C’era una volta …… un re? No! Un pezzo di legno, Geppetto, Mastro Ciliegia, Pinocchio? No, no,e poi no! C’era una volta la famiglia patriarcale, quella famiglia che a volte conicideva con la famiglia numerosa e a volte, invece, no.
La caratteristica principale di questo tipo di famiglia l’autorità l’aveva il genitore più anziano, cioè il capo (l’arkhes greco) che doveva tenere compatta la stirpe (la patrià in greco) e garantirne la dignità e la semplicità.
Questa autorità veniva mantenuta con rigore ed inflessibilità senza mezzi termini, altrimenti che capo era chi non riusciva a farsi rispettare ed ubbidire. A questo scopo tutto era permesso al capo, anche l’uso di mezzi coercitivi oggi impensabili come, per fare un esempio, l’uso del nerbo, o meglio la paci di la casa, un intreccio di tendini bue essiccati che dove colpiva lasciava il segno.
Fino alla seconda metà del secolo scorso, possono essere distinti due modelli di famiglia: quello aristocratico e quello contadino ed artigiano.
Nel modello aristocratico la ricchezza era la proprietà terriera e la vita familiare era fatta soprattutto di consumo ( grandi pranzi e cene con cibi raffinati, bei vestiti, mobili preziosi in grandi palazzi ) e divertimento ( feste, balli, cacce . . . . )
Nessuno nella famiglia aristocratica lavorava, vivevano della rendita della terra che facevano lavorare dai contadini
Nel modello contadino ed artigiano tutte le persone della famiglia lavorano e producono. I lavori che fanno sono la coltivazione dei campi, l’allevamento del bestiame, la tessitura, la lavorazione del legno e del ferro.
Proprio in questo modello il gruppo familiare più diffuso era la famiglia patriarcale formata da una coppia di coniugi anziani con i figli e le loro famiglie ed a volte c’erano anche altri parenti ( fratelli e sorelle dei coniugi anziani).
La famiglia patriarcale aveva importanti funzioni sociali ed economiche :
1. Curava i malati, gli inabili, gli anziani
2. Istruiva ed educava i giovani e trasmetteva loro le regole di comportamento e le conoscenze tecniche per svolgere un lavoro
3. Organizzava feste durante il Carnevale, nel corso dei lavori agricoli estivi ed autunnali come la mietitura del grano, la vendemmia ( = raccolta dell’uva ) ed in occasione di festività religiose e civili.
4. La famiglia patriarcale era anche una comunità di lavoro e di produzione di attrezzi agricoli, oggetti di artigianato e prodotti alimentari.
Tutti dovevano contribuire al buon nome della famiglia e nessuno poteva tirarsi indietro quando si trattava di lavorare, neanche i figli più piccoli perché già all’età di dieci anni qualche attività dovevano svolgerla. I maschietti dovevano andare allu mastru (fabbro o falegname o muratore).
Le femminucce dovevano andare alla majistra per imparare a ricamare o a tessere, altrimenti restavano in casa per aiutare la mamma. Ricordo mastru Vincienzu di ‘ntilla il quale si vantava che già la mattina alle cinque svegliava Rosina, Nunziata e Teresa, le figlie più piccole, perché dovevano pulire le stanze e la sua bottega di calzolaio e, poi, quando vedeva che avevano finito le faceva ritornare daccapo, perché non bisogna mai stare con le mani in mano, altrimenti, altrimenti …………….la pace della casa!
“Perché, signurinu mio, mazzi e panelli fannu li figghi belli!”
Ma non sempre in questo modello di famiglia era l’uomo che comandava, prendeva le decisioni per sé e per gli altri.
A volte, a conferma del detto che “in casa mia il capo sono io, ma chi comanda è mia moglie”, aveva il sopravvento la madre più anziana e, quindi, il patriarcato cedeva il posto al matriarcato, come per fare un esempio, a Bagnara dove il marito trascorreva giorni e giorni in alto mare per la pesca e, non potendolo fare lui, tutta la gestione della famiglia ricadeva sulle spalle della donna.
Dicevamo che la famiglia patriarcale a volte concideva con la famiglia numerosa, intendendo con questo termine una famiglia composta da un numero di figli superiore a dieci, dodici, e anche oltre, figli.
Cinque o sei figli per coppia era ordinaria amministrazione, perché in quei tempi non c’erano i vari contraccettivi, la pillola del giorno dopo o del giorno prima: se una giovane ed un giovane si sposavano dovevano fare il loro dovere, cioè mettere al mondo li criaturi chi Dio mandava. E volentieri – quanto volentieri – si ubbidiva a questo… comandamento.
Ormai quel mondo di contadini e artigiani è scomparso. Qualche ricordo di quella vita fatta di sacrifici, di lavoro pesante e nello stesso tempo gratificante affiora nei racconti o nei dialoghi delle persone più anziane per averlo direttamente vissuto o per averlo sentito dire.
Quanti artisti del legno o del ferro o del marmo, specie nel nostro paese, hanno “forgiato” opere di inestimabile valore artistico delle quali sarebbe arduo, se non assurdo fare una classifica. Varrebbe la pena ricordarli tutti, purtroppo questo non è possibile.
Ricordiamo qualche aneddoto del mondo contadino per assaporare un poco di che pasta erano fatti quei nostri antenati.
A sira lu zappaturi si ricogghia trappa, trappa; si scippa li stivali e va e si curca canta Bruno Tassone nella sua deliziosa canzone, ma prima del rientro c’è una cerimonia, un rito da compiere. Con passo lento, strascicato (trappa, trappa), con la schiena piegata in due per la stanchezza e gli indolenzimenti si avvia verso casa. Lungo il tragitto c’è la cantina di Castagneja: è d’obbligo fare una brave sosta. Appoggia gli arnesi fuori del locale, entra e si siede ad uno dei tavoli dove già altri zappaturi assaporavano un bicchiere di quel vino fresco e robusto che dava ristoro e ritemprava le forze.
“Chi jurnata, compari Micu, chi jurnata! Mi sientu fattu stuppa! Aiu li mani chi non li sientu cchiu!” e mostrava le mani nere, piene di calli, screpolate fino al punto da far vedere sotto il primo strato di pelle nera, la carne viva.
Però, (e qui un sorriso e gli occhi luccicanti per la soddisfazione illuminano il viso e fanno scomparire la stanchezza) cumpari Servaturi, accattai ‘na zappa nova, c’ava ‘nu filu! sapiti cuomu tagghia!!”
Forse quella era la zappa forgiata e lavorata da mastru Giacumu il quale, dopo aver finito il suo lavoro, con gesto ispirato, alzava la zappa verso il cielo, la guardava, l’ammirava estasiato e con entusiasmo e con voce rotta dall’emozione gridava: “Triccientu, quattrucientu, cincucientu martiddhati e “dalla”! Non sindi vida uuuuuna!!!”.
Quel mondo originato dalla famiglia patriarcale è andato via, via scomparendo.
Nei decenni successivi agli anni cinquanta, è avvenuto un complesso mutamento sociale e culturale: il processo di liberalizzazione della sfera sessuale, specie per quanto riguarda i rapporti prima del matrimonio, ha reso il legame istituzionale meno necessario; nel 1970 è stato introdotto il divorzio, confermato dal referendum popolare del 1974, che ha sancito il diritto di sciogliere il matrimonio qualora venga a mancare la comunione spirituale e materiale tra i coniugi; nel 1975 è stato integralmente riformato il diritto di famiglia, che ha stabilito tra l’altro la parità tra i coniugi sia nei loro rapporti personali che nei confronti dei figli; nel 1978 è stata approvata la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, che ha conferito alla donna la piena libertà di scelta in questo campo.
Le donne hanno preso coscienza dei loro diritti e sono entrate massicciamente nel mondo del lavoro, per cui all’interno delle famiglie vi è ormai una maggior condivisione con il coniuge delle responsabilità e delle cure parentali. Infine è profondamente cambiato l’atteggiamento delle coppie nei confronti della procreazione: se un tempo i figli erano numerosi e costituivano un valore primario e un investimento cui sacrificare ogni cosa, oggi le coppie sono più orientate verso se stesse e la propria realizzazione, di modo che il numero di figli, spesso percepiti come un costo, viene radicalmente controllato.
Alla famiglia patriarcale, tipica dell’epoca preindustriale, si sostituisce la famiglia nucleare, cioè una piccola comunità di persone formata dai genitori e da un numero limitato di figli, che vivono sotto lo stesso tetto.
Oggi tutto è cambiato, nella famiglia impera il filiarcato dato che l’attenzione è tutta dedicata ai pochi figli specie all’ultimo nato: anche se ancora non sa parlare, è lui che comanda, che dice ai genitori premurosi e solerti ciò che devono o non devono fare: tutta la famiglia obbedisce al piccolo o alla piccola monarca. Quel rispetto, quell’osservanza che prima erano rivolti al “patriarca”, ora sono rivolti al ….“ filiarca”.
Non più, quindi, tavolate di conviviali durante le feste comandate, non più suoni e ritmi di litilari delle giovinette tessitrici che riempivano le vie del paese di quel caratteristico rumore: tric, truoc, trac!
Una volta, in paese, non c’era piazzetta, slargo di case che, nei lunghi pomeriggi di primavera e di estate, non fossero riempiti di bambine e bambini i quali con garrulo vociare si divertivano giocando alla mucciatedha, alla mazza e allu spinzingulu, alli muorti, a nuci e a nucidhi a castiedhu, mentre su nel cielo e sotto le grondaie stormi infiniti di rondinelle garrivano, garrivano unendosi ai cori di sotto.
A proposito! Hanno fatto ritorno le rondinelle. Hanno ricostruito i loro nidi sotto le grondaie e i balconi; cantando volano a stormi nei cieli e svettano rapide attorno alle guglie dei campanili; imbeccano i loro garruli rondinini e girano, girano, girano.
Sotto di loro nelle piazzette e negli slarghi delle case c’è solo silenzio e mancano i bambini.
C’era una volta la famiglia patriarcale!