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Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

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Cantine e cantinieri: nù quartu di vinu e nà gazosa

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Con questa richiesta, diciamo “standard” nù quartu e nà gazosa, l’avventore si rivolgeva al cantiniere per ottenere il suo quotidiano quarto di vino mischiato alla gassosa, all’epoca prodotta dalla rinomata azienda Gino Giancotti di Serra San Bruno.
Per capire nella sua interezza questo scritto, bisogna ovviamente immergersi nella Serra degli anni 60’ e 70’ ma anche prima, quando le possibilità economiche delle famiglie erano molto precarie e drammatiche. Tuttavia per non rischiare di uscire fuori seminato parlando delle condizioni storico-sociali di quegli anni – se non altro per la complessità e lungaggine dell’argomento - incentreremo la nostra analisi soltanto sul tema che ci siamo proposti di sviluppare attraverso le fonti a dispozione quali la conoscenza diretta e le testimonianze di coloro che hanno più memoria di noi, se non altro, per l’età avanzata.
La nostra cittadina era disseminata di queste cantine, soprattutto nel quartiere Terravecchia rispetto a quello di Spinetto. Ma che cosa rappresentavano questi esercizi singolari? Per dare un’idea ben precisa, si pensi ai moderni Wine Bar, dove si beve vino di qualità come il Barolo o Brunello di Montalcino accompagnati da prelibati stuzzichini, mentre nelle cantine si beveva vino di “bacchetta” con gassosa e semplici stuzzichini. I Wine Bar moderni sono come gli alberghi a 5 stelle, le cantine erano ad una sola stella. Tra gli uni e le altre oltre ad una differenza quantitativa in danaro posseduta dai clienti, vi è un denominatore comune che è quello che agli avventori piaceva e piace il sangue di Bacco.
All’epoca quasi nessuno si faceva il vino in casa e nei piccoli alimentari non si trovava ne si comprava il vino imbottigliato, addirittura disprezzato dagli assidui bevitori che si ritenevano, a torto, degli intenditori. Alle cantine facevano concorrenza le c.d. “Compagnie”- gruppi di amici e parenti di estrazione diversa dai frequentatori delle prime- che si riunivano in case, casolari e circoli privati per giocare a carte e bere succo d’uva. Ma andiamo ad analizzare meglio” la funzione sociale” che avevano le cantine sociali.
Di esse ne so qualcosa per conoscenza diretta. Abitavo a dieci metri dalla cantina di Michele Panucci ( lu Cacamichieli) e potevo annotare quotidianamente le caratteristiche del singolare mondo di questi esercizi speciali. Mi ricordo che Michieli quando i suoi clienti esageravano con le parole o con i gesti, li prendeva da un braccio e “gentilmente” li portava fuori. Nella prima stanza c’erano i tavoli per sedersi e quando entravo sentivo un tanfo misto di fumo di sigaretta e di stufa a legna e vino, mentre nel retrobottega c’erano le grandi botti di diverse dimensioni. Mio nonno mi mandava verso l’ora di pranzo ad acquistare un litro di vino. Non c’era nessuno. Seguivo il proprietario ( o sua moglie Sara o qualche suo figlio) nella seconda stanza. Lui si abbassava e gli aumentava il fiatone a causa del lavoro in miniera che aveva fatto in America. Mi ricordo pure il dolce sgorgare del vino che si riversava dalla margherita della botte nella bottiglia causando una schiuma biancastra che man mano spariva; spesso le mogli, quando il marito ritardava il ritorno serale, le pescavo mentre spiavano dalla finestra della cantina senza essere viste e non si permettevano quasi mai ad irrompere o interrompere la permanenza dei mariti mentre giocavano a carte e a padrone e sotto. Le più temerarie li facevano chiamare da qualcuno che entrava ma sempre con circospezione e riservatezza. Qualche volta i mariti uscivano e le mogli con le buone li prendevano a braccetto sia per “affetto” e sia per camuffare l’evidente barcollamento che la gente poteva notare.
Mi ricordo come se fosse oggi che“Franciscu Pantiedu” all’imbrunire scendeva con 7-8 cani. Lui entrava e rimaneva dentro fino a verso le 22.00. I suoi cani fedelmente l’aspettavano fuori la porta della cantina e tutti noi dovevamo cambiare strada per evitare fastidi, poi quando lui usciva i quadrupedi lo riaccompagnavano o meglio lo guidavano verso la sua abitazione nelle campagne di Guozi nel caso non si rammentasse più la via del ritorno…!
L’altra sera, volli ripercorrere, per usare una elegante metafora “la via del vino” che ormai non esiste più come tante altre cose, così passai avanti alle antiche e nuove cantine.
Iniziai da Corso Umberto I° dove c’era la cantina di Vellone lu Sapenti ( di fronte a Pieppuseda), poi passai alla cantina di Cacamichieli poi a quella di lu Dragu ( dove attualmente abita ‘ncetta Condoleo) e poi passai a quella di Albanese e di Michelino Borello “lu Sapenti”. Continuando ho incontrato la cantina di Elena Tassone la “Petrazza”, poi alla via Sette Dolori quella di Padeda ( Barillari), di Mastro Custuoddo Marino ( padre del prof. Orazio Marino), poi quella di Bruno lu Previti e di Zeno di Marianna, poi ancora a Piazza Scaramozzino la cantina delle signorine Barillari. Continuando il mio percorso incontrai la cantina di Luigino di Rizza ( Pupo) all’angolo di via Roma. Di fronte l’abitazione attuale del. Sig. Bava Francesco c’era una cantina appartenuta a gente di fuori ( dove alla fine degli anni 50’ si consumò un delitto nei confronti di una minorenne). Sempre a via Roma incontrai la cantina di Vigilante ( Marino Giuseppe), poi quella di Rosanna ( Zaffino). Più sopra quella della Diavuleda ( Vavalà-Amato) e alla via Cavour passai davanti quella di lu Bazanu ( Ariganello). Tornando a Corso Umberto vidi quella cantina ubicata dove c’era l’Albergo Centrale ( attuale sala giochi Vallelonga), appartenuta al nonno materno ( Milione ) di Vito Clemente ( Melangiana).
Attraversando il ponte sull’Ancinale eccoci giunto al rione Spinetto. Qui a via Silvio Pellico incontrai le cantine della Pacicca e di Ciccio Loiacono, tornando indietro, e andando verso la via Pisacane mi imbattei nelle cantine di Piruollo, lu tiestu ( Salvatore Regio, padre del compianto don Vincenzino), poi in quella del
Ballerino.
Dopo la chiesa di Spinetto, sul corso Umberto I° quella di De Stefano. E poi ancora quella di Purciedu e dietro lu Palumbo quella di lu Cuottu. Camminando più avanti vidi le ultime due cantine di Zaccagnino (Callà) e quella di Manicu vicino il Calvario.
In conclusione le cantine sono interessanti da studiare dal punto di vista antropologico e folcoristisco perché rappresentarono un fenomeno sociale non indifferente ( disseminate comunque per tutto lo stivale) soprattutto perché fecero parte della nostra storia locale, ma certo, verso di esse, non si può dare un giudizio positivo. L’alcol provocò e provoca disgrazie e dispiaceri allora ed ancora oggi fra i giovani. Il progresso e la cultura poco hanno inciso su questo fenomeno negativo.
Anche da noi causò litigi finiti male alla fine degli anni 50’ ed inizio degli anni 60’, quando in questo ambiente, a pistolettate, rimase vittima un’innocente adolescente e successivamente rimase vittima un altro giovane insieme a dei feriti, ma che in questa sede è inopportuno raccontare i fatti nei dettagli per rispetto nei confronti degli eredi di essi ancora viventi…
In conclusione la cantina rappresentò per un lungo periodo, un centro di aggregazione sociale dove il bacino d’utenza era costituito da artigiani, operai, carbonai, contadini, bovari ma anche da qualche insegnante o professionista che la frequentavano con riservatezza, insomma da quella fascia tipica di soggetti che allora costituivano il variegato tessuto sociale del proletariato dei nostri paesotti.
I clienti quasi sempre di sera, stanchi dopo il lavoro giornaliero tra un bicchiere ed un altro, accompagnato da lupini, arachidi, olive e sarde salate ( per aumentare la sete e bere di più…), non instauravano ovviamente fra di loro discettazioni di tipo culturale, ma scambi di pettegolezzi e notizie riservate, recitate e confidate nei fumi dell’alcol contro i politici, preti, benestanti del paese e donne illibate o meno, contornate da bestemmie, parolacce, tosse da fumo, sputi successivi e svuotamento di vesciche e vomito nelle vie adiacenti.
Gli assidui avventori frequentevano le cantine dopo una lunga giornata di lavoro per distrarsi dalla dura vita quotidiana, i vagabondi li frequentavano per vizio e dipendenza dall’alcol, gli altri per divertimento o imitazione o per sfuggire ai problemi esistenziali che sempre hanno investito la vita dell’Uomo.
Adesso le cantine e i cantinieri non ci sono più. Il loro mondo si è dissolto piano piano con l’avanzare selvaggio del progresso e della tecnologia che hanno travolto usi e costumi intaccando in maniera irreversibile lo spirito e la spiritualità dell’essere umano.

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