Un grido d’allarme si levò alto per le vie del paese: un gran numero di Nazionali, armati di tutto punto, stavano per entrare nella cittadina di Serra. Era la notte tra il 20 e il 21 giugno del 1848 ed erano in corso i moti rivoluzionari per la Costituzione. Nella capitale il regno borbonico aveva represso nel sangue le sommosse liberali e i ribelli superstiti si erano spostati verso l’Italia meridionale per organizzare la resistenza. La Calabria non fu esente da quell’ondata di ribellione e, proprio in quell’anno, molti rivoluzionari costituzionalisti, comunemente detti “Nazionali”, si erano accampati nelle pianure dell’Angitola, cercando di organizzarsi alla meglio per respingere gli attacchi dell’esercito borbonico che, al comando del generale Nunziante, stazionava nella vicina Monteleone (Vibo Valentia).
Tra Nazionalisti e Serresi non correva buon sangue. Questi ultimi si erano rifiutati di arruolarsi tra le fila dei rivoltosi che stazionavano nel piano dell’Angitola e avevano assunto una posizione neutrale nei riguardi della lotta per ottenere la Costituzione. Cosa che non avvenne negli altri paesi dove i Nazionali erano riusciti a racimolare molti volontari ed erano pronti a combattere per la buona causa a dispetto dei proclami e delle minacce dei decreti reali. Il rifiuto dei Serresi suonò come una grave offesa agli occhi dei rivoltosi dell’Angitola, che giurarono vendetta e si prepararono ad invadere la cittadina della Certosa per punirla e saccheggiarla, proprio come accadeva ai tempi dei briganti.
Quella notte la paura s’impossessò dei Serresi che alle prime voci dell’arrivo dei Nazionali cercarono scampo chi fuggendo per le campagne, chi nascondendosi negli scantinati delle case e sopra i tetti, chi cercando rifugio e protezione nelle chiese. Ancora una volta il destino del paese era segnato, né si vedeva una via d’uscita per sottrarsi alla furia di quelle anime dannate che peggio dei briganti minacciavano fuoco e morte, decisi a fare uno sterminio di uomini e cose.
Vi era allora in paese un sacerdote il cui nome era don Giacomo Barillari il quale esercitava il mestiere di cappellano ed era conosciuto da tutti come un uomo bravo e pronto ad accorrere in favore della gente bisognosa. Don Giacomo, vista la critica situazione in cui si trovava il popolo serrese, decise di affrontare la situazione di petto e si offrì di andare come volontario incontro ai rivoltosi per convincerli con le buone maniere a desistere dai loro cattivi propositi. “Andrò e mi presenterò davanti a loro come nunzio di pace –aveva detto il buon sacerdote – e se vorranno offrirò la mia vita per placare la loro sete di vendetta e il loro acerrimo furore”. Nessuno in quella tragica circostanza pensò di fermarlo e dissuaderlo dall’intraprendere quella sua pazzesca e sicuramente inutile impresa e così egli, fermo nella sua ostinata decisione, partì quella notte stessa per andare incontro ai nemici.
Dopo qualche ora di cammino giunse in una località denominata “Cucco”, situata tra Serra e San Nicola, e lì vide l’accampamento dei Nazionali i quali si erano fermati per trascorrere la notte, aspettando il sopraggiungere dell’alba per calare su Serra e depredarla. Diede un primo colpo d’occhio sulle numerose tende e sui fuochi che i rivoltosi avevano acceso e calcolò che erano almeno in 400 e tutti bene armati, pronti, a guisa di briganti, a mettere a ferro e a fuoco la cittadina di San Bruno, sorprendendola di sicuro debole e indifesa. Don Giacomo Barillari fu assalito da una grande paura. Sapeva che la vita di molta gente era nelle sue mani e sapeva anche il rischio a cui andava incontro prevedendo che avrebbe pagato con la vita quel suo tentativo assurdo e inutile. Chiese ad alcuni di sapere chi fosse il loro capo e si fece portare davanti a lui, stringendo con una mano il bordo più lungo della sua veste talare e con l’altra il crocefisso che portava appeso al collo insieme ad una corona del Rosario.
Quando fu al cospetto del comandante, don Giacomo prese il coraggio a piene mani e senza esitare cercò di convincerlo a rinunciare al suo progetto di distruzione e di morte, scongiurandolo di radunare i suoi uomini e di tornare donde era venuto in nome di Dio, di Cristo e di tutti i Santi. Di certo non furono le preghiere, né le suppliche che il buon uomo gli rivolse e non furono nemmeno i suoi anatemi ad impressionare il comandante, né le preannunciate minacce delle fiamme dell’inferno e del castigo dell’Altissimo. Furono invece le reali circostanze logistiche che don Giacomo gli seppe prospettare fino al punto da costringerlo a pervenire ad un ripensamento e a desistere da ciò che stava per fare. Disse don Giacomo che i Serresi non erano dei Realisti, ma che erano costretti a fingere di esserlo perché una truppa di oltre 500 uomini del generale Nunziante teneva sotto controllo la cittadina di Serra. Disse ancora che se i Nazionalisti avessero avanzato sarebbero stati circondati e sopraffati da quella truppa che appena alcuni giorni prima aveva fatto irruzione a Serra dopo essere stata anche a Mongiana. Disse ancora che non valeva certo la pena affrontare il rischio di una decimazione, dato che i Nazionali avevano di certo bisogno di armi e di uomini e che il successo della loro missione non poteva essere messo a rischio solo per soddisfare una futile vendetta personale.
A fronte di queste argomentazioni il comandante si convinse. Egli credette alle parole del prete e valutò in pieno il rischio che avrebbe corso se i borboni gli avessero teso qualche imboscata, magari andandolo ad affrontare proprio mentre era intento a saccheggiare l’abitato di Serra. Fatto sta che allo spuntar dell’alba don Giacomo Barillari fu mandato indietro e il comandante raccolse uomini e tende e intraprese la via del ritorno, rinunciando al sacco di Serra.
La notizia fu accolta dai Serresi con gran sollievo e don Giacomo ebbe la soddisfazione che meritava. «Non possiamo a meno –annota lo storico – di metterli al confronto con quella del Gran Pontefice S. Leone, contro di Attila (Flagello di Dio) quando stando questi per entrare e distruggere la Città di Roma, fattosi quello all’incontro lo trattenne, e lo dissuase con la sola forza della sua Eloquenza…». Il merito di don Giacomo Barillari fu grande, ma egli non ebbe da parte dei suoi compaesani la dovuta riconoscenza. I Serresi, infatti, dimostrarono per tutto ciò che il buon sacerdote aveva fatto grande ingratitudine ed indifferenza. «Nessuna meraviglia –dirà di certo qualcuno –ancora oggi lo fanno».
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