Che, nonostante lo storico legame con il territorio, San Bruno non sia il protettore di Serra è cosa nota, lo sanno anche le pietre del Corso. Sono tuttavia in pochi a sapere che, insieme a San Gennaro e altri, San Bruno è annoverato quale protettore ufficiale della città di Napoli. A Serra esiste una concreta testimonianza di quanto affermo e, come con la precedente faccenda dei certosini protoindustriali, cercherò di fornire qualche rapido ragguaglio. Se entrate in quella che ritengo la più bella chiesa di Serra, intendo dire l’Addolorata, noterete che all’ingresso della breve navata, rinchiusi in medaglioni marmorei di scuola napoletana databili intorno alla fine del XVII secolo, fa buona guardia una doppia coppia di Santi: una insolita, formata da San Gennaro e San Bruno, l’altra, molto più collaudata, costituita dai Santi Pietro e Paolo. La scelta non è casuale e segue una logica basata sulla specializzazione che ognuno dei quattro Santi aveva acquisito nel campo, se mi è consentito dirlo, della protezione civile. San Pietro e San Paolo protettori di Roma sede del Papato, San Gennaro e San Bruno protettori di Napoli capitale del Mezzogiorno e sede del Vicereame spagnolo. San Gennaro è il protettore principale di Napoli e, in particolare, ha sempre dimostrato grande solerzia nel preservare la città dalle eruzioni del Vesuvio. Nel corso dei secoli, di fronte al pericolo della lava è bastato portare le sue reliquie sul fronte delle colate per arrestarne l’avanzare. Ma, “faccia ‘ngialluta” (letteralmente: faccia gialla, come lo chiamano i napoletani per via del colore biliare della sua icona) di fronte a epidemie e pestilenze non ha mai brillato per efficienza. E, in occasione di uno scoppio di peste, nel 1856, la classe dirigente napoletana trovò in San Bruno una valida alternativa. Nel XVII secolo la popolazione europea fu decimata dalle epidemie, prima fra tutte dalla peste. Chi ha letto i Promessi Sposi ricorderà che questo morbo fa da sfondo alla vicenda. Quella descritta dal Manzoni investì il milanese intorno al 1630, ma lo stesso scenario di desolazione e morte si ripeté a Napoli nel 1656. Anche i protagonisti erano più o meno gli stessi: da una parte il popolo minuto, dall’altra i vari nobili, hidalgos e caballeros spagnoli, preposti alla guida del Viceregno. La differenza consiste nel fatto che gli omologhi meridionali dei vari Don Rodrigo si dimostrarono molto, ma molto più furbi dei loro colleghi ispano-padani. Essi riuscirono a sottrarsi al contagio chiedendo protezione a San Bruno e, principalmente, alla sua Certosa. Scoppiata la peste, tutti innalzavano preci e preghiere, ognuno alzava gli occhi al cielo e a esso chiedeva protezione. Il fatto è che a Napoli, se si alzano gli occhi al cielo, è inevitabile che lo sguardo vada a cadere sulla sommità della collina del Vomero dove, a fianco del Castello di Sant’Elmo, sorge la magnifica Certosa di San Martino. A qualche Don Rodrigo partenopeo molto sveglio di cervello venne in mente che lassù, al chiuso della Cerosa, vivevano molti suoi parenti, nella fattispecie fratelli e cugini. La tradizione, infatti, voleva che ai figli cadetti delle famiglie nobili fossero concesse due alternative di vita: o dedicarsi alla pericolosa carriera militare o andarsi a chiudere in Convento. E, come di regola in tutte le Certose, in quella napoletana vivevano i cadetti delle nobili famiglie che gravitavano sulla città. Il nostro Don Rodrigo andò a far visita ai parenti, li trovò in piena salute e constatò che all’interno della vastissima Certosa la peste era solo una lontana eco. Tra l’altro, il monastero era dotato di una formidabile Spezieria, cioè di una Farmacia, ritenuta a quell’epoca all’avanguardia e, cosa insolita per il visitatore, tutti gli ambienti erano pervasi dal caratteristico odore della canfora. Lo stesso parente del visitatore, come tutti i giovani certosini, ne portava un sacchetto sotto il saio in funzione anafrodisiaca. Il cavaliere spagnolo ipotizzò che quello fosse l’antidoto al male e chiese ospitalità al Convento. Dopo di lui la chiesero altri esponenti della famiglia, poi altre famiglie e, in poco tempo, tutta la numerosa e variegata nobiltà locale trovò riparo all’interno delle possenti mura della Certosa. In città la peste infuriò per mesi, ma miracolosamente lassù, a San Martino, tra canti, preghiere a San Bruno e processioni in suo onore, non si registrò neanche un caso di contagio. Fu così che, alla fine della pestilenza, gli scampati di San Martino rimasero per sempre devoti a San Bruno. Ed essendo classe dirigente, chiesero ed ottennero che il nostro Santo entrasse a pieno titolo nel novero dei protettori ufficiali della città.
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