La memoria collettiva di un paese, nasce da eventi che hanno la forza di coinvolgere, dare forma organizzata e durata temporale ai ricordi di una realtà documentabile
Nella rivista Santa Maria del Bosco possiamo leggere storie e fatti relativi a personaggi scomparsi che un tempo sono stati protagonisti nella realtà locale e ora lo sono di una memoria che insiste a farsi collettiva.
La rivista sta assumendo il ruolo tipico di uno strumento che svolge un’ operazione basata sulla memoria, sull’ evocazione del passato o quanto meno tenta di risvegliarlo forse per quella paura inconscia di perderlo per sempre seppellito dall’ oblio delle nuove generazioni.
Comunque sia bisogna sottrarsi all’ idea che quella che per noi fu un tempo la “terra dei vivi ” non debba essere considerata solamente come la “terra dei morti” per tutti quelli che oggi non ci sono più.
Questa nostalgia del Paese e del suo vissuto che emerge tra le righe di ogni articolo, con uno sguardo al passato, indica in effetti che ce ne siamo enormemente allontanati.
Mi sembra cosa molto positiva che la rivista voglia destare il sentimento di identità, tra storia locale e memoria generazionale.
Rivisitare il passato può apparire desueto ma bisogna tener conto che tutto quanto si racconta si rievoca e ha un rilievo nella memoria, fa parte del vissuto collettivo fatto di molte cose dalla Chiesa, centro della vita comunitaria, alla Piazza con il monumento ai caduti, al Bar, ecc. ecc.
Il luogo per noi più carico di risonanza e di rappresentatività, rispetto all’ insieme della nostra storia e delle nostre storie, implica necessariamente una localizzazione materiale: La Certosa, Santa Maria, San Bruno, Spinetto, Terravecchia, l’ Ancinale, la Montagna ecc. ecc.
Sono questi i luoghi della nostra memoria con il Santo di Colonia protagonista della “localizzazione territoriale” e della sua evocazione del presente nella memoria collettiva dei serresi e della Certosa, dove tutti i suoi abitanti ritrovano la loro identità storica con la figura di San Bruno eroe fondatore.
Ma il paese nel tempo cambia e si trasforma, passato e presente si mescolano e nuovi attori partecipano al vissuto collettivo.
Ci fu un tempo in cui noi pensammo di essere immortali e che quanto si fissava nei nostri occhi rimaneva indelebile anche nelle nostre coscienze e la nostra giovinezza coincideva con l’ eternità.
Oggi ci troviamo a sfogliare il paese come se fosse l’ album di famiglia come uno spazio affettivo che comprende attrazione-repulsione, fuga e ritorno, estraneità-appartenenza.
Per quanti come me hanno scelto di allontanarsi, o sono stati costretti, per la nostalgia delle radici, consiglio di leggere il più classico canto italiano dedicato alle “rimembranze” :
Qui non è cosa
Ch’io vegga o senta, onde un’ immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per se; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente un van desio
del passato, ancor tristo, e il dire : io fui
(G. Leopardi, Le ricordanze).
Negli anni Sessanta quelli della mia generazione avevano circa dodicianni e il processo di modernizzazione era già in atto anche nel nostro periferico paese.
Ricordo le prime vetrine aggiustate alla “moderna” lungo il Corso Umberto I quella, ad esempio, del Commendatore Vavalà oppure quella delle signorine Bosco che esponevano dolciumi in scatola e bottiglie di liquori. Vi era poi l’ albergo Centrale con la sua scritta azzurrina al neon di forma ellittica che, tutta illuminata, dava un’ atmosfera cittadina.
Giù dal ponte di Spinetto c’ era l’ albergo Roma con otto camere e annessa trattoria con la scritta nera su campo giallo, gestito da una signora che andava in bicicletta in pantaloni e che somigliava ad uno scienziato americano per via dei capelli corti brizzolati e gli occhiali da vista.
Accanto la chiesa Matrice l’ albergo Trieste con due camere e trattoria e poi le Pensioni : Vinci Assunta con tre camere e Tucci Teresina due camere, tutti raccomandati dalle vecchie guide turistiche.
C’ era poi il centralino telefonico aperto anche di notte con un impiegato sempre indaffarato a levare e mettere spinotti in una confusione di fili davanti ad un pannello illuminato da luci colorate che si accendevano e si spegnevano ad intermittenza.
Il posto telefonico, insieme al cinema Aurora, i cui neon si accendevano poco prima dell’ inizio della proiezione serale del film, davano un ritmo moderno alla monotona vita del paese.
In maniera discreta, si introducevano, per i giovani, i primi flippers nei bar.
Da poco si erano costruite le stazioni di servizio per il rifornimento della benzina più ampie e complete, rispetto alle precedenti, fornite di tutto ciò di cui aveva bisogno l’ automobilista. A nord del paese vi era l’ Esso e a Sud, la più ampia stazione dell’ Agip.
Vi erano inoltre due banche : Il Banco di Napoli in Piazza S. Giovanni e la Cassa di Risparmio accanto al monumento ai caduti.
Tutto questo portò la guida del Touring degli anni Sessanta-Settanta a definire Serra S. Bruno “cittadina” in sostituzione del “grazioso e lindo paese” (1928), dove l’ aspetto, con le sue modeste case, con i ballatoi e balconcini e qualche scala esterna, veniva avvicinato ai paesi alpini.
La guida del Touring dava un riconoscimento alla identità locale come parte di un itinerario nella storia e nell’ arte dell’ Italia.
Una valorizzazione importante soprattutto per i nativi, “mangia patate” come recita il blasone popolare, che si vedevano guardati e quindi fieri che qualcuno ne riconoscesse e ne apprezzasse tesori di loro appartenenza.
Questo salire alla ribalta nel dopoguerra con forme di protagonismo sociale collettivo portava il paese a saldarsi alla nazione con il suo monumento ai caduti e con le strade dedicate ai luoghi contesi conquistati con la guerra. Ma soprattutto nel dopoguerra vi fu lo spostamento di popolazioni da Sud a Nord e tanti serresi furono costretti a lasciare l’ amato paese : “la noia, l’ abbandono il niente son la sua malattia”, accomunati da quella memoria collettiva che li portava a lasciarsi alle spalle il luogo dell’ arretratezza anche se vi era la coscienza di abbandonare il luogo della socialità e del senso della vita.
Negli anni Sessanta e Settanta la grande politica nel paese era mediata da persone conosciute in un orizzonte comune. I De Stefano, ad esempio, regnarono incontrastati per almeno trent’anni sotto il segno dello Scudo Crociato.
Sono gli anni più caldi della passione politica, dei comizi in piazza, dei discorsi di sezione e delle liste civiche come la lista S. Bruno e la lista Tre Stelle protagoniste della vita politica cittadina insieme ai grandi partiti come la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista.
Ricordo un ridicolo slogan che dalle automobili gli altoparlanti ripetevano per tutto il paese : “vota 3 Pucci e 6 Buffone”.
Per noi ragazzi il periodo elettorale era molto divertente il paese cambiava, diventava più animato e la gente sembrava essere presa da interessi veramente concreti, era come se si allargassero gli interessi intellettuali e morali del popolo.
Anche nel nostro paese, oggi, dati per scontati i campanili, sono gli ipermercati e le filiali di banca a far la differenza vi è un altro mondo sociale, economico, simbolico rispetto agli anni Sessanta e Settanta.
Per quelli della mia generazione non ci sono più i “pali totemici” di riferimento che per noi costituivano i punti di partenza affettiva per fare l’ esperienza del mondo l’ axis mundi di Mircea Eliade.
Il bar Fiorindo, sembrava un fortilizio gestito da una famiglia estesa che ci vide crescere all’ ombra della sua pensilina dove si trascorrevano intieri pomeriggi soprattutto d’ estate.
Francesco Fiorindo era sempre allegro e scherzoso, il compianto Nicola, fratello maggiore, era sorridente e fugace nelle sue apparizioni e Mario, il più piccolo, generoso e con tutti solidale.
Di fronte al bar un’ altro “palo totemico” la chiesa : unità di riferimento territoriale con la sua potenza centripeta dove si celebrano i riti e i culti sempre gli stessi.
Per noi che siamo andati via il nostro paese è un luogo insostituibile anche se un tempo lo rifiutammo per ritornarci magari d’ estate.
Vivendo oramai da quasi trent’anni a Venezia non posso non dirmi veneziano anche perchè a Serra le classi o caste della mia infanzia non ci sono più, ceti e redditi hanno avuto mutazioni profonde.
Il paese della mia infanzia non c’ è più è una parte della mia vita, è memoria ed il fatto che esso sia cambiato ci porta ancora a parlarne come un orizzonte possibile, diverso da quello dal quale in molti siamo scappati.
Se oggi ne posso parlare, rovistando tra i miei ricordi, il merito è della rivista Santa Maria del Bosco e del suo direttore Domenico Calvetta a cui vanno i miei più affettuosi ringraziaenti insieme a tutta la redazione congratulandomi per il successo che state ottenendo.