Una antica favola serrese
Nascosto per decenni in un cassetto, un dattiloscritto degli anni quaranta firmato da Vittorio De Stefano ci restituisce una favola che, a suo dire, circolava a Serra. Spesso vecchie carte fanno emergere dall’oblio in cui erano confinati, fatti e personaggi di cui inevitabilmente il tempo cancella la memoria: il loro recupero è un esercizio utile e grato.
Il montanaro poeta (Leggenda di Serra San Bruno).
Raccontano i vecchi montanari di Pecoraro, ripetono i giovani che da tante voci hanno appreso, stanno a bocca aperta i bimbi che ascoltano: “C’era una volta, nelle nostre valli, sulle nostre balze selvose, un giovane ardito, forte, bello… “. E chi racconta, rievocando gesta leggendarie, è pervaso di un orgoglio grande, perchè il giovane ardito, forte e bello, era della nostra terra, perchè le sue gesta si svolsero dove noi nascemmo. “C’era una volta…. e non si seppe mai donde fosse venuto. Viveva, come i montanari vivono, attaccato alle sue selve, innamorato per la vita delle vette nevose, incantato d’ innanzi allo scorrere vorticoso dei fiumi, che travolgono sulla loro via massi, radici di alberi divelti. Era ardito, perchè viveva in mezzo alle fiere; forte, perchè aveva tratto la sua energia dalle balze rocciose; bello, perchè figlio di una natura bella, incantevole. E, come su questa terra sorge d’un tratto la gemma verde, la piccola radice che dà vita ad un albero maestoso, così nel suo animo nasceva, innanzi a creature belle, sotto un cielo di azzurro, un incantesimo, una gemma ver-de, una parola dolce. Cantava, accompagnato dal malincolico liuto di qualche suo compagno, quando i monti si coprivano dell’oro del sole; cantava quando la luna mandava raggi di argento sulle cime più alte, sotto alle più profonde valli. Il suo canto era triste, impregnato d’una melanconia dolce, che commoveva quelli che di lontano, in qualche capanna spersa, ascoltavano. La sua voce forte e melodiosa pareva piangere qualcosa di perduto, o, di tanto in tanto, sperare in qualcosa che tardava a venire. Ma un giorno fu trovato, in mezzo ad un cespuglio, il corpo di un montanaro, ucciso da un colpo di coltello. Molta sorpresa suscitò questa scoperta; sorpresa e furore, nei pacifici montanari, che si proposero di vendicare l’ucciso. Essi avrebbero fatto giustizia secondo le loro leggi: avrebbero reciso dal corpo dell’uccisore il capo, abbandonandolo in pasto alle fiere. Mancava Turi, il giovane ardito. Dove si poteva essere cacciato? Perchè la sua voce ora si era fatta più rude? Perchè non cantava più le dolci nenie che una volta commovevano i duri cuori dei montanari ? Egli non cantava più alla luna, non più al sole sorgente, ma con voce che per tutta la montagna risuonava, sembrava minacciasse i rozzi abitatori di essa.
“L’animo di Turi è mutato: / Non più amore, / Non più gioia di vita egli canta, / Ma dolore, / Vendetta, / Perchè un malvagio il suo cuore ha mutato”.
I montanari ascoltavano questo canto forte, che non più dal liuto era modulato. Ed essi compresero che qualcuno aveva ingannato il leale Turi ed egli l’aveva ucciso. Alcuni vollero inseguirlo, farlo prigioniero, ucciderlo. Ma i loro corpi furono trovati in mezzo a cespugli, guastati dalle fiere. Ed intanto, ogni notte, si udiva il triste canto di Turi, che non voleva essere disturbato dai suoi compagni. Così i montanari vivevano sotto una continua minaccia, mentre non potevano prendere Turi, che vagava di bosco in bosco. Ma in una notte, dopo che un tremendo temporale per diverso tempo aveva devastato i monti e le valli, ed i fiumi rigonfi facevano sentire un lugubre e minaccioso gorgoglio, i1 cielo parve aprirsi come d’incanto mostrando le sue gioie luminose. Una pallida luce di luna nuova splendette su quella terra tormentata da bufere violente. E i montanari videro i monti quasi dirupati, alberi divelti dalle radíci, valli sconvolte. I loro poveri beni erano stati distrutti: forse la vita a loro non era più possibile su quelle terre seminate di danno. E mentre essi stavano tristi e muti a contemplare quelle rovine, come di mistero, si elevò un canto divino. Credevano che Turi fosse scomparso in quel temporale ed invece egli, ancora una volta, forse l’ultima, levava alla natura un canto che mai creatura umana modulò. Un liuto, più dolce di quello di allora, accompagnava la voce di lui, che le valli, i monti, i fiumi ripetevano ad eco dolcissima. Il suo canto diceva:
“Non ho ucciso per amor di sangue / ma per vendetta, / Per dare conforto ad un cor / che nel dolore langue. / Nessuno dei miei compagni m’ha punito, / Ma la madre di tutti, / La Natura, / Voleva seppellirmi in questa roccia. / Io solo per mia colpa devo morir, / non voi, o compagni, / Venite,troverete me sul monte / Ucciso dal coltello ch’ha colpito i montanari, nostri amici. / A voi lascio il mio cuore, / il mio tesoro”.
I montanari sono stupiti ed incantati dalla dolce voce di Turi. Che dice mai egli? Si domandano guardandosi. E, riavutisi infine, si partono tutti verso la vetta dove sta Turi. E mentre tacitamente si arrampicano per le rocciose balze, ancora la voce di Turi risuona, questa volta dolcissima, in una triste melanconia:
“Addio, luna, addio,stelle! / Mai più vi rivedrò, / Mai più vi canterò la dolce nenia, / o belle Creature. / Addio monti, che mi deste vita, / Addio acque, che giammai calmaste un core arso da un grande dolore!”
Il canto ha fine. I montanari arrivano alla porta di una caverna, dinanzi alla quale, adagiato su un letto di rami, Turi sembra riposi. Ma non canta più, non si muove, mentre tiene in una mano un liuto d’oro e poggia l’altra sul cuore trafitto. I montanari commossi piegano il capo e piangono anche, perchè comprendono la causa della morte di Turi. Egli si era ucciso, credendo la natura adirata contro di lui, e non voleva che gli altri perissero innocentemente. Accanto a lui, avvolta in una preziosa coperta, mandano mille bagliori tante e tante gemme. Da dove sarà venuto quel tesoro? Forse dal mistero, donde era venuto anche Turi. E nel mistero sono sepolte ancora quelle gemme, perchè stanno nascoste o sotterrate in fondo a qualche balza, difese dalla neve, dal freddo e dalle fiere.
Questa la favola che si racconta ancora tra le popolazioni della nostra montagna. Ed è un insieme di storia e di leggenda, che avvolge l’animo di chi ne sente parlare, di un fascino misterioso fatto dalla nobile generosità della gente della montagna serrese.