San Bruno ed una ondata di ricordi mi hanno assalito e commosso. Sono stato,infatti, medico dentista in quella Certosa nei lontani anni 1932-33, quando ancora esercitavo la medicina generica nel mio paese natale, San Nicola da Crissa, che sorge proprio sulla prima dorsale della strada che conduce a Serra San Bruno. Il tempo a cui mi riferisco era allora stabilizzato in una condizione immutata di quella ‘civiltà contadina’ di cui la zona delle Serre Calabre fu un esempio eccezionale perché mantenne immutato il suo assetto territoriale ed economico-sociale fino alla 2^ Guerra mondiale; rimanendo indenne (unico esempio in Calabria) tanto dalla piaga delle incursioni saracene, tanto da quella del feudalesimo. E ciò perché l’estrema polverizzazione della proprietà terriera e la conseguente miseria agraria, avevano condizionato l’unica ricchezza possibile all’estensione forestale che dava lavoro alle zone montane ma non ricchezza al resto del territorio.
La Certosa di Serra era, perciò non solo un centro spirituale ma era, di più, un centro-guida per tutta l’economia che andava dalla valle dell’Angitola fino al versante ionico. I bravi certosini dispensavano non solo spiritualità e cultura, pertanto, ma distribuivano quella ricchezza che raccoglievano nella vasta zona in cui si estendeva la loro giurisdizione. Nei tempi a cui mi riferisco, pertanto,aveva ancora tutto l’ascendente morale e materiale che aveva acquistato fin dal medioevo.
Perciò io ricordo il primo incontro con i frati della Certosa come un avvenimento importante della mia vita, soprattutto per la condizione in cui si verificò. Io allora esercitavo la medicina generale al mio paese, in attesa di una soluzione qualsiasi che mi consentisse di uscire da quella miseria, ma lavoravo intanto con buona volontà poichè sapevo che quell’esercizio medico svolto in una zona povera il cui territorio si estendeva fin nelle zone afflitte dalla malaria che dava, che dava, per conseguenza, una morbilità notevole, costituiva un tempo di alto tirocinio professionale. Infatti il medico era costretto ad affrontare tutti i casi più difficili, giacchè l’unico ospedale che funzionava nella provincia era quello di Catanzaro, retto oltretutto da un’amministrazione di carità che, per l’indebitamento dei Comuni, limitava spesso i ricoveri ai soli casi di comprovata urgenza. In conseguenza di ciò l’economia sanitaria era ridotta solo a quella caritativa, elargita per i poveri dai Comuni ed affidata, per tutto il resto, alla considerazione dei medici liberi esercenti che, poveri fra i poveri, esercitavano la professione senza speranza d’altra ricompensa che quella della gratitudine degli ammalati che corrispondevano quello che avevano, cioè qualche minestra, qualche uovo e, nelle feste comandate, un rituale pollo o gallina. La vile moneta non ci dava confidenza ed è un ricordo commovente quello che, perciò, a quel periodo, nel pensare con quale impegno lavoravamo, più o meno che se avessimo da percepire un lauto stipendio. Fu allora, proprio per il logico desiderio di vedere la faccia di Vittorio Emanuele impressa sulla carta moneta d’ogni taglio, che impiantai un piccolo ambulatorio dentistico, nella speranza di riuscire finalmente a fare conoscenza con la sospirata moneta.
Figuratevi la mia sorpresa quando un giorno, mentre ero in giro perle visite mattutine ai miei clienti, mi vennero a chiamare: ‘correte, ci sono due padri certosini che vi aspettano!’ Non stetti a pensarci troppo su, giacchè, pur ignorando il motivo della loro visita, pensai che i Certosini non potevano portare che qualche beneficio.
Quando giunsi, quasi correndo, al mio pseudo ambulatorio in cui dominava il cosiddetto ‘trapano a pedale’ che io volgarmente chiamavo affila forbici, per l’assomiglianza che aveva con l’arnese di comune uso, mi vidi accogliere da due frati biancovestiti che riempivano letteralmente il piccolo ambulatorio, giacchè uno di loro,, che poi seppi essere nativo in Lussemburgo, aveva l’aspetto e la mole di un peso massimo, ma con una faccia rosea e sorridente di un bambino felice. Il modo come mi accolsero i due candidi frati m’inorgoglì almeno in un primo momento, poiché dopo un po’ mi venne istintivo pensare: ‘si vede che il dolore che li ha spinti qui dev’essere tremendo’.
?Lei è la Provvidenza di Dio che l’ha mandato nella nostra zona!’, mi dissero ‘sa che’è un mese che soffro!’ Nonostante il tono dolorifico, il bello venne quando quel colosso cercò di sistemarsi nella modesta poltrona in lamiera che fungeva da sedia odontoiatrica: quel colosso non entrava nella povera poltrona. Il buon frate mi guardava quasi con un senso di colpa, ma io, già abituato alla vita degli ‘accomodamenti’, non mi perdetti d’animo ed eliminai completamente i braccioli, per fare finalmente accomodare quel buon peso massimo.
Fu così che conobbi i primi padri certosini e che per loro invito, cominciai ad andare a Serra San Bruno alla Certosa dove erano tanti padri che soffrivano di mal di denti e che, data la situazione sanitaria dell’epoca, era problematico poter curare. La Certosa allora era in pieno fervore di attività mistica e civile, giacchè essa rappresentava per tutta la zona un centro provvidenziale di assistenza non solo spirituale ma anche economica, per tutti gli influssi benefici che si diramavano da quel monastero che dalla sua clausura provvedeva a tanti interventi sulla popolazione bisognevole di tutto. Ricordavo ora, in quel ritorno non programmato, tutto il passato con una lucidità commossa. Erano passati tanti anni e tutto era così diverso da quei lontani ricordi: io vecchio, i frati nell’illustre monastero tutti nuovi, tutto il complesso che sembrava dovesse crollare, ora in pieno fervore di ristrutturazione. Mi sembrava un sogno in ciò io avessi riacquistato una nuova giovinezza in cui si inserivano quei nuovi volti: il priore che ci accompagnava così gentile e premuroso con noi, gli ingegneri e gli operai come angeli provvidenziali che fossero lì a ridare giovinezza a tutto e a tutti, iniziando dalle vecchie strutture. Passavo per i lunghi corridoi e ammiravo di nuovo le chiesette che avevo visto tanti anni prima e mi sembrava che fossi dentro una lunga fase di preghiere che non si fosse mai interrotta; ascoltavo le voci gentili dei padri come se continuassero un discorso mai terminato. Solo le vecchie strutture presentavano aspetti nuovi: una sensazione strana e arcana che nasceva dentro in un inconscio naturale. Avvertivo forte come se il tempo si fosse materializzato e le sue impronte si potessero distinguere sulle mura intonacate a nuovo, nei pavimenti rifatti, nelle celle ristrutturate, nel chiostro ripulito. Erano trascorsi quasi sessant’anni ed io, per uno strano incantesimo, li sentivo sgranarsi solo ora come se mi accompagnassero, passo dietro passso, fra quelle vecchie mura su cui quel tempo aveva inciso fin quasi alla rovina: sessant’anni che ritrovavo ora segnati come in un calendario magico, su pareti e strutture e sui visi di quei padri invecchiati li dentro e dei tecnici, che come fossero medici riparatori, sanassero ferite e malanni, per non far morire una cosa preziosa. Il priore si rivolgeva a me con uno riguardo particolare poiché quel poco che avevo potuto comunicargli dei miei ricordi, avevano evidentemente suscitato in lui lembi di storia lontana per cui ero un ‘testimone’.
E così avvertivo d’essere, come spoglio della mia carne umana, solo un libro di quella grande biblioteca conventuale, oppure un candelabro di quelle chiese in cui nulla era cambiato, o un capitello di quelle colonne sgretolate e rifatte. Rientrai completamente in me solo quando, uscii sullo spiazzale avanti l’ingresso della Certosa ed il fresco frizzante dell’aria odorosa di pini mi rinfrescò il viso. Fu come riprendersi un cappotto lasciato in anticamera e con esso tutta una realtà che avevo depositata ad un magico attaccapanni, per un poco: quel poco che era tanto ed era la storia di sessant’anni.”