Parlo, o meglio scrivo dell’alluvione avvenuta nella notte tra giovedì e venerdì del 21-22 novembre 1935 non solo invogliato a farlo dell’opportunità che mi offre la Rivista ma anche perché certo di essere uno dei testimoni che hanno avuto la ventura di vedere quanto accadeva da un posto di osservazione “in prima fila”: i balconi di palazzo Zaffino che si affacciano sulla piazza della Chiesa Matrice.
L’avvenimento del tutto naturale, fu veramente di portata eccezionale e drammatico perché causò morti, perdite di beni e distruzioni materiali troppo rilevanti per un paese non certo fiorente come il nostro. In quella notte io mi trovavo per il concorso di varie circostanze, fuori casa, nei pressi della Chiesa Matrice, dai miei nonni.
I passaggi aperti nelle pareti dei sottotetti, consentirono ad una ventina di persone, tra cui ero io, di pervenire ad un luogo più sicuro che peraltro, data l’ubicazione del palazzo, risultò essere un posto d’osservazione particolare.
Eravamo adulti e bambini, componenti di quattro famiglie fortunatamente non destinati a perire sotto il crollo della casa o ad annegare trasportati dalla corrente impetuosa dell’Ancinale.
E ciò grazie alla famiglia Zaffino, quella del dottore Gabriele Zaffino di buona memoria che, negli anni 1933-34, aveva edificato sulla vecchia casa demolita, forte e bello il palazzo che ancora oggi si può ammirare.
Questa costruzione difese, come un muro di sostegno, tutto l’isolato costituito da tre deboli case che sicuramente non avrebbero retto all’urto dell’eccezionale devastante alluvione. Sono ancora oggi vivi e vegeti, in grado di testimoniare gli avvenimenti di settantadue anni fa gli ultraottuagenari: Espedita di Rosa, alcuni membri della famiglia Sodaro ed il sottoscritto.
Il 21 novembre, al primo chiarore dell’alba, il cielo si presentava scuro, di colore grigio ferro perché grossi nubi si erano addensate, durante la notte, sul paese e sulle montagne. L’aria era umida e la temperatura normalmente autunnale; non c’era vento.
Guardando però il tratto di cielo a sud, penso S. Maria, si notava che l’ammasso di nuvole gravanti sulla montagna, avevano un colore più cupo ed una densità insolita mai vista prima.
Qui da noi, a Serra, si è sempre detto che, quando il cielo si presenta con questa caratteristiche su S.Maria, si può stare certi che la pioggia è vicina.
Dicevano gli anziani, per esperienza diretta, che il nostro fiume, l’Ancinale, che nasce proprio nel bosco di S.Maria e attraversa il paese dividendolo in due: Terravecchia e Spinetto, in autunno ed in inverno, si gonfiava, diventava minaccioso e talvolta, con l’impatto delle acque demoliva e portava via le “passarelle” di legno costruite grossolanamente in più punti per consentire il passaggio verso i campi coltivati e la montagna. Niente altro di più era solito accadere e l’Ancinale era rimasto sempre strettamente e positivamente legata la vita del paese ( mandare avanti le segherie, irrigare i campi, lavare i panni al fiume).
Tuttavia quel giorno, nulla lasciava presagire che un evento di portata tanto straordinaria si sarebbe potuto verificare nella notte. Alle quattro-cinque del pomeriggio, già buio, tra lampi e tuoni, la pioggia incominciò a cadere, dapprima leggera e via via più fitta in un crescendo di scrosci, sferzate dal vento che intanto si era levato.
Chi era fuori, soggiunse frettolosamente a casa o si trovò un riparo possibile. Intanto la pioggia cadeva torrenziale e continuava come se si fosse aperta una cateratta nel cielo.
I miei ricordi sono tanti, sempre presenti e non si sono affievoliti neanche dopo 72 anni. Eccone alcuni tra i più vivi che mi vengono in mente: ricordo il fuggi-fuggi precipitoso di chi, sorpreso fuori casa dalla pioggia improvvisa, cercava rifugio presso amici o vicini e nei negozi dove molti restarono tutta la notte. Nel corso, là dove oggi c’è l’ufficio turistico c’era un salone di barbiere: ebbene, tre persone, un adulto e due ragazzi miei compagni di classe, si sono salvati riparandosi per tutta la notte nel sottotetto del salone, raggiunto grazie ad una provvidenziale scala a pioli. E’ sotto di loro fluttuavano oltre due metri d’acqua dentro la quale sarebbero potuti accidentalmente cadere.
Ricordo il da fare agitato dello zio prete Don Biagio Zaffino e delle nipoti, appaltatrici titolari delle Poste che cercavano di recuperare immersi nell’acqua fino alle ginocchia, pacchi, lettere, documenti e valori d’ogni genere, nel vicolo cieco dietro l’ufficio dove la piena entrava e usciva dietro, trascinando ogni cosa.
Ricordo il salvataggio della signorina Scrivo che, a causa di un difetto fisico che le impediva di sostenersi, fu travolta dalla corrente mentre stava raggiungendo casa sua. Fu afferrata, posta su un armadio nell’ufficio telegrafico dove oggi c’è l’ottico Pompeo Tripodi fino a quando, verso mezzanotte, un’onda violenta travolse l’armadio facendola cadere e trascinandola fuori. Fu poi trovata cadavere nei pressi di Satriano. Ricordo quanto paura suscitava in tutti noi quel richiamarsi da una casa all’altra per chiedere notizie di conoscenti e familiari, quel vociare lamentoso e cantilenante che lo scroscio della pioggia rendeva più lugubre.
Ricordo la recita del rosario, le preghiere, le litanie, le implorazioni, i voti d’ogni genere ( con promesse di penitenze e digiuni) rivolti a Dio ed ai Santi che alcune donne del mio gruppo recitavano e gridavano tra lamenti, pianti e manifestazioni vicine all’isterismo.
Ricordo anche e rivivo la commozione del momento in cui Don Biagio Zaffino, per rasserenare gli animi, ebbe l’idea, da buon sacerdote, di riunirci nella sua cappella privata, per impartire a tutti, picccoli e grandi, innocenti e peccatori, la benezione con l’assoluzione dei peccati secondo la formula della chiesa in caso di morte imminente: una specie di estrema unzione. Molte ore della notte trascorsero così nella preghiera e nelle invocazioni.
Noi, bambini e ragazzi ( io avevo 13 anni e pensavo alla poesia “La cavallina storna” che dovevo mandare a memoria per l’indomani) non creavamo problemi, stavamo vicini tra noi, ammutoliti, atterriti e attenti a tutto ciò che facevano e dicevano i grandi, per capire scrutando “le espressioni dei lori volti” cosa potesse accadere ancora a noi, alla gente ed al paese.
Per la caduta dei pali della linea elettrica, che puntualmente si verificava ad ogni temporale, tutto il paese piombò nel buio totale, aggravando i disagi fuori e dentro le case debolmente rischiarite da candele e lucerne che ogni famiglia previdente aveva cura di tenere in casa per l’emergenza.
Dopo tre-quattro ore di pioggia incessante il corso principale che noi vedevamo dai balconi alla luce dei lampi, appariva come un fiume impetuoso e limaccioso che trascinava tutto ciò che incontrava, soprattutto alberi sradicati, tronchi, rami ramaglie eccetera. L’acqua penetrava nei pianterreni delle abitazioni ed era già alta, intorno al metro, e faceva galleggiare ogni cosa che si trovava sul pavimento: sedie, tavoli, casse, bracieri, credenze, vasi, bacinelle, stoviglie eccetera.
Chi aveva un primo piano vi salì sopra e tanti altri si misero al riparo nei sottotetti, sulle scale e sugli armadi, nella speranza che la piena non salisse oltre. Nulla lasciava percepire un’inversione di tendenza perché la pioggia continuava a cadere con violenza sempre maggiore mentre il livello dell’acqua continuava a salire fino ad arrivare al massimo di oltre due metri, intorno alla mezzanotte, nella zona più bassa del paese, quella tra piazza Monumento e la Chiesa Matrice.
Passava il tempo che a tutti sembrava lungo, lunghissimo e tutti eravamo trepidanti al pensiero del peggio che sarebbe potuto arrivare, quando, verso le due della notte il nubifragio perse d’intensità e si notò un contemporaneo e repentino calo del livello dell’acqua che in breve tempo apparve chiaro e netto, come se si fosse aperta una diga, uno sfogo.
Ed è quello che in effetti si verificò perché fu accertato dopo che cosa era successo: nei pressi di san Rocco, dove il fiume fa un’ansa, incassato tra due collinette, c’era stato lo smottamento di una consistente fetta di castagneto, alberi e terra insieme, che aveva ostruito il corso del fiume fino a quando la pressione e la forza dell’acqua furono al massimo. Improvvisamente poi si aprì un varco e l’acqua cominciò a defluire a vista.
Alle prime luci dell’alba le dimensioni del disastro apparvero nella loro reale gravità: le strade della zona allagata erano depositi di detriti, pietre, fango dello spessore di un metro, in cui c’era tutto. Alberi e tronchi giacevano sparsi qua e là. Il corso e alcune strade adiacenti presentavano voragini di varia grandezza e profondità, provocate dallo scoppio delle fogne sovraccariche ed intasate. L’aspetto generale era desolante: il bilancio umano era di diciotto morti e quello materiale di: casette crollate, negozi svuotati dalle mercanzie dalla furia delle acque, porte “ alla mercantile” divelte, portoni e portoncini aperti o rotti, danni materiali di ogni genere. Bilancio gravissimo e pesantissimo.
A poco a poco la gente cominciò ad uscire per cercare familiari che erano rimasti la sera bloccati fuori, PER VEDERE COS’ERA ACCADUTO ALTRI, per chiedere a chi in quel momento era in grado di darlo, un poco d’aiuto per i bisogni più immediati.
Non ci fu solenne proclamazione dello stato di calamità naturale con relativi interventi pubblici dello Stato e del Comune, come avviene oggi per danni e necessità anche meno rilevanti. Non ci furono risarcimenti per nessuno ( per la verità l’aiuto consistette nella costruzione di poche case popolari avvenuta dopo alcuni anni). C’è pure da dire che, all’epoca, non esistevano Protezione civile e Pompieri. Giorno dopo giorno la vita riprese pur tra mille difficoltà; ogni persona, ogni familiare “leccò” le proprie ferite.
I danni, a poco a poco furono colmati con il lavoro ed il sacrificio; il paese si riprese nell’attività consueta e nel commercio. Ma tanti continuarono a vivere nelle difficoltà, scontenti come prima o più di prima.