Violare la privacy di una persona è un reato. Senza “se” e senza “ma”. Anche se questa non si trova a casa propria, ma sul posto di lavoro. Anche se qui non sta svolgendo le sue mansioni lavorative, ma sta andando in bagno e non sa di essere osservata. C’è un soggetto passivo, la donna in un bagno di un’azienda ospedaliera del vibonese, dove presta servizio. E’ un luogo sensibile in cui si comporta con naturalezza. Un altro dipendente, il soggetto attivo e colpevole, la spia, grazie a una telecamera nascosta.
Fatti simili si ripetono con frequenza impressionante dal Nord al Sud della penisola e la nostra provincia non poteva non adeguarsi. Analizziamo la cosa senza ingigantire ne’ minimizzare, ma indignati dall’esito giudiziario della vicenda. Si tratta senza alcun dubbio di una manovra insidiosa e invasiva che ha influito sulla serenità di una persona. Lo show – per lo meno speriamo privato – è stato organizzato da un subdolo individuo che ha voluto interferire nella sfera privata di una donna.
Eppure, a leggere la mite condanna, sembrerebbe di assistere a una semplice bravata che viene sdrammatizzata come se si fosse trattata di un’innocua scenetta da film pruriginoso in cui lei non sa di essere l’oscuro oggetto del desiderio della più bieca e malsana libido maschile.
Non si può semplificare così la realtà. Non è un film, la vita. Alvaro Vitali, che spiava le sue donnine dal buco della serratura, ci fa ridere perché sappiamo che sta facendo una satira della realtà e sta recitando, non vivendo. Ma il guardone astuto che posiziona una telecamera in un luogo sensibile non può compiacere nessuno. La sua non è stata una bravata, ma un reato da perseguire penalmente. Tutti d’accordo con quest’assioma.
Una cosa in questa triste vicenda ci fa ridere: la condanna inesistente comminata allo spione delle donne. Solo cinque giorni di sospensione dal lavoro, come dire: niente. Una beffa. Per rimanere nel campo della citazione di film: “Non ci resta che piangere”. Una sconfitta, non solo per le donne, ma pure per la categoria degli uomini, che non può riconoscersi in simili individui e non può accettare che si sia trattato di un semplice sbaglio. E’ stata una colpa protratta, pensata, voluta. Un dolo, una fraudolenza che Dante avrebbe posto in un girone infernale. Eppure, la commissione disciplinare interna all’ASP, ha inteso il gesto come una semplice birichinata, alla maniera di Pierino. Come dire: una spiatina, una sbirciatina maliziosa con l’aiuto di una telecamerina.
Perché, ci chiediamo ancora una volta, quando si tratta di una violazione dell’universo femminile, assistiamo a simili riduzioni e semplificazioni? Una benevola pacca sulla spalla da parte di chi punisce, l’espiazione del peccatuccio con un piccolo castigo … e che tutto torni come prima e si sancisca il ritorno alla cosiddetta normalità. Guai a chi rompe l’ordine e denuncia, verrà sbeffeggiato.
La donna spiata aveva esibito la prova del reato, perché aveva prelevato la piccola telecamera i cui filmati incastravano proprio il “guardone hi-tech”, il cui occhio molesto è una vera e propria insidia, creando la violazione di uno spazio, seppur non domestico. Molestia voluta e protratta che viene trattata come una mania maschile, una caratteristica del temperamento, una devianza da non è punire severamente.
Come ebbi a dire qualche mese fa su questa testata, il raggiro del mondo della donna non è una sciocchezza. Chi viola l’intimità di una persona ne turba la serenità. Sentirsi concupite a livello fisico, essere svilite a mero oggetto del desiderio è una ferita inferta ad anni di dure lotte per la costruzione della propria identità. Ma, ancora una volta, il diritto si è dimostrato impreparato a trattare un atteggiamento maschile che andava purgato seriamente e fermamente, senza incertezza.
Le donne sono stanche di essere ricondotte all’idea del corpo violato e svilito, corrotto e mercificato, oggetto del ludibrio e della concupiscenza. Con la rabbia di chi si sente sminuita in base al suo sesso, ma con l’orgoglio di essere donna, soggetto pensante e fautrice di storia, dico che con una sentenza simile siamo tornati indietro di quarant’anni e che questa rappresenta un arresto al progresso umano e sociale. Un vulnus per tutti, non solo per le donne.
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