In questo strano inverno, con un febbraio caldo, quasi fosse un periodo tardo primaverile, lascio Nardodipace, lungo la strada che porta a Caulonia, per il mio viaggio lungo l’Allaro e la sua storia .
Allaro, un nome dall’etimologia incerta, ma la leggenda dice che potrebbe essere legato al nome dell’Eremo, oppure al nome di un condottiero italiota, un certo Elleporus, morto nel 388 o 389 a C., in battaglia, forse, sulle sponde di questo fiume.
In vista di Caulonia mi fermo per una breve sosta, qualche attimo, per ammirare la città dall’alto e, via.
Pochi minuti e sono sulla via principale del paese; mi guardo intorno e vedo ancora i segni di un passato ricco di storia: stemmi nobiliari, palazzi, chiese, ma è nella Chiesa Matrice che trovo tracce della storia più interessante di questo grazioso paesino medievale. La tomba, oggi monumento funerario dove è sepolto Giacomo Caraffa, sin dal 1483.
Mi prometto di ritornare.
Lascio la piazza davanti alla chiesa e, scendo lungo i vicoli dell’antica Castelvetere, perché è così che si chiamava l’odierna Caulonia sin al 1863, anno in cui venne cambiato nome.
Poco dopo mi muovo lungo i suoi viali stretti e tortuosi, quasi fossero lettere dell’alfabeto greco, scendo e mi trovo davanti ad una chiesa il cui accesso alla piazzetta mi è impedito da una enorme cancellata in ferro battuto.
Lo spettacolo che mi si para d’innanzi è a dir poco straordinario.
Rimango estasiato; mi avvicino ancora di più; le sbarre di ferro in verticale del cancello m’impediscono di andare avanti, mi fermo, involontariamente reclino leggermente la testa, con una lieve inclinazione in avanti ed un po’ a sinistra; il raggio di sole che scalda con un tepore quasi primaverile, la mia guancia sinistra e la mia nuca, è complice di un maggiore intontimento, se non addirittura di un rapimento dell’anima.
-Peccato!-
E’ l’unica cosa che riesco a dire; o meglio, ad esclamare.
Il mio cervello, avvolto come da una strana sensazione di pacatezza, riesce a far dire a me stesso: “Avrei visitato volentieri l’interno della chiesa ed osservato meglio la sua facciata neoclassica baroccheggiante e stilisticamente armoniosa”. Ma, come ridente per quel caldo raggio di sole che la illumina, vedo, nella parete concava della nicchia laterale destra, quello che rimane di un dipinto di un angelo con il suo indice destro elevato al cielo (senza il Timèo), secondo la rappresentazione raffelliana del concetto platonico di Dio. Sono ammirato, estasiato, dolcemente confuso, da quel che rimane di quella pittura murale, per il suo significato su e in quel contesto storico. Così, dopo qualche minuto, lascio alle spalle la chiesa e nella direzione diagonalmente opposta, mi trovo di fronte ad un palazzo nobiliare di fine settecento, con delle rappresentazioni in rilievo di un satiro danzante, con la sua eterna uva e la sua perenne faccia infantilesca: un po’ inebetita un po’ sorniona, sulla facciata principale; espressione di visione illuminista ed illuminata. E, sull’altra parete, quella che si orienta a sud-est, invece, sempre in rilievo, un saraceno con degli enormi baffi ed una lancia, a testimonianza di un passato ricco di storia e saturo di implicazioni umane; mentre, con il suo sguardo pensieroso, il saraceno, volgendosi al mare ed al suo Oriente, sembra richiamare alla sua mente affetti tensioni e passioni di un territorio lontano, che con i suoi profumi, le sue spezie ed i suoi harem, potranno rivivere in un flash, visioni immaginarie di momenti vissuti.
Mi immetto di nuovo sulla provinciale che porta al fiume, dalla quale osservo delle strane, ma belle conformazioni geologiche a forma di pinnacoli o di enormi seni, i quali, visti dall’alto, sembrano danzare come una ballerina spagnola.
Dopo una breve escursione sulla cima dei pinnacoli, riprendo il mio viaggio lungo la strada che costeggia il fiume e porta all’Eremo di San Ilarione. Circa un chilometro dopo le suggestive conformazioni geologiche, il paesaggio comincia a cambiare.
Mi fermo, scendo dalla macchina per qualche ripresa, ma il silenzio, il cielo azzurro vivo ed i colori riflessi nelle acque dell’Allaro, mi fanno venire in mente le parole di Strabòne, degli altri classici e della tradizione, i quali identificano, in questo fiume, le sponde del vecchio Sagra, antico nome di un fiume che divideva il confine tra le città stato di Locri e Crotone. Rive, sulle quali, nel 560 a.C., 15 mila locresi avrebbero sconfitto 130 mila crotoniati, causando l’inizio della fine della città di Pitagora.
La leggenda, estrapolando dalla palude nebbiosa della memoria le sue “verità,” dice che l’esercito crotoniate sarebbe stato raggiunto e finito dove iniziano le colline, luogo sul quale poi sarebbe sorto un altare votivo dedicato a Castore e Polluce: i dioscuri tebani, venuti in soccorso dei locresi.
Ma, lascio la storia e forse le sue fantasie e le sue leggende, mi rimetto in macchina, ed in poco meno di dieci minuti arrivo all’Eremo. Situato su uno sperone di roccia sulla sinistra del letto del fiume, immerso nelle voci del silenzio e nel suono dolce dello scorrere delle acque, lo vedo osservare, dall’alto della sua millenaria esistenza, come un vecchio seduto davanti all’uscio di casa, col mento poggiato sul bastone ricurvo, guarda il bambino giocare; così, egli scruta l’adagio a volte scorrere delle acque ed il lento passare del tempo e della storia.
La bellezza del luogo, il rumore dell’acqua in sottofondo e l’aria di spiritualità da cui sono avvolto, mi fanno ripiombare di nuovo nella leggenda. E cosi, tra me e me, mi domando. E se avessero ragione gli antichi? Se questo fiume fosse il vecchio Sagra? L’ Eremo, per quello che sappiamo, identificato come di sicura matrice bizantina in periodo normanno, dalla sua architettura, potrebbe (idealmente) anche poggiarsi, forse, sui resti di quel luogo di culto “costruito” nel sesto secolo a.C.
Storia che si unisce alla leggenda o viceversa, fino a divenire tradizione epica per un territorio. Un popolo si alimenta anche di questo, tenendo viva così la sua memoria .
Ma a noi, l’Eremo, interessa per la sua verità storica e per i legami che ha avuto nel corso dei secoli con il fiume e le popolazioni locali, sia a sud che a nord dello stesso Romitorio. Il rapporto dei monaci e dell’Eremo con il fiume e le sue popolazioni a nord, sembra essere provato anche da due grotte di tipo eremitico dopo le gole, sotto Nardodipace.
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