Un contributo allo studio della Calabria postunitaria del nostro poeta, scrittore e giornalista Antonio Nicoletta da Velletri
Sono nato in Calabria e lì ho vissuto quasi il primo terzo della mia vita.
Il mio universo, fisico e culturale aveva in quei luoghi il suo epicentro. Godevo della mia territorialità e la consideravo quasi un privilegio. Rimasi molto male, quando crescendo ed affacciandomi al mondo, mi resi conto di come la mia terra, ed il meridione tutto, era considerata la parte debole ed arretrata della nazione Italia. Mi resi conto di quanto negletta fosse, e quando considerata, lo era solo per la sua arretratezza, ignoranza, infingardaggine, malaffare.
L’albagia dei vari pubblicisti e commentatori, molti del nord, rendeva ancora più acuto il mio disagio, quando leggevo nei loro scritti quanto il sud pesava e quanti problemi dava. L’orgoglio della mia nascita cominciava a pesarmi e di questo me ne accorsi quando giovane allievo ufficiale venni inserito in una piccola babele di origini, dove la mia alle volte faceva le spese di distinguo e sottolineature non sempre piacevoli.
Avevo letto della sua passata grandezza, dei suoi filosofi, della sua storia, del suo contributo al territorio che poi divenne (anche se in malo modo) la nostra Patria. E non mi rendevo conto come in una nazione che malgrado la mancanza di risorse, con la sua inventiva e la sua intelligenza era stata capace di creare fonti di reddito con attività che si imponevano nel mondo, solo il sud, a parte alcune piccole nicchie, dipendenti soprattutto dalla peculiarità del suo clima, per il resto fosse assente.
Solo in età un po’ più vicina alla maturità mi resi conto che forse alla base di tutto questo vi erano responsabilità non solo nostre; la storia non era quella che ci insegnavano a scuola. Molte cose ci erano tenute nascoste, altre avevano evidenze diverse da quelle che immaginavamo.
Alcuni servizi comparsi su un quotidiano economico nazionale confermò, con l’autorevolezza delle proprie firme, quanto nelle varie e disordinate letture avevo intravisto e cercato di approfondire e divulgare. Mi consentiva di parlare di una regione che fino all’unità era tutt’altra cosa di quella che si presenta oggi alla pubblica conoscenza. Quegli articoli, che cercherò di evidenziare e un poco ampliare, narravano di tempi in cui il meridione non aveva bisogno di quell’assistenza dello stato sempre rinfacciata dai nostri connazionali del nord; producevamo, tanto e bene, materiali e beni pregiati che con i loro proventi assicuravano al popolo della mia terra un benessere, che contestualizzato in una regione di circa 1,200 milioni di abitanti, poteva essere superiore a quello di molti altri posti ora più ricchi e per questo ritenuti più civili. Citerò dal quotidiano “il sole 24 ore” una serie di servizi comparsi nel marzo del 2004 a firma di Bruno Bisogni: Un’opera singolare quanto meritoria. Un archivio virtuale che documenta oltre un secolo di testimonianze su quello che ha rappresentato il più importante stabilimento metallurgico nel Mezzogiorno prima dell’Unità d’Italia. Lo ha realizzato il Laboratorio di documentazione del diparti¬mento di Linguistica dell’Università della Calabria.
Un Archivio cartaceo delle Reali Ferriere della Mongiana, in effetti, già esisteva, con¬servato dal 1951 nei locali dell’Archivio di Stato di Catanzaro. Si tratta di un fondo costituito da 90 unità archivistiche, molto poco funzionale alle esigenze di chi cerca informazioni puntuali e in tempi relativamen¬te brevi. La brillante attività degli studiosi dell’ateneo calabrese non ha trasformato la realtà materiale della memoria storica della Mongiana, ma si è invece concretizzata nella realizzazione di una schedatura analitica del¬le unità archivistiche, riordinate logicamente ma solo sul piano virtuale. Attraverso il sito www.linguistica.unical.it/laboratorio-doc/pubblicazioni/RealiFerriere/index.htm, è infatti possibile consultare la straordinaria documentazione disponibile, distribuita in ol¬tre mille unità tra fascicoli e sottofascicoli, contenuti in novanta “buste”. In tal modo, il ricercatore-navigatore può individuare i do¬cumenti che gli interessano, visualizzarli, confrontarli simultaneamente con gli altri materiali. Un’autentica manna per chi vuole riscoprire un pezzo importante della storia industriale del Sud e approfondirne personag¬gi e situazioni. La schedatura del Laborato¬rio di documentazione del dipartimento di Linguistica dell’Università della Calabria è stata effettuata «secondo i correnti parametri archivistici, evidenziando, ai fini della con¬sultazione, la corrispondenza tra vecchia e nuova segnatura». È stato così ricostruito l’ordinamento originario degli atti, che ripar¬tiva la documentazione nelle seguenti temati¬che: Contabilità finanze (stati di contabilità), Contabilità materie (stati di rimesse e consu¬mi; quadro degli altiforni), Inventari, Stati di situazione, Stati dei lavori, Processi verbali, Registri copialettere, Protocolli, Corrispon¬denza, Contratti, Disegni, Tariffe.
Gli accademici calabresi si sono poi avval¬si del’ prezioso materiale per realizzare i testi del sito dedicato alle Reali Ferriere, comple¬to di immagini e riferimenti storici.
Ancora. Mongiana: la realizzazione, nella provincia di Vibo Valentia, in Cala¬bria, di uno dei più importan¬ti stabilimenti metallurgici d’Euro¬pa non è un progetto per riconverti¬re la regione italiana meno industria¬lizzata. È storia.
La storia del complesso della Mongiana, avviato alla fine del Set¬tecento e inserito in un comprenso¬rio industriale sito tra Monteleone a Gerace, in mezzo a boschi e corsi d’acqua, a poca distanza da Serra San Bruno. Le Reali Ferriere della Mongiana giunsero a dare occupazione fino a 1.500 operai. Vi si lavorava il mine¬rale di ferro estratto dalle vicine miniere statali di Pazzano. Si realiz¬zavano manufatti di utilizzo civile e soprattutto militare. Di grande rile¬vanza, tra le produzioni per uso civi¬le, le componenti (bulloni, maglie, catene) dei primi ponti sospesi in ferro realizzati in Italia, costruiti sui fiumi Garigliano e Calore nel 1829.
Mongiana rappresentò un auten¬tico modello di civiltà industriale per l’epoca. Accanto agli stabili¬menti produttivi, furono edificate case per gli operai e gli ufficiali d’artiglieria che vi presidiavano, una chiesa, una struttura sanitaria e perfino un teatro.
Un’autentica comunità, insom¬ma, costruita attorno a un impianto che assicurava lavoro e sviluppo a un vasto territorio. Rispetto ad altre aree del regno borbonico, inoltre, la Mongiana godeva di un regime lavo¬rativo più umano. Non vi era, come altrove, sfruttamento della manodo¬pera femminile e lo stesso lavoro minorile veniva circoscritto nelle mansioni e ridotto negli orari.
La localizzazione delle Reali Fer¬riere in mezzo a distese boschive non era casuale. All’epoca infatti, per le fucine di simili opifici occor¬revano straordinarie quantità di le¬gno da trasformare in carbone. Il che determinava autentici scempi ecologici. Le fonderie della Mongia¬na erano state impiantate per sostitu¬ire le antiche ferriere di Stilo, risa¬lenti all’epoca angioina, e declinate proprio per la carenza di boschi an¬cora vergini nelle vicinanze.
Il ventenne Ferdinando IV di Bor¬bone (poi divenuto Ferdinando I, re delle Due Sicilie) decise dunque, nel 1771, di dare vita al moderno stabilimento in un’area immersa tra faggi e abeti, tra il Tirreno e lo Ionio. La costruzione richiese diver¬si anni. Per assicurare all’impianto una tecnologia d’avanguardia, Ferdi¬nando si assicurò la consulenza di scienziati, quali Faicchio, Melogra¬ni, Savaresi e Torídi, che avevano in precedenza condotto appositi studi in alcuni degli stati più industrializ¬zati d’Europa, primi fra tutti Fran¬cia e Inghilterra.
Il periodo murattiano (1808-1815) diede impulso all’atti¬vità siderurgica. Non a caso, nel 1814 il complesso di Mongiana era giunto a triplicare la sua produzio¬ne, sfornando 14 mila quintali di ferro.
La successiva politica di svilup¬po industriale, voluta dal nuovo re Ferdinando II, contribuì a favorire la crescita del colosso metallurgico calabrese, tanto che, a metà degli anni Trenta, le Ferriere furono raf¬forzate con la costruzione di una nuova fonderia di prima fusione, la Ferdinandea. Una struttura di note¬vole interesse architettonico che, ol¬tre ai locali per le lavorazioni, preve¬deva alloggi per l’esercito e perfino appartamenti reali.
La fonderia della ferriera, da par¬te sua, aveva tre altiforni e poteva avvalersi di macchine a vapore Sofisticata fu anche la concezio¬ne della fabbrica d’armi, progettata e realizzata nell’ambito del comples¬so industriale, a metà secolo, da Domenico Savino.
All’ingresso aveva colonne di ghi¬sa che, quasi come un ammiccamento pubblicitario, richiamavano l’atti¬vità produttiva.
All’interno, c’era an¬che una scuola per i figli degli ope¬rai. Nella fabbrica d’ armi gli occupa¬ti oscillarono tra le 100 e le 200 unità. In parte erano “filiati”, ovvero esentati dal servizio di leva, a condi¬zione di restare legati allo stabilimen¬to per almeno un decennio.
Il drastico ridimensionamento del gigante metallurgico arriva subi¬to dopo l’unificazione del Paese. Passano infatti appena due anni, e la produzione si dimezza.
I motivi stanno soprattutto nell’improvviso abbattimento delle barriere doganali, nell’incremento delle imposte e néi pesanti tagli agli ordinativi per forniture militari e ferroviarie decisi dal nuovo Gover¬no. Poco fondate sono invece le giustificazioni, pure addotte all’epo¬ca, che riguardavano una presunta relativa qualità dei prodotti. Se così fosse stato, non si spiegherebbero i numerosi riconoscimenti assegnati all’opificio. Dalla medaglia con di¬ploma attribuita in occasione dell’Esposizione industriale di Fi¬renze del 1861, ai premi per prodot¬ti delle ex Reali Ferriere, quali lame damascate, sciabole e carabine di precisione, disposti all’Esposizione internazionale di Londra del 1862.
La Mongiana e la Ferdinandea chiusero definitivamente i battenti poco dopo la cessione, nel 1873, a un privato, il deputato ex garibadi¬n o Achille Fazzari.
La Mongiana e la Ferdinan¬dea non esaurivano il patri¬monio industriale della Ca¬labria ottocentesca. La regione, anzi, costituiva, l’area più indu¬strializzata del Regno dopo quella di Napoli – Caserta – Salerno. Sempre nella siderurgia, non si può non ricordare lo stabilimento di Cardinale, nel bosco di Razzo¬na, impianto privato noto come la ferriera del principe di Satriano, avviato da Carlo Filangieri nel 1824 e che risulta attrezzato fin dal 1839 con ben nove fornelli di fusione. E da lì che, assieme alle Reali Ferriere di Mongiana, usci¬rono la gran parte dei componenti utilizzati per-la costruzione dei primi ponti sospesi in fer¬ro d’Italia, sui fiumi Gari¬gliano e Calore. Filangieri riuscì a far quadrare i con¬ti della sua ferriera per molti anni, malgrado do¬vesse importare il ferro dall’isola d’Elba, non po-tendo utilizzare il minerale estrat¬to dalle miniere statali di Pazza¬no. Un grosso aiuto gli venne dagli abili artigiani locali, maestri nella lavorazione del materiale.
L’opificio giunse così ad annoverare fino a 200 addetti. La fine fu decretata da un evento naturale,un’’alluvione che recò danni irreparabili e strutturali.
Un’altra fonderia, che produceva spranghe di ferro, era localizzata a Fuscaldo, nella Calabria citeriore.
Accanto all’industria siderurgica figurava in primo luogo quella estrattiva. A Lungro per l’estrazione del sale, erano attivi all’epoca più di un migliaio di operai.
Più che notevole era la presenza dell’industria tessile, nel cui ambito operavano anche impren¬ditori stranieri. In particolare la Calabria citeriore era nota per la lavorazione della lana, le Serre e il Poro per quella della seta. Alla nascita dello Stato italiano, nel 1860, le imprese del settore dispo-nevano complessivamente nella regione di circa 11 mila telai. Nel¬la sola industria della seta opera-vano oltre tremila persone, con larga presenza femminile.
Sin dall’inizio dell’Ottocento, in Calabria si erano andate sviluppando, specie nell’area di Reggio e di Cosenza, imprese di distillazione da vino e frutta per produrre spirito. Un’attività il cui successo era testimoniato da una clientela vasta, spesso anche extraregionale, e che si è protratta, tra alterne vicende, fino alla se¬conda guerra mondiale.
Agli inizi del XV secolo si consolida in Calabria la coltivazione del gelso per il baco da seta (gelso bianco) che viene avviato per le particolari doti climatiche nelle aree di Bisignano, Catanzaro e Reggio Calabria. Nel 1589, si ha notizia di una produzione di circa 400.000 libbre a Catanzaro e Bisignano e di altre 100.000 libre a Reggio Calabria.
Una produzione formidabile per l’epoca pur se sottoposta a forti fenomeni di depauperamento a causa del contrabbando – sia della seta che dei bachi -, anche se le pene, per chi esercitava questa attività illecita, erano estremamente severe.
L’andamento di questa attività produttiva continua ad essere ottimale anche nel XVII secolo, quando la crisi colpisce molte aree dell’Italia per una generale carenza di innovazioni tecnologiche.
Paradossalmente questa carenza tecnologica incentiva tanto il contrabbando quanto la commercializzazione – quasi obbligata – dei semilavorati di seta e soprattutto dei bachi.
Al confine tra industria e arti¬gianato, la Calabria riusciva anche ad assicurare ai mercati sia nazionali che esteri una produ¬zione manifatturiera svariata, dai cappelli alla pelletteria, dai mobi¬li ai saponi, all’oggettistica in me¬tallo, fino ai fiori artificiali.
La coltivazione intensiva dell’ulivo, oltre a renderla la regione più produttiva di olio alimentare, le dava anche il primato nella produzione di olio lampante, che in un periodo in cui non esisteva l’illuminazione a gas o elettrica, e non essendo stati ancora messi a punto gli impieghi del petrolio minerale, costituiva la materia prima atta all’illuminazione e alla produzione di saponi.
La pianta della liquirizia di Calabria, è stata fonte di altra ricchezza per la gente del posto. Infatti la storia della sua trasformazione è molto antica ed è legata alle vicende del latifondo e delle famiglie feudatarie calabresi. Le sue radici, tanto lunghe che si diceva arrivassero all’inferno, pur contribuendo ad azotare il terreno, dovevano essere estirpate prima di procedere a qualsiasi coltura. La loro raccolta, in un’economia strettamente dipendente dall’agricoltura, consentiva di sfruttare il terreno nell’anno di riposo della rotazione, dando lavoro ai propri contadini nonché a gruppi di immigrati stagionali provenienti da zone ancor più depresse.
Nel 1500, quindi, si inizia a estrarre il succo di liquirizia e nel 1731, secondo la tradizione, l’attività si espanse e fu dato particolare impulso nel 1800 con il miglioramento dei trasporti marittimi e con i privilegi e le agevolazioni fiscali concesse dai Borbone a queste industrie tipiche.
Importanti sul piano locale erano anche le attività di estrazione oltre che della liquirizia quella del tannino dal castagno
Già nel XIV secolo risultano tracce di un agrume esclusivo del sud della Calabria Limon pusillus calaber. L’etimologia più verosimile è Begarmundi, cioè pero del signore in turco, per la sua similarità con la forma della pera bergamotta.
La prima piantagione intensiva di alberi di bergamotto (bergamotteto) fu opera nel 1750 Originariamente l’essenza veniva estratta dalla scorza per pressione manuale e fatta assorbire da spugne naturali (procedimento detto “a spugna”) collocate in dei recipienti appositi (detti concoline).
Nel 1844 si documenta la prima vera industrializzazione del processo di estrazione dell’olio essenziale dalla buccia grazie a una macchina di invenzione del reggino Nicola Barillà, denominata macchina calabrese che garantiva una resa elevata in tempi brevi, ma anche un’essenza di ottima qualità se paragonata a quella estratta a spugna.
Inoltre durante questo secondo periodo borbonico si registrarono in tutta la Calabria importanti cambiamenti. Prima di tutto c’era la quasi completa possibilità di esercitare gli usi civici che consentivano a larghe masse di contadini di utilizzare i vasti demani della Sila e del Marchesato. La popolazione aumentò notevolmente tra il 1801 ed il 1861, passando dai 750.000 a 1.140.000 abitanti. A Mongiana, nelle montagne delle Serre, come detto, funzionavano le Regie Ferriere con quasi duemila operai. Secondo alcuni, era il più importante polo siderurgico italiano, che subito dopo l’Unità venne completamente smantellato. Nel 1859, Ferdinando II moriva.
Gli successe il giovane figlio Francesco II. Infuriava la seconda guerra di indipendenza e per il Regno delle Due Sicilie i tempi volgevano all’impossibile.
Il giglio della dinastia era destinato ad appassire presto e con questo sarebbe appassita anche la Calabria.