Nei paesini come il mio, dove c’è tanta abbondanza di legna varia, il carbone da ardere, era ed è molto usato.
Chi non aveva in casa un caminetto o una stufa a legna, usava ancora il vecchio braciere con carboni ardenti. Sul finire dell’estate cominciavano ad arrivare i camion carichi provenienti spesso da Serra San Bruno, che giravano per il paese a vendere il famoso combustibile ed ognuno s’approvvigionava secondo le necessità. In paese i carbonai erano pochi, ma fino a circa venti anni fa, ricordo che c’erano ancora due signori che facevano questo mestiere.
Lo ricordo bene perché tanti anni fa, avendo nel nostro terreno molta legna, mio padre decise di fare del carbone e fu proprio uno di questi signori che ci preparò la carbonaia. Avevamo delle querce secolari e molti pioppi e faggi, così decidemmo di provare. Mio padre, dopo aver preparato tutta la legna in varie pezzature e numerosi fasci di felci secche, chiamò il carbonaio che preparò il tutto. Ricordo che in un vasto spiazzo vicino alla vasca per irrigare (gìabbia) perché l’acqua sarebbe servita, cominciarono ad issare una specie di torre quadrata con i tronchi più grossi lasciando vuoto il centro e man mano andavano allargando a forma di cerchio a terra e a cupola sopra.
I pezzi più grossi stavano all’interno e fuori sempre i più piccoli fino ai ramoscelli più sottili, ma possibilmente verdi, per evitare di bruciare subito. Quando la grande cupola fu pronta, la rivestirono di felci secche e su queste ammassarono tanta terra battuta per bene con una pala. Il monticello ben compattato che aveva l’aspetto di un piccolo vulcano con tanto di cratere, era quindi pronto per essere acceso. Il quadrato lasciato vuoto in precedenza, serviva proprio a questo. Riempito di felci secche e frasche, veniva acceso come un camino e proprio come un camino, cominciava a fumare. Tutt’intorno alla base, il carbonaio praticò dei grossi fori che ci spiegò, servivano alla ventilazione e alla fuoriuscita del fumo. Non era un lavoro semplice né piacevole. Solo se non si provano certe cose non si riescono a capire. Solo allora capisci quanto sudore e fatica c’è dietro a tutto ciò che a noi sembra scontato e dovuto a poco prezzo.
Ricordo che mio padre per qualche giorno dormì lì in campagna perché la carbonaia doveva essere alimentata e compattata spesso e anche sorvegliata perché a seconda di come soffiava il vento, alcuni fori, mi pare andavano chiusi, altri aperti. Dopo molti giorni di lavoro all’addiaccio, quando ormai il grosso era stato fatto e la carbonaia era già cotta e quindi non doveva essere alimentata più, una sera, mio padre stanco, decise di dormire a casa per riposare un po’ e convenimmo che l’indomani, io e mia sorella saremmo andati con lui di buon mattino. Svegliarsi alle tre del mattino e mettersi in cammino una mezz’oretta dopo non è certo il massimo, ma ricordo ancora vivamente quella fresca mattina d’autunno. Ancora insonnolita e infreddolita, arrivati al Cannale, mi svegliai incuriosita dal quadro che avevo davanti. Il paese, con le sue case che sembravano tuffarsi da un momento all’altro nel fiume, illuminate dalle luci fioche dei lampioni, sembrava un presepe d’altri tempi. S’udiva solo il mormorio del fiume e il fruscio del vento unito ai nostri passi e camminando al solo chiarore della luna che per fortuna era abbastanza luminosa, lontano dalle luci artificiali dei lampioni, una coltre straordinaria e meravigliosa di stelle che non avevo mai visto, m’affascinò per quei quindici minuti di cammino mattutino. I rami degli alberi, il ruscello che borbottava, qualche uccello disturbato che si destava… tutto sembrava far parte di un mondo magico e senza tempo che ci apriva le porte per entrare ed io assaporavo ogni attimo di quell’alba ancora lontana.
Arrivati sul luogo però le mie fantasie sparirono presto perché già da lontano s’intravedeva un rossore strano che colorava il cielo e che non lasciava dubbi: la carbonaia s’era incendiata. Allungando il passo ed ormai svegli completamente, cominciammo ad attingere acqua dalla vasca per spegnere le fiamme già belle alte. Ci volle un po’, ma riuscimmo a domare il fuoco spegnendola completamente, anche dal camino. Mio padre capì subito che c’era stato un venticello continuo durante la notte che aveva alimentato le fiamme verso il lato incendiato. Per fortuna eravamo arrivati in tempo o forse non era tanto che ardeva e quindi, non c’era stata una gran perdita. Era brutta, poi la carbonaia. Prima dava un senso di vivo con quel fumo che svolazzava ora bianco ora azzurrino nell’aria, ora, restava un ammasso informe, dalla parte bruciata, di fanghiglia attaccata ai tronchi carbonizzati e un odore acre tutt’intorno. Con la pala mio padre cominciò a ripulirla un po’ scoraggiato, ma in fondo, contento perché ormai il carbone era fatto e se ne era perso poco. Un esperimento riuscito visto che non eravamo del mestiere. Lasciammo asciugare i carboni bagnati e dopo li trasportammo a casa soddisfatti da quell’avventura che però non abbiamo più ripetuto. Certo la nostra è stata una prova, ma a pensarci, quante famiglie vivevano con quel lavoro ormai quasi scomparso? Per non parlare poi dell’utilità che giovava a tutti quando non esistevano stufe e camini o meglio ancora i riscaldamenti elettrici.
I bei bracieri spesso di lucente rame, li potevi vedere sui balconi, sui marciapiedi, sugli usci di casa. Sembra facile, ma anche per far un buon braciere ci voleva un po’ di maestria. I carboni più grossi con la loro polverina nera e fastidiosa che volava dappertutto, dovevano essere adagiati in fondo, al centro mentre intorno e sopra, quelli più friabili che dovevano incendiarsi presto e far brace. Per accendere s’usavano le frasche d’ulivo secche o quelle della vite (papatuni) e quando questi diventavano incandescenti, si cominciava a soffiare con un ventaglio o un pezzo di cartone. Le scintille scoppiettanti saltavano curiose di qua e di là soprattutto se c’era vento e quando il tutto diventava di un bel rosso vivo, se si voleva far durare quel calduccio un po’ di più, si copriva con cenere che veniva rimossa man mano durante la giornata, a mo’ di cupola come la carbonaia altrimenti si lasciava a fuoco vivo alimentato di continuo. Stare sull’uscio di casa a fare il fuoco era spesso un passatempo. Non era raro, infatti vedere capannelli di vicine che sedute intorno al braciere trascorrevano qualche ora pomeridiana intente a far la maglia, ad arrostire peperoni per la cena o far caldarroste magari cucinando legumi nelle famose “pignate” di terracotta che conferivano insieme al calore del fuoco un gusto ed un profumo particolare… profumo d’altri tempi che purtroppo, stanno scomparendo.
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