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La Certosa e i miei Certosini | Intrecci tra passato e presente dell’antico convento di Serra

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La certosa e i miei Certosini
Ero chierichetto nella seconda metà degli anni 50, alunno di scuola elementare con il Maestro Franco De Paola, quando in compagnia di altri coetanei frequentavo settimanalmente la Certosa. L’occasione per lo più era la confessione con un monaco, che a quei tempi poteva essere Padre Salvatore, mio preferito, Padre Bruno o Padre Norberto. Partivamo a piedi da Terravecchia, per noi bambini appariva come una lunga e ricreativa passeggiata; a volte facevamo il giro delle mura esterne del convento, raramente ci spingevamo fino a S. Maria, addentrandoci nel bosco fino a lu guttazzu. In realtà, ciò che attirava di più noi bambini era la cordialità di Fra Benedetto, tedesco, apparentemente burbero portinaio, che non mancava mai di offrirci una merenda con pane e formaggio e squisite ciliegie di piante secolari lungo il viale interno (che non ci sono più da molti anni). Vi era pure un altro frate, aiutante portinaio, di cui non ricordo il nome, vestito con abito marrone e con handicap verbale e motorio. In seguito arrivò Fra Paolo, ex calciatore di una squadra portoghese, anche egli molto cordiale con tutti, aiutato e sostituito a lungo dall’amichevole Cosimo, laico serrese, figlio dell’indimenticabile mastru Mudiestu.
Erano tempi in cui il rapporto della popolazione con i Certosini era più assiduo e anche più aperto e confidenziale: pur essendo una comunità di clausura, agli uomini era concesso di assistere ogni domenica alla messa comunitaria nella chiesa interna, privilegio che fu sospeso mi pare negli anni 90; le donne potevano solo assistere alla messa domenicale nella chiesetta esterna; alcuni operai del paese attendevano ai lavori all’interno (coltivazioni, allevamento di galline e mucche, produzione di uova e formaggio, manutenzioni varie; ricordo, tra gli altri, il piccolo energico mitico factotum Cuasmu); Fra Benedetto in portineria si occupava della prenotazione delle messe, della vendita di uova (fresche o conservate nella calce!) e, secondo disponibilità o prenotazione, di formaggio; in orario stabilito, al mattino e al pomeriggio, c’era la possibilità, solo per gli uomini, di effettuare una visita nella Certosa, accompagnati da un monaco; alcuni uomini, non solo preti, erano ammessi a trascorrere dei giorni all’interno della comunità, svolgendo esattamente le stesse pratiche dei monaci, a mo’ di esercizio spirituale. A tal proposito, ricordo l’esperienza di mio padre negli anni 60 e la mia nel Gennaio del 1970, all’età di 20 anni, all’inizio del mio percorso universitario, con l’assistenza accurata di Padre Salvatore. Conservo ancora il diario di quei giorni, con le meditazioni del monaco e le mie riflessioni.
Per molti anni io, come tantissimi altri, ci sentivamo “di casa” nella Certosa, il cui ambiente silenzioso e misterioso emanava un fascino particolare. Quando ero adolescente e giovane seminarista riuscivo, come altri, anche ad accedere alla casetta di alcuni monaci; talvolta era possibile chiedere un incontro con il Priore, qualcuno poteva usufruire della preziosa biblioteca.
L’uscita dei monaci al lunedì, per un passeggio attraverso i boschi che durava quasi un’intera giornata, quando passavano a gruppi per il paese, era sempre un’occasione per tutti, in questo caso anche per le donne, di scambiare cordialmente qualche parola con persone la cui caratteristica principale era il silenzio. Le altre occasioni di vedere tutti i monaci erano le festività di S. Bruno in Ottobre o al Lunedì di Pentecoste, allorché essi si presentavano davanti al portone per consegnare il sacro busto argenteo del Santo ai fedeli in festante attesa.
Per il resto, la Certosa rimaneva nella nostra mente come un luogo in cui persone adulte di varia origine e condizione professionale, anche straniere, si erano rifugiate, per una scelta estrema di vivere in solitudine, fare penitenza e dedicarsi alla contemplazione. Infatti, la parola “monaco” deriva dal greco “monos”, solo, solitario. In particolare, il loro ritrovarsi in chiesa di notte aveva il significato di vegliare in preghiera, mentre il mondo di fuori riposava o, magari, si dedicava ad atti malvagi. Non era raro udire anche dal paese il rintocco notturno della campana. Una comunità di solitari, dunque, che si riuniscono più volte di giorno e di notte, in stretto silenzio, per pregare insieme in canto gregoriano.
Questo è il ricordo e l’idea della Certosa che per anni ho conservato in me.
Con il tempo diverse cose sono cambiate, nella Certosa e nel mondo di fuori. Per alcuni anni è stato avviato il noviziato, allo scopo di promuovere nuove vocazioni e, nell’occasione, l’accesso per le visite è stato sospeso, come avviene in qualsiasi luogo di clausura. All’esterno del convento sappiamo bene come è cambiato il nostro mondo, specialmente negli ultimi trenta anni.
Fu negli anni 90 che due certosini, Padre Cristiano e Padre Elia, che si dimostravano piuttosto dinamici in confronto agli altri monaci, cominciavano a fruire di maggiore libertà nella chiesa esterna, offrendo la loro disponibilità di dialogo verso fedeli particolarmente bisognosi di aiuto spirituale. Io stesso fui un assiduo beneficiario delle loro incisive parole in un periodo tormentato della mia vita. Ricordo di aver ricevuto da Padre Cristiano, oltre a delle raccomandazioni di comportamento, anche una bottiglietta di acqua e sale, benedetta, che avrei dovuto utilizzare in un certo modo. Per la verità, questo gesto mi lasciò un po’ perplesso e non sono sicuro di aver eseguito il consiglio. Di Padre Elia ricordo la grande vitalità, espressa anche da un accattivante sorriso: era piacevole colloquiare con lui, che riusciva a trasmettere parole di spiritualità “monacale” insieme a consigli sulle problematiche della vita personale e sociale; si dimostrava contento di poter avere relazioni spirituali epistolari anche con persone lontane.
Questo periodo di grande apertura verso l’esterno e di relazioni spirituali con sempre più numerosi fedeli, cosa non concessa in precedenza per la natura stessa della vocazione monastica, deve aver indotto in entrambi l’idea di un progetto alternativo di religiosità, da realizzare compiutamente fuori della Certosa. Fu così che Padre Cristiano si trovò a emigrare da Serra verso il crotonese, entrando a far parte del clero diocesano e prendendo in gestione una chiesetta abbandonata, in una zona isolata, dove accoglieva con grande prodigalità tanti seguaci, che venivano anche da lontano, attratti da un indiscusso carisma. La sua figura piccola e semplice riusciva a trascinare una innumerevole folla verso una spiritualità nuova. Naturalmente la sua parola era accompagnata da acqua e sale benedetta. Anche lì lo raggiunsi più volte nell’anno in cui lavorai all’ospedale di Crotone (1994) e ho verificato quanto era diffusa la sua notorietà.
Successivamente percorse altre strade nel cosentino, poi si ammalò e finì i suoi giorni alla Villa della Fraternità di Sant’Andrea Ionio (2013), dove andai a trovarlo più di una volta e gli parlai sinceramente, nonostante che lui fosse o sembrasse privo di coscienza.
Una scelta, apparentemente simile, la fece Padre Elia, lasciando la Comunità Certosina di Serra e andando a vivere da eremita nei pressi di Soreto di Dinami (VV), dove c’era una chiesa anch’essa poco praticata, intitolata “Eremo dei Santi Francesco” (intendendo quello di Assisi e di Paola). L’uscita dalla Certosa non fu un abbandono dell’Ordine, bensì un “permesso di esclaustrazione”, ottenuto dal Padre Generale e che richiedeva un rinnovo ogni due anni. La sua vita eremitica, aperta anche al dialogo e al conforto verso quanti gli si avvicinavano, durò ben 22 anni. Per sei anni (2000-2006) il Vescovo di allora gli diede l’incarico di “amministrare” temporaneamente la parrocchia di Monsoreto, coadiuvato da tre suore del luogo. La missione, che svolse con grande impegno, pur dimorando nell’Eremo, terminò con l’arrivo del nuovo parroco.
Anch’io andai a trovarlo a Soreto, restando pure a pranzo e ascoltando i suoi suggerimenti rispetto alle mie esigenze e problemi, di cui era già al corrente. Dopo il mio trasferimento all’ospedale di Acquapendente (VT) non mi capitò più di avvicinarlo, ma l’anno scorso, con mia piacevole sorpresa, l’ho ritrovato, un po’ invecchiato e acciaccato, ma sempre fermo nello spirito, ospite nella Villa della Fraternità di Sant’Andrea Ionio. Quando lo incontro mi accoglie piacevolmente, anche se quasi ogni volta gli devo ricordare chi sono… Ho l’impressione, da lui confermata, che il distacco da Soreto l’abbia colto di sorpresa, immaginando di poter concludere lì la sua vita o, forse, ha dovuto abbandonare l’eremo, con suo profondo rammarico.
Entrambi questi monaci hanno ritenuto, nel loro allontanamento volontario dalla Comunità, di non aver abbandonato l’Ordine Certosino, sentendosi ancora aderenti alla vocazione di S. Bruno. Vi sono stati, nondimeno, altri casi di Certosini che hanno abbandonato l’Ordine, divenendo, però, religiosi o preti normali. Ognuno di noi può considerare questo fatto inconsueto secondo propri convincimenti. Certamente, la scelta personale di esercitare la missione religiosa all’esterno non corrisponde obiettivamente alla stretta regola dell’Ordine Certosino cui avevano liberamente aderito, ma nessuno nel mondo di oggi oserebbe negare che un monaco possa trasmettere all’animo umano bisognoso una parola, nata e meditata nel silenzio e nella contemplazione più spinti di un Eremo amato, come la nostra Certosa o anche Soreto.

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