La legge del re Ferdinando IV di Borbone del 20 marzo 1784, “istruzioni per la ricostruzione di Reggio”, fu una legge di “protezione civile che ordinava per gli edifici pubblici e privati la messa in opera di strutturazioni antisismiche per mezzo del “sistema baraccato”.
Un validissimo sistema per quel tempo, che oggi si è evoluto con l’uso del cemento armato, ma che a quei tempi si realizzava con travi e piedritti lignei concatenati tra solai, murature e tetto, di edifici non superiori in altezza al piano rialzato.
Le murature portanti a loro volta dovevano essere composte, di calce grezza mescolata con pietre e laterizi non più grossi di un palmo della mano (foto n. 1).
Ne dà l’esempio di ricostruzione post terremoto, in ordine alle recepite disposizioni antisismiche della legge borbonica del 1784, il palazzo marchesale (foto n. 1a) edificato intorno al 1792, che poi sarà venduto dall’ultima erede Anna Caracciolo dopo il 1849 ed acquistato insieme ad alcuni altri beni ex feudali dalla famiglia dei Ganino, gli stessi curatori del restante patrimonio Caracciolo.
L’evidente architettura del palazzo, costruito a dieci anni dal terremoto, non mostra tracce di estemporaneità, per investirsi invece di una propria identità di stile.
Sul piano rialzato si completa con un tetto a basso spiovente, offrendo a colpo d’occhio uno sviluppo orizzontale di fronte alla via.
Il suo complesso prospettico si conforma allo stile estetico del settecento barocco, con la cornice del portale a sviluppo esornativo, segmentata da larghe bugne a cuscino, sulla quale domina la cimasa marmorea a tutto volume dello stemma gentilizio (foto n. 2).
La centralità del portale s’impone con visibilità sulla verticale di facciata del palazzo, pareggiato con intonaco di calcina e lungo il basamento prende posto sull’intonaco una fascia di lastre lapidee con spessore longitudinalmente a due falsi piani di livello.
Le quattro finestre del piano rialzato sono a raso di parete con aggetti di soglia molto ristetti, mentre i due balconi anch’essi di breve sporgenza e dalle semplici ringhiere di ferro a verghe verticali, si posizionano prossimi ai lati dell’arco del portale.
Ad altezza di quattro metri circa dal livello di soglia svetta l’arco della volta che sostiene imperniata al centro la cimasa marmorea dello scudo blasonico partito nei due campi in cui una coppia di leoni rampanti rivoltati offrono lettura del doppio casato, gli Acquavia ed i Caracciolo Pisquizi (foto n. 3).
Gli Acquaviva, famiglia anche annoverata fra le sette grandi case del Regno, si rappresentano con il leone a cresta fiammeggiante in campo sfumato, come similmente apparirebbe sul drappo con un leone azzurro lampassato (lingua) di rosso su campo d’oro e con la coda rivoltata; i Caracciolo-Pisquizi, dal 1699 marchesi di Arena, si rappresentano invece con l’altro leone in campo più chiaro, come similmente apparirebbe sul drappo con un leone azzurro lampassato di rosso su campo dorato con la coda contro rivoltata.
Attraverso la due raffigurazioni dei leoni rampanti viene istoriato nello scudo in cima al portale il connubio tra gli Acquaviva ed i Caracciolo, nato nel tempo attraverso alcuni matrimoni fra i discendenti dei rispettivi casati.
Già dagli inizi del ‘600 si erano costituiti legami matrimoniali tra gli stessi Conclubet, originari signori dell’antico feudo normanno di Arena, con gli Acquaviva d’Aragona ed i Caracciolo.
Francesco Conclubet, infatti sposava una Felicia Caracciolo e da questa unione verrà alla luce don Andrea, nato in Arena ed ultimo marchese Conclubet, che poi morirà ucciso a Napoli nel 1678 ed a cui seguirà nello stesso anno anche la morte per malattia del giovanissimo suo unico figlio Riccardo.
Con la loro morte si estingue il casato Conclubet di Arena ed l’antico feudo verrà ereditato dalla sorella di don Andrea, Anna Conclubet sposata con Francesco Acquaviva d’Aragona 13° duca d’Atri, della linea duchi d’Atri e conti di Conversano, il quale per diritto nobiliare univa i suoi beni a quelli di Anna e le imponeva il rango del proprio casato Acquaviva d’Aragona.
Il figlio della coppia, Giosia III Acquaviva d’Aragona 14° duca d’Atri ereditava così il feudo di Arena.
Egli sposando Francesca Caracciolo di Torella avevano a loro volta il proprio figlio Giovan Girolamo II Acquaviva 15° duca d’Atri, il quale non avendo alcun interesse per il feudo di Arena infine lo venderà nel 1691 ai marchesi Caracciolo Pisquizi di Girifalco.
Un altro ramo della linea dei conti Acquaviva di Conversano ebbe discendenza da un terzogenito cadetto, che non poteva ereditare, Adriano Acquaviva, però fatto 18° conte di Conversano/duca di Nardò per quella parte dei beni Acquavia ai quali il fratello primogenito Alberto duca d’Atri fu costretto a rinunciare.
Quest’ultimo, Alberto duca d’Atri. era il trisavolo di Giovan Girolamo II Acquaviva e 15° duca d’Atri, il quale come s’è detto vendé il feudo di Arena alla famiglia Caracciolo.,.
Adriano Acquaviva, acquisito un feudo ed il doppio titolo di conte/duca di Conversano e Nardò potè sposare Isabella Caracciolo Pisquizi dei conti di Biccari, nel 1573 circa.
Gli Acquaviva-Caracciolo pur legati fra loro da parentele, come in tutte le grandi famiglie entrarono spesso in conflitto per interessi e gelosie ed arrivarono anche a duello all’ultimo sangue.
Ma ad Arena, a raccontare queste storie oggi ci resta il simbolo nobiliare del doppio casato imperniato sul bel portale bugnato.
A breve distacco dai basamenti d’ingresso c’erano anteposte due colonnine di pietra, scomparse però da qualche tempo, che avevano gli apici scolpiti a bugna tondeggiante, utili forse per cingere le cavezze dei cavalli o dell’asino per la posta.
Lo stile barocco del portale si integra con due finestre contigue ai lati, che incastrano le cornici di massello igneo a sezioni ricurve per comporre stilizzanti profili a chiavi di violino contrapposte, con aderente allusione al repertorio strumentale della musica del settecento (foto n. 2).
L’ampio sotto volta è centinato dal telaio fisso a mezzaluna su cui si chiudono i laschi battenti di legno nudo, con le traverse di rinforzo come il secco fasciame di un relitto nella sabbia.
Il portale di ostensiva severità asserraglia l’ingresso di un ampio locale interno con basolatura di granito fino ai piedi di una rampa di scala che dal suo primo ripiano riprende a salire per altri due versi opposti, nella controluce del giorno sotto alla vetrata di centro parete.
La via del palazzo prosegue per Corso Vittorio Emanuele III e nel caseggiato d’inizio, dopo il secondo vicolo, vi è un singolare portale in cornice di granito a vano quadrangolare di taglio liscio, che sostituisce la volta con l’architrave incorporata sui piedritti.
E’ l’unico portale in Arena che presenta una cornice litica di tale foggia, come per fare ossequio al portale del vicino palazzo marchionale, ma copiandogli un sobrio rivestimento lapideo sul piede di facciata ed una finestra quadra con la griglia di ferro che guarda direttamente sulla strada.
Un altro edificio rappresentativo, al capo opposto del paese, ma ristrutturato postumo all’edificazione del palazzo marchesale è certamente quella porzione del palazzo oggi in disuso della estinta famiglia “Cesarelli-Ajossa” in via Giudecca, facente parte dell’antico convento di San Teodoro, che venne parzialmente distrutto dal terremoto del 1783 e che a quel tempo avrà subito la sorte di confisca e di vendita dettate dal Regno borbonico al fine di ricavare un contributo fondiario per la “Cassa sacra”.
Anche nel prospetto del palazzo “Cesarelli-Aiossa” vi è incluso un portale ad arco (foto n. 4a), ma che non presenta più fattispecie barocche, bensì lo stile ricorrente d’inizio secolo ottocento.
Di granito massiccio, il portale s’impianta su di un basso gradino per correggere il livello di pendenza della strada.
A vista frontale, la cornice si sviluppa connessa ad una orlatura a mezzotondo per tutto il perimetro interno, degradante ad un’altra seconda orlatura di più basso rilievo che fa da profilo alla superficie dell’intradosso.
I basamenti presentano un maggiorato spessore rispetto al resto dei verticali, mentre si evidenziano le sporgenze ornative che incorniciano i livelli d’impostazione dell’arco.
Una parte di ringhiera a verghe di ferro verticali resta ancorata all’aggetto del balcone che innesta il suo reggi mensola mediano direttamente nell’arco di volta (foto n.4)
L’incastro del balcone sull’arco del portale si dimostra inadeguato, giustificabile solo per compensare un calcolo errato dell’altezza insufficiente tra il primo livello ed il livello rialzato, oppure sottintende che ai tempi di costruzione vi fosse stata un’ingiunzione al padrone committente per fargli riproporzionare la pretesa nobiliare, costringendolo a ridurre l’elevazione dell’ingresso alla sua dimora.
Perciò, nella panoramica della geometria di facciata la cornice d’ingresso al palazzo risulta compressa tra l’orizzontalità del profilo di gronda e la linea di discesa della via comunale.
Il portale presenta sempre però una buona ampiezza per rendere accesso ad un andito signorile che guida in fondo ad una breve alzata del pavimento e su oltre per destra ad uno scalone di salita al piano superiore, sotto la luminosità verticale di un lucernario che esisteva alto nel centro del soffitto (Domenico Greco /6).
Dirimpetto al palazzo si apre un spiazzo di 12 passi circa per lato e sul recinto murario del lato di fondo si accorpa tra i due cancelletti di accesso all’orto-giardino un antico fontanile a piedritto litico dalla cannella asciutta, che in sovrapposta altezza porta una tavola lapidea con scrittura incisa, incorniciata da cima ornamentale a cappello ecclesiale ed ai lati con altre cimase a girigogolo.
In mezzo allo spiazzo, immaginandolo com’era una volta di scabro selciato, vi era stata messa una fontana a fusto di ghisa, poi ricollocata quasi a ridosso dell’antico fontanile di pietra (Giacinto Brogna /3).
Da essa ne scaturiva lo scorrere scrosciante dell’acqua, che fra i silenzi dalla notte fino all’alba, surgeva con la risonanza del flusso in canna dentro l’anima cava della ghisa.
Ma in ultimi decenni, anche quel fusto di ghisa incappellato perse la licenza di stare nel posto a margine dello slargo e scomparì senza lasciarvi traccia, nemmeno per il ricordo di quelle donne della Giudecca che vi andavano per prendere acqua, ritornando con stentati passi sotto il gravame dei fragili orci di terracotta mantenuti in equilibrio sulla testa (foto n. 5)
Oggi quello che resta unico nello spiazzo è il fontanile di pietra, un’impronta radicata nel luogo che cerca di raccontare a chi lo guarda, significando la sua inclusione nella chiostra conventuale d’origine, dove a quegli inizi del ‘700 probabilmente finiva il cento urbano di Arena e da lì a valle per l’odierna via Giudecca e per Santa Caterina non vi erano che stallaggi nei fondi di campagna.
Invece del parco alberato insieme all’attuale muro di recinzione (foto n. 6) non ce n’era esistenza osservando fotografie databili a metà giugno del 1908 (foto n.7/7a) scattate sulla processione votata alla “Madonna delle verginelle”, che ad Arena non si celebra più da anni.
La stessa Curia l’avrebbe ricondotta ad un atavico rito pagano di propiziazione alla dea “Ceria Giovia”, che conciliava l’eterna fanciulla di tangibile verginità con l’eterna Madre legata alla Natura della montagna nel simbolismo dei cicli della sessualità e della rinascita, vista anche come una incongruente cristianizzazione del mito greco-romano di Persefone/Proserpina, la gioiosa fanciulla che venne rapita e tratta nel mondo degli inferi da Ade/Plutone, che ogni anno ritorna alla luce per risvegliare primavera.
Il parco-giardino sarebbe stato allora realizzato in data successiva al 1908, con l’intenzione del “barone” don Peppino Cesarelli di creare un’amena veduta dalle stanze della sua consorte donna Estella Galati, portata in sposa ad Arena dal vicino paese di Acquaro.
Sebbene il palazzo Cesarelli resta diviso dal parco-giardino per il passaggio della via di mezzo, all’interno del parco si sviluppava l’imponente alberato di un palmizio dominato dalla cima elevata di un magnifico larice, sulla vista di fondo di una maestosa chioma di altro pino marino, che rendevano una prospettiva d’insieme pertinente ed estetica con l’affaccio del palazzo stesso.
Così, anche la via Giudecca, che discende dallo slargo del fontanile alla chiesetta di San Teodoro, in quel tratto diventava un viale delimitato tra la fronte del palazzo e la lunghezza del muro del giardino, sopraelevato dalla metà altezza con una teoria di strette luci fra ponti verticali di finti mattoni color rosso ocra.
Si ammirava un bel quadro in proiezione aristocratica, ma per quanto riguarda l’attribuzione di “barone” a don Peppino Cesarelli, ne ignoriamo la deroga di Diritto nobiliare in virtù della quale egli sarebbe stato ascritto nell’albo gentilizio dei baroni, solo perché figlio della baronessa Matilde Aiossa, che per regola della successione nobiliare non poteva trasmettergli alcun privilegio proprio.
Solamente la baronessa Aiossa era l’unica acquisita nella famiglia Cesarelli con un titolo di antico casato, che si era data in sposa nel 1880 a don Domenico Cesarelli, portandosi una ricca dote di possedimenti in Puglia, da cui si appura che solo dalla paglia della mietitura di giugno ricavasse 500 mila lire all’anno di quei tempi!… (da Pasquale del Giudice /4).
–… ondulate pianure, l’estate in cui se la luna stregava la notte, era di giorno dove gli uomini più che in guerra potevano morire sotto il mantice inesorabile del sole e le donne sbrigliavano le membra in danze tarantolate fra le paglie secche del grano…- (foto n. 8)
Con quel matrimonio fortunato, don Domenico Cesarelli poteva aggiungere al proprio cognome anche quello della gentilissima Aiossa, come appariva in passato ad insegna dell’oleificio di Potami (foto n. 8a) e come stava scritto in bande forgiate sui due cancelletti che davano accesso al parco-giardino ai lati del fontanile di pietra.
Perciò non di meno anche don Peppino Cesarelli, figlio di don Pasquale e della baronessa Matilde, si credeva di essere anche lui un vero “barone” e tanto s’immedesimava nel rango con un tratto di persona mite e perbene in debita distanza dagli altri e con gli occhialini trasparenti che contribuivano a rendergli un’affettata nota gentilizia.
A riverirlo come un “barone” quand’era in vita non procurava male a nessuno, mentre per noi ragazzi che lo avvicinavano per recargli le ambasciate poteva far sortire qualche volta anche una tonda cento lire… di allora!
Visse in consacrata coerenza di “nobiltà”, poiché non esercitò professioni e non si adoperò per alcun mestiere né si svilì a fare mensa con la plebe arenese e raramente o mai fece inviti al suo parentado o da questo li accolse
Tutte le domeniche non disertava una messa insieme alla consorte donna Estella per quanto si dicesse che offriva alla questua in Chiesa un minimo obolo di cinque lire!
In altri modi, forse però fu anche un benefattore in incognito.
Si diceva, che quando il “barone” e signora Consorte partivano all’inizio dell’estate per le terme napoletane, nell’androne del palazzo passavano davanti alla loro servitù in fila di commiato ed a chi dimostrava ossequio con il baciamano gli regalava una cinquecento lire d’argento… ( Immacolata Francese)-
Vero è che quando finì i suoi giorni di grazia, non lasciò un gran piangere ad Arena…
Oltretutto, per completare la nota sui portali di Arena merita giusta attenzione anche il dominante prospetto del palazzo ex Lombardi a metà del percorso di via Vittorio Emanuele III (foto n. 9-9/a).
La sua veduta in verticale s’ingenera per i non visibili prospetti laterali in congiunzione unitaria con i prospetti delle altre case e poiché il suo lato posteriore è ancorato per quasi tutta l’altezza alla parete naturale del monte.
L’estensione di facciata si conforma ad un’estetica di fabbrica propria dell’800 meridionale, di nudo conglomerato sulle superfici pareggiate ed in mattonetti di laterizio per tutti i profili orizzontali e le modanature sporgenti dei cordoli marcapiano.
Ancor più è valorizzata dallo sviluppo verticale di lesene murarie e dall’esposizione delle ringhiere di ferro forgiato a verghe verticali con l’interposizione di grigliati decorativi di coronamento ai balconi in largo aggetto sui robusti modiglioni di altrettanto granito con i tagli frontali sagomati a vario spicco.
Il primo cordolo marcapiano intercorre in linea alle soglie dei balconi, il cordolo del piano rialzato invece è di maggiore salienza e spessore per fare da intero sostegno a tutta la lunghezza della balconata che si affaccia sotto l’ombra della copertura di gronda.
La dotazione più ammirevole del prospetto di palazzo è il portale di pietra con l’arco, impostato sul piano di soglia a tre gradini dal livello strada.
La cornice di granito è di spessore esornativo su un sotto piano in cromia cemento a fenditure raggiate, sul quale fanno risalto due medaglioni di arenaria con tema fogliato, posti a distanze simmetriche dall’altezza del vano di volta.
La modanatura verticale si sviluppa a doppio rilievo in finta sovrapposizione sfalsata affiancata da una orlatura stondata lungo il profilo d’angolo che introduce all’intradosso del portale.
I livelli d’impostazione della volta sono bordati da rilevanti sporgenze orizzontali con sbalzi scalinati a tromba, per mettere in luce il giro dell’arco che si chiude con una serraglia decorata a bassorilievo fogliato e sovrapposto da un cartiglio datato 1852 (inf. dott. Brogna-Sorbara /2).
Altre due case con prospetti di fabbrica materiale simile, ma di limitata entità strutturale, esistono anche in via Roma che evidenziano un coevo periodo di costruzione e la stessa mano d’opera.
Sembra che i portali di pietra sorsero ad Arena durante la prima metà dell’ottocento, dal periodo murattiano all’unità d’Italia, ma anche oltre, e fra i primi potrebbe essere quello in via gen. Filardo che sul massello di volta reca incisa la datazione del 1822.
Invero dobbiamo credere che dall’espropriazione di molti beni feudali e soprattutto di quelli ecclesiastici, provocata dalle “leggi di eversione della feudalità”, la borghesia del regno meridionale si conquistò l’opportunità di riscattarsi dalla condizione di vassallaggio della storia passata e di acquisire proprietà fondiarie diventando la classe sociale di un nuovo fattore economico.
Ed i borghesi più maggiorenti tenevano di gran conto alla loro differenza sociale per ostentarla anche sulle proprie dimore attraverso la retorica del prospetto, sul quale tutti gli elementi dovevano fare da cornice alla centralità del portale di granito elevato ad arco sotto l’aggetto di un esposto verone.
Per la psicologia di attribuire ai portali un significato di status sociale pari a quello nobiliare, anche nel borgo di Arena essi rappresentavano, secondo il grado d’imponenza ed il pregio di fattura, quella parvenza di rango padronale che in apice alla volta d’ingresso si effigiava con un massello decorato al posto del blasone.
A sfondo di tutto questo, però le case della gente modesta partivano invece da un unico ambiente dall’altezza limite per appendere le filze delle salsicce ed in cui si faceva luce di giorno dall’uscio aperto a mezza porta; mentre risalendo la scala sociale si arrivava alle dimore con un contiguo vano finestrato e magari a caseggiati a due livelli con i mignani in legno e più avanti nel tempo con balconi di calcestruzzo a nervature di ferro.
E fu da quella borghesia maggiorente dell’alto notabilato e degli arricchiti proprietari che emersero anche individui attenti ad inseguire l’antico parassitismo padronale del mal profitto sull’asservito bisogno dei più ed in egual modo nell’ex feudo di Arena i cosiddetti “cappiaji”, per l’uso distintivo del cappello, costituirono la loro solidarietà cetuale, imitando in certi casi la supponenza e le antiche tracotanze baronali.
Diventa allora facile argomentare per indotta ragione che dalla dissoluzione feudale, che aveva lasciato nell’isolamento arretrato e miserabile la vasta provincia rurale del Regno, molti dei nuovi borghesi s’indirizzarono all’iniziazione “loggista” antistatale e successivamente anti unitaria.
Mentre altri borghesi più deviati, combinando velleitarismo arrogante ed ignoranza plebea, si costituirono in consorterie familiste di costumanza indolente ed omertosa, che pose sviluppo all’endemia della “mafiosità”, perpetuata come la caratterizzazione di basso profilo storico del meridione.
Dalla chiusura culturale della mafiosità sociale, al pari del vassallaggio si sono alimentate l’intimidazione e l’obbligazione servile del fenomeno mafioso di pochi prepotenti sulle virtù di molti, che in continuità con il passato medioevo ha ostacolato l’integrazione nazionale del Meridione d’Italia ed l’ha costretto da sempre a stare in ritardo con l’evoluzione europea.
E’ su tutto il percorso principale del Paese, dal primo palazzo marchesale in via Santa Maria a discendere per i tratti di corso Vittorio Emanuele III, via gen. Filardo, via Roma per finire al palazzo Cesarelli di via Giudecca, che si trovano le dimore padronali dai portali di pietra con elevazione ad arco.
Di essi si potrà osservare che oltre a svolgere la fondamentale funzione di dare aria e luce all’interno del primario andito di disimpegno, costituiscono anche strutture autoportanti incastrati nelle murature di maggiore carico.
Per il loro impianto, si utilizzava perciò un litico naturale di grana compatta, come doveva esserlo di quei sassi tondeggianti e grossi quanto la cuna di due spanne insieme per calcare le salamoie dentro gli orci di creta cotta.
La pietra grigia in superficie, partorita dalla tettonica convulsa di questa Terra, si appropria della definizione di roccia ignea intrusiva, formatasi per compressione e raffreddamento dei magmi risalenti dagli strati profondi della terra che nei lunghi tempi geologici hanno sollevato tutto l’arco dell’Appennino calabrese… come la videro gli antichi abitatori dei nostri boschi vallivi, di così tale durezza per comprendere la potenza sacrale delle divinità telluriche e l’odore stridente del fuoco, che puoi sentirlo a spaccarla di netto.
In molta quantità, questi massi plutoniani venivano trovati nella foresta di Santa Maria del Bosco di Serra San Bruno e sgrossati in loco da abili maestri scalpellini, continuatori della tradizione di lavorare il granito sin dai tempi d’inizio del cenobio cistercense di Santo Stefano, per i primi edifici in strutture e rivestimenti In pietra.
La pietra cavata nella foresta di Santa Maria, fu sempre più necessaria alla Certosa di Santo Stefano, per i lavori di restauro e di ampliamento nel ‘500, superando i terremoti del 1604, 1638, 1639 e del più distruttivo del 1783, riedificando ogni volta con architetture di granito sempre più ornamentali, utilizzata anche per arredare le piazze di monumenti e fontanili, per arricchire le case private con portali e balaustre.
Però, mi è stato anche puntualizzato che uguale granito si ricavava dai naturali affioranti nella gola del torrente Cornacchia di Soriano, come pure negli alvei dei torrenti Marga e Morano ed in quelli sull’altro versante Perdicari-Burrone che a valle con la denominazione di Varniaju confluisce nello stesso Morano ai limiti dell’abitato di Gerocarne ed è proprio in questo Paese che esiste un bel portale del 1783.
Ancora oggi in Soriano continua la dinastia dei maestri Rullo nell’arte del taglio e della scolpitura della pietra. (Del Giudice /4).
E’ stato anche detto che nel territorio Ciano-Gerocarne, fino a cinquant’anni fa si estraeva questa roccia ignea per sagomare le molazze dei frantoi e dei mulini (foto n…10/10a) e che proprio da un blocco di pietra in contrada Baracca di Ciano vennero ricavate le basule stradali per il paese di Nardodipace (Domenico Agostino: 1 ).
Questo ci offre la prova che sulla fascia d’area Ciano-Gerocarne e Soriano, sin dal lontano passato ha fatto scuola una eccellente corporazione di “mastri d’arte” per la scalpellatura della pietra, anche se la stessa pietra era stata utilizzata da sempre per foggiare le macine dei mulini e dei trappeti.
Anche a Soriano è doveroso stimare lo sviluppo di questa impegnativa Arte sin dai primi del ‘500, perché come avvenuto a Serra san Bruno anche a Soriano fu favorita dal sorgere della grandiosa fabbrica del convento di San Domenico e dal rifiorire dell’edilizia sacra che hanno richiesto un vasto impiego di materiale litico ed anche per realizzare in varie epoche portali di pregio architettonico ed altri manufatti ornamentali.
Io stesso ritorno ragazzino, stupito di aver visto nella vasca di macina dell’oleificio Pellì di Arena un artigiano gerocarnese che scalpellava sul granito delle molazze per sbiancarle, così mi sembrava.
Erano quelle stesse macine che poi nei mesi di frangitura delle olive diventavano trasudanti mostri semoventi che trasmettevano il brivido sull’intero palmento.
E se capitava una sera che accompagnavo mia madre al frantoio, nel disperso rischiaramento di un’ampolla di luce pendente da una trave del soffitto, mi prendeva il turbinare rumoroso di quei larghi cilindri di pietra in rotolamento sul solco della pasta a caldo, che mi lasciava sentire come credevo l’odore aspro della pece.
Ma al fine voglio aggiungere che la pietra grigia non fu solo importata ad Arena dagli scalpellini di Ciano e di Gerocarne, il luogo è anche ricco di altro naturale litico in ridotto a materiale di fabbrica con il quale si edificarono complesse strutture d’incastellamento.
E mastri capostipiti dalle mani esperte nel settore delle grandi murature vi giunsero in questo antico borgo castellano agli inizi della signoria normanna.
Pertanto, ci racconta Mariano Fortunato Idà che quattro fratelli Idà sarebbero venuti ad Arena dalla madrepatria macedone al seguito degli Altavilla, per rendere ad essi un utile servizio come costruttori di fortificazioni, acquedotti e ponti stradali.
Vige infatti la conferma storica che i cavalieri normanni nell’Italia meridionale dell’XI secolo erano in pochi, per poter ambire di conquistarsi un regno a danno dei molto più numerosi bizantini e longobardi e per espugnare le enclavi arabe.
Allora gli stessi ex mercenari normanni, nominati conti sotto la consacrata egida del Papa Niccolo II (trattato di Melfi del 1059), pensarono di costituire le proprie schiere di conquista arruolando i miliziani autoctoni insieme a moltissimi altri mercenari arabi e greco-bizantini (macedoni) e fra questi molti tecnici specializzati.
Per questo si può accettare anche la congettura che ai tempi dei normanni gli Idà macedoni possano essere stati fra i costruttori-manutentori del castello di Arena e delle arditissime torri dell’acquedotto servente, riportandone il merito nella cognominazione di “Pilieri” (da pila=torre, a cavallo dei secoli XIII-XIV), che ancora oggi si evoca ad Arena e a Gerocarne. (foto 11/11a)
E a dare sostegno al racconto degli Idà macedoni, costruttori del castello si Arena, si ricorda che proprio in mezzo all’arco di raccordo tra le due maggiori torri dell’acquedotto normanno che domina sul passaggio dell’antica via comunale per contrada Fossa, prima della ristrutturazione in calcestruzzo vi era incisa sulla pietra al centro di volta, l’effigie di un sole raggiante, simile appunto all’antico emblema della Macedonia (da inf. Mariano Fortunato Idà /7).
Tutto quanto si è letto in queste pagine riguardo ai portali di Arena raccontati negli accenni di un contesto storico, è venuto dall’osservazione di quelle pietre che per essere il magma pietrificato di un lungo metamorfismo geologico, rappresentano il riflesso scolpito di un breve e convulso passaggio d’epoca, dall’ultimo quarto del settecento alla prima metà del secolo ottocento, nel quale maturarono le basi su cui si è incardinata la Storia del Regno borbonico e dell’Italia post unitaria, fino alla cronaca dei nostri giorni.
Per la stesura dell’articolo mi sono avvalso delle informazioni a me concesse per gentile disponibilità di:
1. Domenico AGOSTINO – Australia, nato a Gerocarne e di adozione arenese;
2. dott. Enrico BROGNA e consorte Graziella SORBARA di Arena;
3. Brogna Giacinto – di Lamezia Terme, nato ad Arena,;
4. dott. Pasquale Del GIUDICE- di Vibo Valentia, nato a Gerocarne, esimio ricercatore/scrittore di Storia locale che ha riversato conoscenze e analisi rigorosa nelle sue le pubblicazioni “IL MONASTERO DI SAN PIETRO SPINA DI CIANO” – “POTAMI e SAN FRANCESCO SPINA” ;
5. Immacolata FRANCESE – Torino, nata ad Arena;
6. Domenico GRECO – di Arena ;
7. Mariano Fortunato IDA’- Benevento, nato ad Arena;
8. le foto n. 4a, 5, 7, 7a, 8a, antiche foto di Arena dall’Album curato da Pasqualino Siciliano;
9. le foto n. 1,4,6,8,11a, tratte da google maps.
Leggi anche –>> Esplorando la Calabria | “I portali di Arena raccontati” – (Prima parte)