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Rivista Santa Maria del Bosco - Serra San Bruno e dintorni

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Li sirinati di na vota | L'urtimi sonaturi di la Serra.

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Conversazione con Nzino Scrivo, Domenico Calabretta e Bruno "Tarcelli", reduci di un mondo perduto…
Li sirinati di na vota di Serra San Bruno
Tutti i fatti, le storielle e gli aneddoti che vengono raccontati, per capirli nella loro interezza umana, bisogna pensarli nel contesto sociale e temporale nel quale si consumarono, altrimenti, giudicarli con la mentalità di oggi, si rischia di smarrire la strada per poterli apprezzare nella loro giusta sostanza. Stiamo parlando di nostri paesani che vissero il ventennio tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni sessanta, in una Serra ancora povera e falcidiata dalla presenza perniciosa dell’emigrazione. In questi anni, mentre alcuni giovani man mano partivano in cerca di lavoro, altri si adoperavano ad imparare qualche mestiere ma anche ad imparare a suonare qualche strumento musicale, e poi costituire bande, gruppi e “sunaturi di sirinati” con esecuzioni di valzer, tanghi e canzoni popolari. Su quest’ultimi viene incentrata la nostra attenzione e curiosità. Quando un mondo sparisce, noi contemporanei abbiamo il dovere di recuperarlo tenendo saldi la memoria e le radici che ci legano al nostro territorio. Ecco perché questo scritto, sia pure breve, viene dedicato ai “serenatisti” viventi e a quelli che non ci sono più, perché essi insieme allietarono con la musica disagi e povertà di tante famiglie nelle notti d’estate e nelle lunghe e silenziose notti d’inverno. Siamo perciò andati a parlare con gli ultimi reduci dei suonatori, attingendo quindi a fonti di prima mano e di vita vissuta. Ci dice Nzino Scrivo classe 1932, che quando aveva sedici anni cominciò ad imparare la chitarra per poi passare alla fisarmonica prendendo lezioni dal noto Ciro Amato che è stato suo mentore e che conosceva la musica. Si ricorda di avere suonato le serenate con Totò De Blasio ( violino ) e Gino Vellone ( lu bidellu ) ed altri. Di solito venivano chiamati da amici e conoscenti per esibirsi sotto la casa dell’innamorata. La reazione di lei o dei familiari era di rispetto e spesso venivano invitati ad entrare per bere il “millefiori”, un liquore posseduto da quasi tutte le famiglie. Si ricorda pure che una notte, mentre il gruppo si stava ritirando verso le rispettive case, Beniamino Regio ( fratello di don Vincenzino ) li invitò a seguirlo verso Spinetto per suonare in onore di Domenico Muzzì ( “Massaru Brunu “) che da poco era ritornato temporaneamente dagli Stati Uniti a Serra. Il Muzzì emozionato per quella calorosa accoglienza, scese nella strada, tolse dal portofoglio un mazzo di dollari e regalò 10 dollari a ciascuno dei suonatori! Il giorno seguente Nzino si comprò un paio di scarpe nuove da “Occhi Celesti”, rinomato negozio di Corso Umberto. Già da questo episodio si evince la differenza tra un’emigrazione consolidata di benessere da una parte e la povertà estrema dall’altra, di chi scelse di rimanere, anche se temporaneamente, nel proprio paese natio. Ci racconta Domenico Calabretta ( Micuzzu lu Cutrunisi, fratello del nostro parroco don Leonardo ) classe 1933 - ogni anno ritorna da Torino nel periodo estivo - che lui suonava il clarinetto andando a lezione da “ Ciccio di Donna Annina” ( padre di Ciro Amato ); del suo gruppo fece parte un certo “Ciccio di Ballata” che suonava la chitarra e Bruno Tarcelli che suonava la fisarmonica. Dopo le serenate, spesso venivano invitati ad entrare nella casa della ragazza; non davano soldi ma offrivano bevande, biscotti, caramelle, soppressate, formaggio e vino. Ricorda che a Spinetto, mentre erano stati chiamati a suonare ad una festa non si erano accorti che ad una casa adiacente stavano vegliando un morto! Alle prime note, i parenti di quest’ultimo li mandarono via malamente. Solo dopo capirono che tra le due famiglie vi era una palese inimicizia. Ci narra Mastru Brunu Tarcelli ( Barillari ), classe 1940, ultimo artista del legno che non si è mai trasferito da Serra, dove invece ha sfruttato al massimo le sue capacità di artigiano, il suo estro e la sua fantasia - tutti provenienti dalla solida tradizione dell’alto lignaggio artistico serrese - che prima di partire per il servizio militare, insieme agli due già menzionati, a Peppe Manno ( detto Mudiestu che suonava la chitarra ) e Vincenzino Caruso ( fratello di Tito e di Pino ), uscivano per suonare le serenate. Anche lui imparò la musica con il già citato Ciro Amato e poi con Alberto Petragnani. Allora il corteggiamento consisteva nell’osservazione a distanza con il muto linguaggio degli occhi. Infatti si andava alla “Missa urtima” della domenica in gloria del Signore ma anche a guardare la probabile fidanzata che a sua volta rispondeva, non sempre, con un sguardo furtivo ed ammiccante, foriero della volontà della giovane ragazza. Ciò significava che la serenata si poteva fare con buone probabilità di riuscita. Infatti quando sopraggiungeva la notte e durante l’esecuzione musicale, se lei accendeva la luce l’esito era positivo ma il consenso rimaneva sospeso quando la predestinata dormiva con i genitori o con le sorelle, perché non poteva comunicare le sue reali intenzioni. In questo caso il risultato del corteggiamento si doveva rimandare “ a data da destinarsi!”. Aggiunge il nostro che tre sonate venivano fatte per amore; due sonate per amicizia e una sonata e cantata corrispondevano ai “canti di sdiegnu”. Ricorda infine che una sera stavano suonando verso la via Sette Dolori di Terravecchia con Michelino Lu Bidellu ( Vellone ) sotto la casa del maestro Pelaia, quando improvvisamente da un balcone spuntò lui ( Luzzetto Pelaia, “Pistuni” ) con il pigiama e con la sua solita eloquenza li invitò a suonare ad una casa poco più a monte e a cantare la canzone “ I Papaveri “ ( alla Via San Lorenzo ). Dopo un minuto che ebbero intonato “ …lo sai che i papaveri sono alti alti alti e tu sei PICCOLINA…”, un secchio di urina li investì in pieno bagnando vestiti, strumenti e scarpe! anche il maestro Luzzetto fu colpito, pur essendo consapevole, lui estroso e burlone, di avere coinvolto in un pasticcio gli ignari suonatori, che ingenuamente avevano cantato sotto il balcone della “Sette misi “ ( mamma del compianto Fernando ) dove dalla parte della madre erano di statura molto bassa! E’ venuto il momento di concludere questa breve ma piacevole conversazione con i nostri protagonisti. Per motivi di spazio dobbiamo troncare la interessante tematica trattata ma prima o poi la riprenderemo affinchè la memoria vinca l’eterna lotta con l’oblio. Oggi di alcuni di questi suonatori non rimane niente, dispersi nei meandri della vita o morti in terre lontane rispetto al paese di origine. Tuttavia noi abbiamo il dovere di ricordarli non solo con i loro nomi ed “ingiurie” ma anche attraverso le vecchie immagini recuperate. Dietro e dentro ogni foto si celano usi e costumi, pianti e sorrisi intrisi dai colori del tempo che consegnano le persone all’eternità.

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