Non capita spesso che qualcuno, come un emigrato, torni al proprio paese di nascita dopo molti anni di assenza. Quasi tutti quelli che si trasferiscono in altre città o nazioni conservano quel senso di appartenenza alla terra d’origine, forse proprio tipico di noi meridionali, e tornano al paese ogni anno, prevalentemente in estate. L’emigrazione per motivi di lavoro, avvenuta dopo l’ultima guerra, ha comportato molti sacrifici dei partenti e delle famiglie, che spesso rimanevano smembrate. Negli anni ’50 e ’60 i mezzi di trasporto per l’Italia e l’Europa erano i treni, per le Americhe la nave. Quindi, si possono immaginare i disagi cui gli emigrati andavano incontro per mantenere rapporti periodici con la propria terra o famiglia. Questo ritorno è diventato sempre più facile e possibile dagli anni ‘70 in poi, soprattutto per due fattori: il diffuso possesso di automobili in famiglia e le offerte sempre più ampie di viaggi in aereo.
È ben strano, pertanto, che un bimbo che abbia frequentato le scuole elementari a Serra San Bruno e poi con la famiglia si sia trasferito al Nord, non abbia sentito, prima dei 63 anni d’età, il desiderio di tornare al suo paese o che non abbia mantenuto rapporti amichevoli con i compagni di scuola.
Ebbene, è capitato proprio questo a Giuseppe Carchidi, detto “Pinuzzu”, classe 1956, figlio di Francesco “Ciccone” e Concetta Tassone. Il nonno materno era “Luzzu lu Capurali”, altri riferimenti familiari erano: parente della “Buonasira” e cugino di Peppe Mangiardi “Massara”; Elena Tassone, moglie di Cosmo Scrivo “Giardini”, prima cugina della madre.
Dal suo racconto mi pare opportuno riferire direttamente alcune frasi significative, che riguardano la sua realtà di vita da bambino a Serra: “In casa eravamo sei figli, 4 maschi e 2 femmine, molto poveri e andavamo a piedi scalzi”. Negli anni ‘50 pochi avevano l’acqua in casa e ci si approvvigionava dalle fontane pubbliche; i panni si lavavano al fiume. “Anche d’inverno con il freddo gelido prendevamo l’acqua dalla fontana di Li Cheli per bere e lavarci”. Con parole che fanno rabbrividire, Giuseppe rammenta: “Verso i primi anni ‘60 stavo morendo di broncopolmonite e mi avevano già messo l’abitino di S. Bruno per la sepoltura, ma il dott. Gabriele Zaffino mi salvò!”
Pinuzzu frequentò la scuola elementare nel quinquennio successivo al mio (1961-1966), proprio con lo stesso maestro Franco De Paola. Ma di questo fatto scriverò più avanti.
Di lì a poco, però, le condizioni economiche precarie indussero la numerosa famiglia a tentare la strada dell’emigrazione: “Nel 1969 costretto dai miei genitori, sono partito contro la mia volontà per il Nord, come tante altre persone e famiglie intere. Una notte sono scappato per tornare a Serra e ho preso un treno per il Sud, ma a Novi Ligure mi hanno preso e riportato a casa”. Ripresa la scuola, “ho conseguito la Licenza Media e sono entrato in Polizia”. E conclude, con grande e commossa soddisfazione: “Così finalmente mi sono salvato dai pericoli della strada”.
Finché Giuseppe stesso non sveli le motivazioni reali di questa lunga assenza o (voluto?) oblio, rimane un mistero il suo comportamento. In ogni caso, conviene per ora cogliere l’aspetto positivo di questo ritorno, ma in particolare mi voglio soffermare sull’episodio di un incontro per lui speciale e inaspettato. Non so come, Giuseppe era convinto che il maestro De Paola fosse morto da 10 anni. Venuto a Serra, la notizia risultò infondata e lui cercò subito di incontrare il maestro.
Un pianto liberatorio si sprigionò dai suoi occhi, mentre si abbracciavano commossi e felici. Io conosco da sempre il compiacimento del mio maestro nel sentirsi ancora ricordato e apprezzato dai suoi alunni. Di questo incontro, tuttavia, mi colpisce ciò che Giuseppe ricorda del comportamento o dello stile del maestro in quegli anni. Lo elogia, in particolare: “Un maestro di vita con insegnamenti sani che ho tenuto nel cuore saldamente. Era rigido, ma da lui ho imparato a essere onesto, incorruttibile e preciso. Grazie a lui e alla sua durezza, ho fatto una bella carriera nella Polizia e ora sono pensionato”. Ma rammenta, anche: “Nella classe numerosa, il maestro infliggeva listate a chi non faceva il suo dovere; quando queste erano molte, potevano essere scontate da altri alunni volontari! Così insegnava la solidarietà fra compagni. Una volta sparì una penna e il maestro mi prese dalle orecchie; quando tornavo a casa e i miei sapevano quello che avevo combinato mi davano altre botte. Al proposito, mio padre usava un nervo di bue quando riteneva che noi figli avevamo commesso qualche scorrettezza; ma un giorno glielo abbiamo buttato sopra il tetto di una vecchia casa”.
Possiamo oggi avere idee discordanti sul comportamento severo di genitori e insegnanti in uso in quegli anni, però, a mio parere, conta quello che ognuno di noi non solo ricorda, ma da quella severità ha ricavato per l’educazione e la formazione personale.
Il maestro De Paola era particolarmente esigente e, tuttavia, sentivamo di altri insegnanti sia meno che più severi. Non dobbiamo dimenticare che le classi erano numerose, anche più di 30 alunni, in confronto a quelle esigue di oggi, il che richiedeva grande responsabilità e attitudine organizzativa. Lui era rigoroso anche in famiglia, specialmente con le figlie nel periodo nell’adolescenza (lo so perché, fuori della scuola, frequentavo assiduamente la sua casa). Sicuramente oggi nessuno ammetterebbe più l’uso di “bacchettate o listate” a scuola né del nerbo in famiglia: si rischierebbe come minimo una denuncia. Però in quegli anni nessuno si stupiva del fenomeno, anzi, capitava che i genitori, in caso di punizione da parte dell’insegnante, dessero il resto a casa.
Personalmente, del maestro De Paola ricordo più volentieri gli aspetti positivi (ho già scritto un articolo al riguardo nel n. 1/2 – Febbraio/Aprile 2018); concordo, quindi, con le frasi di elogio su riportate, poiché dimostrano che una educazione corretta, ancorché severa, ricevuta nella scuola elementare, come anche in famiglia, possa essere stata determinante nella costruzione di una personalità responsabile, rispettosa, sensibile. La sua dedizione e capacità innovativa scolastica erano impareggiabili.
A proposito di disciplina, ricordo che quando al pomeriggio con mio fratello andavo al doposcuola dal Maestro Brunino Scrivo (padre del compianto salesiano don Gaetano), dovevamo portare a lui un diario in cui nostra madre descriveva il nostro comportamento in casa. Ebbene, più volte ciò comportava per punizione scrivere ripetutamente sul quaderno intere pagine con frasi del tipo “prometto di non disobbedire alla mamma, di non fare mai più la tale azione sgarbata, ecc. ecc.”
Non nascondo che mio fratello abbia dovuto scrivere più di me per interi pomeriggi…
Ricordo, ancora, che nei primi anni ’60, quando ero in Seminario a Squillace per la Scuola Media, i metodi di punizione erano altrettanto rigorosi e non si disdegnava nemmeno l’uso del nerbo (nascosto sotto la tonaca del prete), oltre l’esclusione dal gioco del pallone e del biliardino o dalla passeggiata pomeridiana e l’imposizione, perfino, a mangiare o studiare per ore in ginocchio; non dimentico, anche, gli schiaffi ripetuti e ravvicinati del severo professore di matematica.
Dubito che i giovani di oggi, compresi i miei figli, ricordino o siano affezionati ai loro vari insegnanti allo stesso modo. La società, non solo la scuola, come tutti sappiamo, è profondamente cambiata.
Il ritorno di Giuseppe a Serra San Bruno, pertanto, si rivela una occasione per tutti di ricordare ancora una volta la figura attenta e irreprensibile, ma sicuramente autorevole, di un maestro d’altri tempi, Franco De Paola, ma anche di richiamare alla memoria un periodo della storia e della vita per come si svolgevano nei nostri paesi, con uno sguardo particolare ai rapporti tra figli e genitori e tra alunni e maestri. Per quelli di una certa età, come me, questa reminiscenza è indubbiamente intrisa di benevola nostalgia.
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