All’inizio di questa storia c’è una persona di cui le fonti hanno cancellato persino il nome; una persona, e certamente non è un caso che si tratti di una donna, il cui “stato civile” è ridotto alla sola relazione filiale di parentela. Siamo nel 1522 e da otto anni il monastero di S. Stefano del Bosco (nei pressi dell’attuale Serra San Bruno) è stato recuperato all’osservanza certosina, dopo oltre tre secoli di intermezzo cistercense, da otto anni il suo fondatore, Bruno di Colonia, è stato iscritto da Leone X, “per oracolo di viva voce”, nell’elenco dei beati. Garetto Scopacasa di Simbario, con la moglie Isabella, conduce la sua unica figlia, posseduta da uno “spirito immondo”, alla porta del monastero affinché le reliquie di S. Stefano e di altri santi mettano in fuga il maligno che si è impossessato di lei. Ma il prodigio non si verifica e il vicario certosino dell’epoca, Padre de Corduba, suggerisce ai genitori della ragazza di portarla alla grotta di San Bruno, lontana un miglio dal monastero. Qui, il miracolo avviene: il piccolo gruppo compie tre giri pregando intorno alla cappella, l’indemoniata bacia i piedi dell’immagine del santo, ingoia un po’ di polvere della grotta e lo spirito immondo, dopo aver attraversato il suo corpo e provocato una piaga sanguinante alla sommità di un dito, viene espulso. È la prima volta che nel territorio della Certosa calabrese viene documentato un miracolo di liberazione di un’indemoniata. Da quel momento, e fino a epoche a noi molto vicine, nei luoghi della vita di San Bruno di Colonia numerosi indemoniati (o spirdati,come vengono chiamati nel dialetto calabrese) saranno fatti accorrere al laghetto di penitenza del santo perché, a contatto con l’acqua, gli spiriti maligni siano messi in fuga. In poco più di un secolo la figura di un santo che in vita era stato portatore di una scelta spiritualmente aristocratica – interamente dedita alla contemplazione nella solitudine e nel silenzio – e a cui le fonti storiche coeve non avevano attribuito alcun miracolo di guarigione, subirà una profonda trasformazione agiografica e San Bruno verrà individuato come il santo che guarisce dalla possessione diabolica. Ne rende esplicita testimonianza, nel XVII secolo, Della Calabria illustrata di Padre Giovanni Fiore, laddove si sottolinea che “questo santissimo patriarca (…) volatosene al Cielo l’anno 1101, a 6 di ottobre, lasciò in terra il suo prezioso Corpo, che risplende con molti, e continui miracoli, quali maggiormente si ammirano nel giorno, in cui celebrasi la sua festività, ch’è il primo Lunedì di Pentecoste, nel quale la statua con dentro la testa del Santo si porta processionalmente nella Chiesa di S. Maria, e nel seguente giorno si restituisce al pristino Santuario, concedendo in tali occasioni molte grazie a coloro, che implorano il di lui patrocinio. L’istesse grazie miracolose ancora dispensa un’altra Statua di pietra del medesimo Santo, posta più addentro del bosco in mezzo ad un laghetto di acqua vicino a quel luogo, dove l’istesso Santo fu scoverto dal Conte Rogiero, che menava sua vita in beata solitudine, e penitenza; alla quale vi concorrono gl’Infermi di ogni genere per conseguir la salute, e specialmente gli ossessi da’ spiriti maligni, contro de’ quali ha una virtù maravigliosa per metterli subito in fuga”. Anche una tela oggi conservata nella Chiesa Matrice di Serra e proveniente dalla Certosa (Trinità con santi certosini di Francesco Caivano, 1633) fisserà, nella stessa epoca, l’immagine di San Bruno guaritore degli ossessi. La tela è suddivisa in due metà: nella parte alta stanno la Trinità, circondata dal coro degli angeli, la Madonna (alla destra del Figlio), San Giovanni Battista (alla sinistra del Padre); nella parte bassa San Bruno e sei certosini. Bruno, in piedi, occupa il centro della scena, ha il capo circonfuso da un’aureola e rivolge lo sguardo estatico verso il cielo. Poggiato sulla mano sinistra tiene aperto un libro, nella destra un ramoscello d’ulivo. Completano la scena un cigno, che si affaccia dal margine sinistro del quadro, e un piccolo demonio con le ali di pipistrello, posto ai piedi del patriarca certosino. Il riferimento è inequivocabile: insieme con diversi altri caratteri agiografici riferiti a San Bruno, la tela vuole rappresentare anche il suo attributo taumaturgico fondamentale, quello che lo pone come il liberatore degli indemoniati.
Nei secoli successivi questa “virtù” guaritrice sarà sempre più collegata alla figura di San Bruno. Fonti agiografiche, testi demologici, cronache monastiche riporteranno numerosi episodi di spirdàti guariti, soffermandosi, talvolta, a descrivere la particolare fenomenologia del rito. A fine Ottocento, per esempio, un articolo di Vincenzo Agostino, pubblicato su “La Calabria. Rivista di letteratura popolare” diretta da Luigi Bruzzano, evidenzia diversi aspetti del fenomeno: “Qui da noi – come in tutto il calabro paese – è comune la credenza che chi, senza avere addosso qualche amuleto, o senza farsi il segno della croce, si ferma per riposarsi, od anche vi posa solamente il piede, in un luogo dove qualche disgraziato venne ucciso, o vi cadde altrimenti morto di morte violenta, viene invaso dagli spiriti maligni. Questi stanno lì, nel luogo contaminato di sangue, quasi in agguato, per sorprendere gli incauti e dominare e straziare le loro persone nel modo più orribile e strano, finché non venga in loro aiuto qualche potenza soprannaturale. I provati da questa misteriosa sventura sono gli OSSESSI, che parenti ed amici menano devotamente al nostro Santo Patrono [San Bruno, N.d.A.] il giorno della sua festa, che ricorre il Lunedì di Pentecoste, come ad ultima tavola di sicurezza, quando gli spiriti che li tormentano si son mostrati ribelli a qualsiasi altro comando. All’intimazione fatta in nome del Santo, all’efficacia delle acque benedette del laghetto di Santa Maria, nelle quali EGLI un tempo straziò le sue carni, nessuna potenza demoniaca può resistere. (…) Il Lunedì di Pentecoste, verso mezzogiorno, gl’indemoniati – tra una folla immensa di curiosi e di devoti – attendono l’uscita dell’immagine del Santo, contenente le sue più preziose reliquie, alla porta della Certosa. Quando esce tra il fumo odoroso degl’incensi, il salmodiare grave e solenne e lo splendore di ceri e di ricchi paludamenti, tutti in processione si avviano a Santa Maria del Bosco (…). Ivi la processione si ferma e gl’indemoniati, che lungo tutto il tragitto sono stati disposti alla pietà ed alla preghiera, son tratti avanti ed in presenza dell’immagine del Santo – mentre il Certosino recita i suoi esorcismi – vengon tuffati e tenuti nell’acqua agghiacciata del lago benedetto. La scena (..) nel suo insieme è solenne. Il Santo in alto, presso il lago, in aria di mistico comando; quella immensa folla genuflessa e pregante; quel non so che di misterioso, che viene dai recessi dell’imminente bosco; tutta la campagna letificata dai raggi del bel sole di maggio (…). Gli occhi degli astanti son fissi lì, dove il miracolo dee compiersi e gli spiriti mali – obbedendo al comando ineluttabile del Santo, debbono lasciare la loro preda. Il più gran silenzio vi regna e non si ode – oltre allo stormire dei rami degli abeti – se non la voce monotona e cadenzata dell’esorcizzatore ed il dimenarsi furioso degli ossessi. L’operazione è lunga e faticosa, e più di una volta – prima che essa si compia – il fremito potente della folla si fa sentire; e a seconda che gli ossessi portati dal loro furore, dicono e fanno, urli di compassione, di minaccia ed anche di scherno echeggiano per tutta la contrada (…). Certe volte, però, il battagliare è lungo e difficile, e la persona che esorcizza dee sapere bene il fatto suo ed essere d’una vita intemerata; se no quegli spiritacci lì – prima di sloggiare – sarebbero capaci di farne delle belle. Bisogna fare in modo che essi vadano via chetamente, senza offendere le creature che ne sono invasate: se non si sta più che attenti ad esorcizzarli a modo e verso, essi, i tristi, quando si veggon costretti ad uscire dalle persone delle loro vittime, potrebbero portar via ai disgraziati un occhio, un orecchio, una gamba… e lasciarli mutilati per sempre. Non potendo altro, vinti dal dispetto, fanno noto il loro scomparire col far saltare in aria, dal corpo degli ossessi, una scarpa, una calza od altra cosa simile. La rabbia li rende anche linguacciuti o mordaci, e se l’esorcizzatore in vita sua non ha sempre rigato dritto, avrà a passare di brutti quarti di ora. Gli spiriti – parlando per bocca degl’indemoniati – gli snocciolano lì sul muso, coram populo, vita e miracoli, senza una discrezione al mondo. (…) Andati via gli spiriti e gl’indemoniati – tornati uomini e padroni di sé stessi – restano un po’ come trasognati. Poi piangendo si gittano ai piedi del Santo e pregano e lo ringraziano del gran miracolo, e tutti piangono e pregano devotamente con essi. Ognuno ritorna a casa, esaltato nel concetto del potere immenso del Patrono di Serra S. Bruno sui demonii crudeli”.
Se, a questo punto, si allarga lo sguardo spingendolo più in là degli orizzonti locali ci si accorge che svanisce la “regionalità” calabrese del fenomeno. Sia la credenza – riportata nell’articolo di Agostino – che gli spiriti si impossesserebbero soprattutto di chi dovesse trovarsi a passare per quei luoghi in cui vagano, errabonde, le anime dei morti non pacificati, sia il concomitante collegamento del rito di guarigione con la festività di Pentecoste, ci aiutano a collocare il fenomeno dentro una più vasta area europea. La Pentecoste rappresenta, infatti, in molte culture eurasiatiche una festa funebre nella quale riappaiono figure considerate vicarie del mondo dei morti. Secondo il racconto di Carlo Ginzburg, icalusari rumeni vagavano di notte, durante la Pentecoste, provvisti di aglio e assenzio, per difendersi dalle rusalii, mitici esseri femminili che corrispondevano alle anime dei morti. Nella Serbia orientale, a Duboka, in occasione dei fenomeni di trances pentecostali, di cui sono protagoniste ancora le rusalii, vengono richiamate le anime dei morti, mediante l’offerta di doni o l’esecuzione di musiche che si ritiene siano da loro gradite. Nel Friuli i benandanti si recano “in spirito” la notte di ogni Giovedì delle quattro tempora (e quindi anche a Pentecoste) per combattere la loro battaglia, armati di mazze di finocchio, contro streghe e stregoni armati di mazze di sorgo. Infine, in base al racconto di un lupo mannaro livone – citato da Ginzburg – i licantropi, la notte di Pentecoste, andrebbero a piedi all’inferno per combattere col diavolo e strappargli i frutti della terra e il bestiame di cui si è impossessato. Da questo punto di vista, la vicenda degli spirdàti calabresi sembra essere un tassello di una costellazione molto ampia di figure inquiete, che “parla” del ritorno minaccioso dei morti sulla terra e delle “tecniche” che gli uomini mettono in opera per difendersi dall’irruzione del male. Il culto di San Bruno di Colonia in Calabria ha, tra l’altro, assolto anche alla funzione di rendere controllabile l’apparire di questi revenants, ponendo sotto la tutela della santità protettrice popolazioni, quali quelle calabresi, storicamente costrette a fare i conti con le continue minacce alle loro sicurezze.
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19 Maggio 2024