La prima fotografia del portale sulla via gen. Filardo è di Paola Migliore, che ha scoperto Arena con benevolenza, dedicandogli un ampio sevizio di emozionali immagini ispirate da panoramiche solari ed ambientazioni suggestive.
Ma da quanti anni, è che ci passo sulla stessa via per guardarlo ogni volta?… questo portale evocativo di suggestiva cornice bugnata che sulla sommità dell’arco sorregge un balconetto di breve sporgenza sull’innesto di tre robusti beccatelli, ognuno dal differente taglio frontale.
La ringhiera è di ferro battuto, con verghe convesse a petto d’oca che costituisce il suo originario coronamento e sulla quale si saldano tre componenti decorativi a corolla di foglie.
La soglia di accesso nella luce del portale è sopraelevata rispetto al livello di strada, posto sopra due gradoni di pietra, il primo sporgente sulla via.
Ai basamenti dei verticali danno vista le modanature a bassorilievo di due corolle floreali incluse in tondi concavi, che si raccordano agli ornamenti bugnati per mezzo di un bordo stondato sul quale s’impostano in successione alternata una coppia di conci quadri a punta di diamante ed un’unica bugna a cuscino scalpellinato, fino a completarsi nell’arco dov’è inserito in chiave di volta un concio verticale scolpito sulla faccia vista con rilievo spigato.
Il legname stesso del portone, nella parte contigua al piano di soglia si denuda fino alla scarna fibra e quell’indaco smunto sulle modanature settecentesche ad intaglio poligonale offrono una lettura di messa in opera nel periodo vicino al grande terremoto del 1783, ma non precedente a quella data poiché nessun edificio sopravvisse con tale dimostrazione barocca.
Invece l’architettore arenese, che ha realizzato su questo fronte di casa un balconetto dalla ringhiera a foggia decorativa accavallato sull’arco bugnato del portale, ha voluto plasmare un attraente effetto di barocco siciliano, rimasto unico nel circondario di Arena, forse richiesto in tali forme dallo stesso proprietario committente, che sarebbe stato un ‘boiardo marchesale’ o un nostalgico ‘parvenu’ di origine siciliana, desideroso di riprodurre una distinta ambientazione messinese-palermitana.
Il breve aggetto con ringhiera decorativa sulla spiccata cornice bugnata del portale ineriscono sul quadrante a lato del piano di facciata, per rappresentare un amalgama di leggiadria settecentesca maturata sulla sobrietà del secolo ‘800, da cui traspare l’ostentazione velleitaria in un malinconico romanticismo dei vinti.
E ciò induce a definirlo il “verone” dei nobili decaduti evocato dal romanzo di “Mastro don Gesualdo”, in cui l’arricchito muratore di Vizzini, tale mastro Gesualdo Motta, voleva diventare nobile sposando l’amore infelice di una nobildonna decaduta come donna Bianca Trao… stando ad immaginarla che oggi possa apparire su quella ringhiera una sera della processione con la fiaccolata per il Cristo risorto.
Di sembianza schiva, in quelle gramaglie su cui fonde la caduta dei suoi capelli scuri, per essere lambita in viso dal fatuo chiarore delle torce che sfilano disotto sulla via,… giusto il tempo d’involarsi come un’ombra asciutta dietro la persiana … –
Oltre il varco di questo portale siciliano, da ragazzo attraversavo l’andito buio ed andavo spedito con l’ansimo in corpo su per gli scalini di pietra fin sopra al pianerottolo, dove lo scuro di fondo si rischiarava con la luce filtrata dai battenti di una porta.
Ci andavo per recapitare “ambasciate” a quegli anziani padroni di casa, perché mi mandava mio zio Domenico “la Passia”, al quale erano veramente suoi zii.
Bussavo a quella porta da dove arrivavano rumori di passi, prima ancora che si aprisse.
– <<Ma, chi è?…aspettate che mò vi accendo la luce!…>>
Appariva una zia tutta nonna e lutto, con la testa in un alone di capelli bianchi lisciati all’indietro a fare una cercina intrecciata sulla nuca.
Puntava lo sguardo per vedermi da capo a piedi, cercando ogni volta di barbugliare un nome: << Ah, sei…?>>;
– <<Si, sono Rodolfo…>> le dicevo e lei, che di seguito volgendo il viso di lato verso l’interno della stanza, allora rinviava:
– << è Filoderfio, lo sai, il nipote di Micuccio e di Catuzza…>>, mentre da quel di la che io non vedevo, rispondeva una voce greve e matura <<che entri, Marì…>> ed insieme faceva rinterzo una sedia che si spostava sul pavimento di legno.
Già vecchie anche allora, in quelle case silenziose i rumori risuonavano di un eco atavico, perché dentro i muri e sopra di essi, tutto era fatto di radice di legno.
Le travi maestre che reggevano la casa insieme alle scale dei piani, i pavimenti e i mobili erano tutti di fibra asciutta di legno, insieme alle porte che nelle notti tra i silenti zefiri si animavano di surreali scricchi e raspìi, come fossero le anime dei beati morti, così ci raccontavano gli adulti da novembre a Pasqua.
Ed in quella stessa casa, da come mi ricordo, vi rimasi anche per una cena di “ricunzulu”, che si offriva a conforto della famiglia in lutto.
La apparecchiava per gli anziani parenti la mia zia Catuzza con un servizio completo di porcellana e posate argentine, scoprendolo da un tovaglione di lino bianco.
La cena, per com’era d’uso, incominciava con un brodo di gallina in cui fluttuavano minute polpettine di carne; poi segui una seconda pietanza accompagnata dal contorno di crocchette di riso indorate in un piatto di portata ricolmo a castello, che più di altro cibo rinfrancava il contristamento dei commensali. –
Nei pochi anni che seguirono anche quegli anziani zii diventarono vecchia memoria e per qualche tempo il portale barocco di quella casa restò irrilevante nel suo limite prospettico imposto dalla via Gen. Filardo percorrendola in discesa dalla piazza, ma che gli offre migliore vista risalendo la stessa da Largo Seggio.
Anche se viene oggi difficile, attribuire date di fondazione ai rispettivi edifici attaccati e contigui della stessa via, il fatto portale di maniera messinese palermitana non può risalire all’epoca prima del Terremoto della Calabria meridionale del 1783, perché nessuna cosa allora vi restò integra e come il castello rovinarono i conventi per essere subito abbandonati e crollarono insieme ad essi anche le chiese, qualcuna ricostruita in ibride architetture..
Nel 1783 la residenza castello dei marchesi Caracciolo, a seguito di ampliamenti e restauri fino ad allora avvenuti nel corso della sua lunga storia, costituiva l’unica architettura non religiosa di esclusiva importanza nel feudo di Arena, perché non esisteva ancora una borghesia imprenditoriale in grado di edificare dimore per sé di apprezzabile struttura.
In quell’anno la Calabria faceva parte del regno di Napoli o “Regno di Sicilia al di qua del faro” di Ferdinando IV di Borbone, con distinzione dall’altro “Regno di Sicilia al di là del faro”, precisando che il “faro” era lo stretto di Messina e che ambedue i regni appartenevano alla stessa sovranità borbonica.
… E la Calabria, come provincia del regno versava tutta in povertà socioeconomica oltre che nell’arretratezza di strutture viarie in un territorio di aspri rilievi e malsane pianure costiere, quindi risultava lontana e scollegata dalla stessa capitale Napoli.
Qui i signori baroni e tutti quegli altri nobilitati impostori a vario titolo d’acquisto, perpetuavano la propria arroganza ed ostilità a qualsiasi piano di riforma, anche a quello già tentato da re Carlo III di Borbone nel 1738 che voleva ricondurre nel controllo legale della corona le giurisdizioni feudali.
Per essi l’isolamento della provincia costituiva un alveo protettivo, potendo restare sordi agli echi culturali di quell’Illuminismo napoletano di limpida Scuola di pensiero dopo quella lombarda, che dall’Inghilterra dei primi anni del settecento, attraverso un aristocratico canale massonico importava il valore della “ragione”, che dalla filosofia si riversava nella scienza e nella tecnica e che doveva rendersi strumento di progresso, non del tutto riuscito, per combattere la rassegnazione ignorante e l’asservimento feudale delle popolazioni del sud d’Italia.
Caposcuola di questa epoca illuminista napoletana fu l’aristocratico ed esponente massone, Gaetano Filangieri (1752-1788), studioso, giurista e filosofo con la sua opera capitale “La scienza della legislazione”, per i primi due volumi pubblicati nel 1780.
Ma ancora prima della pubblicazione dell’opera, le idee del Filangieri erano state lette e molto apprezzate da Benjamin Franklin al tempo della sua missione diplomatica a Parigi dove ricopriva anche il ruolo segreto di Gran Maestro della loggia delle “Neuf Soeurs”, loggia in stretto collegamento con il circolo massonico Napoletano nel quale era entrato a far parte lo stesso Filangieri.
E Franklin fu uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti d’America, di cui la Carta Costituzionale riporta moltissimi aspetti del pensiero del Filangieri.
Anche Thomas Jefferson principale autore della Dichiarazione d’Indipendenza del 04 luglio 1776 e terzo presidente degli Stati Uniti d’America condivise con il Filangieri l’ideale utopistico di uno Stato dalle buone leggi per il conseguimento della pubblica felicità, condensandolo nell’articolo: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità…”.
A questo punto, è allora opportuno considerare quanto l’opera del Filangieri “massone” possa aver ispirato la nascita degli Stati Uniti d’America e quanto invece una comune “Fede massonica” possa aver plasmato sia l’opera politica dei Padri fondatori degli Stati Uniti d’America che il perfezionamento filosofico-giuridico-economico del Filangieri, che nella maturazione dei tempi postumi generò nel 1860 anche le condizioni di disfacimento dell’antico Regno borbonico per far sorgere l’Italia unita.
La sua “nuova scienza” di fondamento assiomatico è un compromesso tra il Diritto del giusnaturalismo ed il Diritto positivo che promuove le “buone leggi” finalizzate a dare pubblica felicità attraverso l’adozione di riforme strutturali che miravano all’abbattimento del sistema feudale e all’istruzione/educazione di tutti, all’’uguaglianza giuridica e civile, alla redistribuzione delle terre per fare spazio ad un nuovo ceto sociale borghese di piccoli imprenditori che avrebbero dato impulso vitale ad una economia di quasi sussistenza.
Cosicché i baroni, nei borghi più isolati del Regno, che non furono capaci di accogliere le idee dell’Illuminismo napoletano ed ostacolarono anche la penetrazione della prima rivoluzione industriale europea, divennero l’origine colpevole del sottosviluppo culturale e dell’arresto economico, che si è proiettato come ritardo incolmabile dell’Italia meridionale anche per i successivi tempi dei secoli ‘800 e ‘900, fino ad oggi.
Ma sei anni dopo dal terremoto calabrese del 1783, scoppiava a Parigi la Rivoluzione francese, dalla quale ne derivò l’età napoleonica e sull’onda di questi eccezionali accadimenti storici, nel 1799 si realizzò l’effimera esperienza della Repubblica Napoletana.
Dopo una prima restaurazione borbonica, nel 1805 il Regno di Napoli venne riconquistato per quasi un decennio dai francesi con la denominazione incompleta di “Regno delle due Sicilie”, poiché nel contempo la Sicilia restava sempre occupata dagli inglesi.
Napoleone I Bonaparte, con le sue audaci vittorie sconvolse gli antichi regni europei ed esportò le nuove idealità borghesi imponendo statuti liberali, fino alla seconda ed ultima disfatta militare nel 1815 e la sua triste morte, nell’esilio di Sant’Elena il 5 maggio 1821, la celebrò il Manzoni in ode: “ […] pensando all’ultima ora dell’uom fatale […], fuga e vittoria, la reggia ed il tristo esilio, due volte nella polvere due volte sull’altar…”
Il 15 febbraio del 1806 Giuseppe Bonaparte conquistò Napoli e nel corso di una visita in Calabria, per constatare la miserevole arretratezza della Calabria, l’11 marzo riceveva qui la nomina di re del Regno delle due Sicilie, per volere del fratello Imperatore.
Il nuovo re iniziava allora una serie di riforme trasformative del vecchio regno borbonico di Ferdinando IV, seguendo una politica mutuata dagli ideali della Rivoluzione francese e accogliendo i desideri riformatori degli illuministi napoletani di fine ‘700
A Giuseppe Bonaparte, trasferitosi a Madrid per diventare re di Spagna il 6 luglio del 1808, seguì sul trono del Regno delle due Sicilie Gioacchino Murat, maresciallo dell’Impero e cognato dei Bonaparte per aver sposato la loro sorella Carolina.
Murat applicò in concreto le “leggi eversive della feudalità”, già decretate nel 1806 con la politica riformista di Giuseppe Bonaparte.
E durante il virtuoso periodo murattiano, dallo smantellamento del sistema feudale iniziava il rinnovamento culturale, amministrativo ed economico del Mezzoggiorno d’Italia,.
Così dalla vecchia suddivisione in “cosiddette Udienze Provinciali, governate da un Preside come capo militare e politico, insieme a due magistrati uditori con un avvocato fiscale ed un avvocato de’ poveri”, si passava alla ristrutturazione in 13 Province suddivise in distretti e circondari comunali.
Alla caduta e morte di Gioacchino Murat, anche dopo la definitiva restaurazione della legittimità borbonica, non vennero però restituiti ai baroni i privilegi feudali normanni, cosicché nel Regno Meridionale seguitò a declinare a quella anacronistica cultura feudale che improntava sulla gerarchia cetuale i rapporti sociali – …
Dal primo decennio dell’ottocento finalmente nel borgo di Arena giunse anche l’aria della nuova Storia che, dall’abolizione della feudalità e dei privilegi fondiari degli ecclesiastici, offriva alla borghesia l’opportunità di sviluppare impresa privata.
Seppure il riformismo del periodo murattiano favorì in Calabria una corrispondente realtà latifondista borghese sui terreni più facili e produttivi, mentre la parcellizzazione gravava sui terreni più difficili e avari, attivò un contesto generale nei primi tre lustri dell’800 che costituiva ad Arena un utile indotto artigianale e commerciale che nel lungo periodo diede impulso alle ristrutturazioni delle fatiscenze edilizie ora più adeguate alla sicurezza antisismica e su nuova concezione estetica.
Si realizzarono così nuove dimore con murature “baraccate”, elaborate dall’ingegnere militare Francesco la Vega, che si applicarono già nell’emergenza dell’aprile 1783 e che diventarono legge del re Ferdinando IV di Borbone il 20 marzo 1784 come “istruzioni per la ricostruzione di Reggio”
(segue in seconda Parte…)
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