Al tempo della mia infanzia e dell’adolescenza, c’erano in paese una ventina di sacerdoti. Ovviamente, fra quella e questa, alcuni di loro son morti, altri sono andati via ad esercitare il loro apostolato in altre parrocchie. Di alcuni di essi ne abbiamo già parlato, dico abbiamo perché Vinicio e Franco Gambino hanno scritto di don Angelo Pelaia; io ho raccontato qualche aneddoto su don Michele Giancotti (‘ndo Michieli di Malerva) e su don Bruno Scrivo, padre spirituale della congrega dell’Assunta e artista, degno successore dei grandi Scrivo. Mi sono inoltre preoccupato di dedicare il primo articolo della mia collaborazione a questa rivista all’arciprete Regio e alla morte del caro don Gaetano Scrivo, salesiano, ne ho tracciato il profilo. Questa volta però, li nomino tutti, Spinittari e Terravicchiari.
Dunque, “ubi major…”S. E. Pelaia, prima di essere elevato al rango di vescovo, veniva, una due volte all’anno da Reggio Calabria dove insegnava nel locale seminario. Ogni tanto, durante queste visite, faceva, alla messa delle dieci, un panegirico. “Priedica ‘ndo Brunuzzu” si diceva, e anche quelli che andavano in chiesa ad ascoltare una frettolosa messa, prendevano posto a godere l’erudito oratore.
‘Ndo Biasi di la Posta” così veniva chiamato l’energico don Biagio Zaffino, zio del medico Gabriele, con don Domenico Rossi, un sacerdote mite che quando parlava lo si sentiva appena, sono i due sacerdoti morti negli ultimi anni trenta, inizi anni quaranta.
Un altro Zaffino era don Salvatore che con don Davide Timpano assicuravano la cura delle anime di Spinetto. Ben presto però, i due attempati sacerdoti ricevettero un grande aiuto, e che aiuto! Un altro Regio, anche lui Vincenzo come lo zio, prendeva messa. Don Vincenzino tenne la parrocchia di Spinetto fino a pochi anni addietro, finché visse.
A Spinetto, vicino la chiesa, abitava don Salvatore Pisani, “ lu canonacu”. Aveva sempre gli occhi arrossati e, stando a quanto ho appreso, era un uomo pieno di arguzia. E stato lui a dare a Micantuoni quelle risposte che sono state poi rimandate di generazione in generazione. Quando Micantuoni si è confessato del furto di una gallina, sicuro della reazione del penitente, il canonico gli fece questo discorso:
“Arrubasti la gaddhina, mo hai mu nci la paghi”
“E quantu diciti c’aju mu nci dugnu?”
“Danci tri liri”
“Ca mancu m’era crapiettu”
“E quantu vuoi mu nci duni?”
“Jio non buoigghiu mu nci dugnu nenti, vui vuliti mu nci la pagu, nci dugnu menza lira?”
“Ca mancu m’era caridieddhu!”.
Se ne racconta un altro: Micantuoni andò a trovarlo (al terzo piano, dove il canonico soggiornava). Arrivato al secondo piano, vide un paio di scarpe. Senza esitare, le prese , le nascose sotto il mantello e continuò a salire.
Dopo i preliminari ed i saluti d’uso, Micantuoni intavolò il discorso:
“A ‘ndo Sarvaturi, arrubai nu paru di scarpi”
“Non buoi mu ti cacci lu vizzu, va tornancili”
“Mi virguognu, vi li dugnnu a bui”
“Jio non li vuogghio, va dancili a lu patruni”
“E si lu patruni non li vola, chi fazzu?”
“Allura ti li tieni”
“Va buonu, va buonu”
Riprendiamo la serietà. Don Peppino Barillari, con una protesi al naso retta dagli occhiali, lo ricordo per un particolare che ha stupito il paese. Alla morte di un sacerdote, era uso portare la bara vetrata in giro per il paese percorrendo le vie delle processioni. Don Peppino Barillari, prima di morire, fece sapere che lui non intendeva farsi portare in processione:
“In processione si portano i Santi, non i preti.”
Il dotto per eccellenza era don Luigino Rachiele. Latinista, insegnante di lettere. Serra S. Bruno ha un debito morale verso questo sacerdote. E’ stato lui ad aprire la prima scuola media in paese. Prima in forma privata, subito dopo, visti i risultati e la seria preparazione degli alunni, divenne statale.
Alcuni dei venti preti erano sì serresi, ma la loro missione la esercitavano fuori. Vuoi perché erano stati destinati a parrocchie lontane da Serra, vuoi perché religiosi e dunque costretti a stare nelle sedi delle loro comunità.
Don Luigino Muzzì partì da Serra per non farvi mai ritorno. Si è detto in paese che abbia abbandonato il sacerdozio.
Don Salvatore Iorfida, “ lu previti di li Giuli” era titolare di una parrocchia romana. Tornava a Serra di tanto in tanto e quando veniva non mancava di visitare le zie, mie limitrofe. Io mi avvicinavo a fargli il baciamano ma lui mi accarezzava la testa ed entrava nel portone.
Piú lontano, anzi tanto lontano, in America, è andato don Angelo Ierace, fratello del giudice Luigi.
Piú vicino per contra, c’era don Oreste Timpano, parroco di Torre di Ruggero e dunque del Santuario della Madonna delle Grazie. I serresi, quando nel mese di settembre andavano alla festa, si sentivano un po’ padroni del luogo: don Oreste era dei loro.
Fra quelli lontani, tre salesiani: don Giannino Tedeschi che ha trascorso gli ultimi anni della sua missione sacerdotale nella sede dei salesiani di Soverato; il già citato don Gaetano Scrivo ed infine don Bruno Sodaro, che, prima ha avuto la cura dei fedeli di Santo Todaro di Nardodipace, poi, per molti anni è stato parroco di Torre Ruggero e, quindi, del Santuario della Madonna delle Grazie. Oggi, anche se è, diciamo così, pensionato per la sua venerabile età, va sempre in giro prendendosi cura, in particolare, degli ammalati presso l’ospedale di Serra San Bruno.
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