Ci ho vissuto per quaranta anni alla via Sette Dolori: anzi, più che alla via, al Vico II° Sette Dolori che è una breve appendice della stessa, e perciò conoscevo tutti i residenti dato che da lì ha avuto inizio la mia ontogenesi.
La vita della parte bassa della strada era tutta concentrata in una piazzetta, da dove si partivano altri vichi e si apriva uno slargo; in essa ci giocavo con altri ragazzini e ragazzine che vi abitavano e con le mie sorelle. Il punto di riferimento, per le donne del posto ( gli uomini si vedevano raramente in quanto andavano a lavorare al mattino presto e rientravano tardi, al tramonto) era la bottega di generi alimentari di don Antonio Colonnese, gestito però dalla figlia Marietta per i confidenti, per gli altri la ‘signorina’ Maria.
Era una bella ragazza sui vent’anni, dalla carnagione chiara, dagli occhi azzurri e dai capelli biondi che le scendevano sulle spalle a forma di ‘boccoli’ , oltre che per la bellezza, si distingueva dalle altre perché era una ‘intellettuale’, tenuto conto che leggeva il giornale e sapeva esprimersi e farsi capire da tutti, perché apparteneva ad una famiglia dove aveva la possibilità di colloquiare con il padre e i fratelli di cui uno, Fausto, impiegato al Municipio. Quando arrivava la primavera e l’aria si intiepidiva, aspettava i rari clienti seduta alla porta della bottega e ricamava o lavorava ai ferri attorniata dalle vicine e partecipando, anche lei, ai pettegolezzi.
Poi c’era un’altra donna che si differenziava dalle altre, si chiamava Bittinuzza di ‘Josi’, molto piacente anche se non più giovane, che era stata parecchi anni in America per aver sposato un americano; poi non andarono più d’accordo e si separarono e lei ritornò in Italia; e perciò di tanto in tanto, per dimostrare alle altre la sua superiorità, pronunciava alcune parole in quella lingua, che per tutti noi era arabo: “sciarappa” (shut up – chiudi il becco), – diceva- oppure “ ggorahella” ( go to hell – vai all’inferno), “cummia” (come here – vieni qua), e quando ce l’aveva con qualcuno gli gridava appresso: “iussanimabicci” (son of bitch – figlio di cagna), “guazzamara?” (What more) ‘ e chi vo’ diri, a Bittinuzza?’ le chiedevano e lei, con una punta di orgoglio, rispondeva: ‘ Chi succidiu? ’- Poi ad una certa ora del pomeriggio, ma non sempre, rientrava a casa per prendersi –diceva lei- “ lu ttè” come era di costumanza nei paesi anglosassoni e a cui lei si era abituata provenendo dall’America.
Più in là, in un basso non molto ampio e male illuminato viveva, nella massima indigenza, una donna senza marito e i suoi tre figli il più grande dei quali poteva avere la mia stessa età. La chiamavamo “Pippina l’arinisa “ perché proveniva da Arena, un paese vicino. La sua era una vita di stenti. Lavorava senza fine, dalla mattina alla sera trasportando dentro recipienti di terracotta l’acqua dalle fontane pubbliche ad alcune famiglie del posto o andando sulla sponda dell’Ancinale a lavare panni o sciacquare il bucato per conto di altri.
Di tardo pomeriggio, durante le belle stagioni, si affacciava alla finestra del primo piano “Bittina Pupo” da sempre vestita di nero e il capo coperto con una “ saia “ pur essa nera; vecchia, rugosa e impicciona con noi ragazzini perché si irritava e ci sgridava se qualche volta litigavamo tra noi, e noialtri pur di arrabbiarla facevamo finta di darcele. E lei, che io in tanti anni non ho mai visto sulla strada, intervenendo in difesa del più debole minacciava “dassalu jiri ca si no scindu e ti aggiustu io!”
All’angolo, di fronte a lei, abitava il figlio, compare Michelino, marito di commare Angelina “la merlettara” ed avevano due figli un maschio, di nome Bruno, che occupava un posto importante in un città importante del nordest e una ragazza, anche lei molto bella, di nome Tita.
Compare Michelino gestiva un negozio di stoffe sito all’angolo piazza Azaria Tedeschi-Corso Umberto I, di fronte la chiesa dell’Addolorata, e in quello stesso esercizio, inoltre, confezionava corone funebri nel senso che le corone, in metallo, erano belle e fatte con i fiori colorati a smalto, solo che lui ci metteva il nastro sul quale componeva le espressioni di cordoglio con lettere di cartoncino dorato.
Poi c’era mia madre, Fortunata, donna di carattere mite, dolce e generosa; anche lei “intellettuale” perché oltre a sapere leggere e scrivere e a fare i conti, ascoltava la radio ogni giorno, in quanto mio padre era uno dei rari possessori di apparecchi radio, e perciò, mia madre, sapeva molte cose più delle altre e per tale motivo, anche lei era una di quelle che si distinguevano.
Ma la figura di spicco e che faceva onore a tutti quelli della piazzetta e dintorni, perché abitava in uno slargo adiacente via Sette Dolori, era don Angelo Pelaia. Un sacerdote dalla figura corpulenta, claudicante, dietro che aveva una gamba più corta dell’altra. Non aveva una grande cultura, d’altro canto non l’avevano nemmeno gli altri preti del suo stesso periodo di formazione teologica, ma per quello che gli serviva era più che sufficiente: celebrare la messa, un’orazione funebre, un poco di latino, non quello classico ma quello volgare. Alle volte, durante le prediche faceva qualche confusione: il detto di Ovidio “Video meliora proboque, deteriora sequor” lo attribuiva a Demostene (che per lui era un grande poeta latino) e questo succedeva perché imparava le prediche a memoria da un vecchio libro dove fiorivano gli eziandio, imperocchè, or-ora, sovente, talora….
Era, però, un uomo buono, riservato, affabile con tutti e quando morì sull’altare la gente fu convinta che era morto in odore di santità. Nei pomeriggi andava nella chiesa Matrice per recitare il Santo Rosario insieme ad alcune donne devote e mi portava con sé, perché “gli servissi il Rosario”- che poi, in sostanza, si riduceva a suonare il campanello ad ogni “posta” (parte), mi suggeriva “ sona, biedhu, sona”. Come compenso, alla fine, tirava fuori dalla tasca un confetto già succhiato da lui e affinché non lo potessi rifiutare, me lo ficcava direttamente nella bocca.
Poi, una sera, morì, come ho detto, sull’altare della chiesa dell’ Addolorata mentre celebrava una funzione religiosa in onore della Madonna, durante la novena che precedeva la Sua festa. Non passò molto tempo e morì anche la sorella,’Rafela’, che gli fece da “perpetua” e perciò era rimasta nubile.
La casa rimase vuota.
Qualche anno dopo andò ad abitarci la vedova di una guardia forestale insieme a due dei suoi tre figli, ancora in tenera età.
Quando le morì il marito si sentì perduta, avvilita, abbandonata perché lontana dai suoi familiari che vivevano in Puglia, senza mezzi di sostentamento se non la misera pensione di reversibilità e che era poca cosa per mantenere lei e i suoi tre figli la più grande dei quali aveva appena dieci anni.
Pensò, allora, di mettere su, con l’aiuto di Francisca, un donnone dalla pelle scura e dai capelli in parte argentati ( per me spiccicata ‘Mamie’ di “Via col vento”), una pensioncina per impiegati e studenti.
Ce la fece, non si arricchì, soprattutto per la sua onestà, ma riuscì a tirar su due figli ‘Pinuzzu’ e Lisa, compiendo molti sacrifici. La terza, Pasquina era andata a vivere con una zia. Si faceva in quattro per accontentare tutti e senza scontentare nessuno: un tenente dei carabinieri, un impiegato dell’Ufficio del Registro, un impiegato alla Forestale un professore non vedente di scuola media…
Ma più che per i clienti, il basso dove lei viveva insieme ai suoi figli e Francisca era diventato un ritrovo, una specie di punto di raccolta come sulle navi, dove convergevano i giovani amici di Pinuzzu per trascorre qualche ora in compagnia tra una ‘stoppa’ e una briscola, tra un tressette e una “ passatella” con “padrone e sotto” ,non trascurando qualche bicchiere di buon vino e fumare qualche sigaretta lontano da occhi indiscreti. Di questi piccoli piaceri godeva anche lei, la signora Margherita, perché le piaceva la comitiva che si era costituita con Fernando, Elio, Roberto, Mario, Clemente, Peppe e anche una giovinetta dalle trecce bionde di nome Bruna. Tanto da tirar a fare le ore piccole.
Era di carattere mite, alla mano con tutti e avendo molta fiducia nel prossimo, prestava fede a tutto ciò che le dicevano le persone di cui si fidava; ma soprattutto era generosa, nonostante le difficoltà dovute alla crisi di fine guerra e alle sue ristrettezze economiche; offriva da mangiare non solo ai suoi pensionati ma anche ai compagni del figlio, quando erano presenti nel momento di apparecchiare la tavola.
I ragazzi che frequentavano la sua casa, per via dell’amicizia che li legava a”Pinuzzu”, approfittavano della sua buona fede e le raccontavano avvenimenti ed episodi di vita serrese impensabili; una volta la convinsero, anche con prove cartacee false, che risultava iscritta al Partito Comunista e che pertanto poteva dire addio al viaggio in America che pensava di poter fare ma quando, poi, si rendeva conto che si trattava di una mistificazione, inveiva contro di loro e li cacciava fuori di casa a colpi di scopa. Poi si pentiva e li mandava a chiamare.
Non erano soltanto questi i personaggi che abitavano alla via Sette Dolori e che animavano la piazzetta. Per me erano figure di secondo piano, costituenti la scenografia, lo sfondo su cui si muovevano i personaggi principali, quindi da non richiedere una descrizione particolareggiata, anche se avevano, in quel contesto, una non trascurabile rilevanza.
Anzitutto “ Bittinuzza di Josi” non viveva da sola ma con una sorella di poco maggiore di lei, ‘ Luzza’, (sempre di ‘Josi’); si faceva vedere poco in giro perché tesseva le coperte al telaio e non aveva tempo da perdere in chiacchiere, come Anna Maria di li ‘Pascali’, moglie di Custodio, non perché lavorasse al telaio pure lei ma perché gli impegni casalinghi erano tanti considerato che doveva accudire oltre al marito invalido anche a tre giovani figli, di cui uno, Orazio, maestro elementare che corteggiava Tita, la figlia di compare Michelino e di commare Angelina.
Il ‘nucleo’ familiare più consistente e più rappresentativo era quello di li ‘Scianni’, composto da madre (Peppina), zia (Rosarina) e nonna (Mariangela) oltre a due splendide ragazze: Angela e Carmela, belle in volto e aggraziate nel fisico. Poi c’era un loro fratello, Nuzzu, tipo irascibile e permaloso, attaccabrighe; era mio coetaneo, compagno di gioco e di svaghi. Poi se ne andò in America dove c’era il padre e un altro fratello ma non si trovò bene, non riuscì, almeno per i primi tempi, ad inserirsi in quel nuovo ambiente soprattutto perché non conosceva la lingua, difatti in una delle poche lettere che mi spedì mi scriveva “ qui parlano un’altra lingua e io, caro Vinicio, nostendo natinga (I don’t understand nothing).
Un altro personaggio singolare, era un mastro falegname di nome Salvatore,’Salvatore lu ciraru’ noto per le sua arguzia e per le sue salaci battute che venivano riportate all’esterno della bottega dagli amici che lo andavano a trovare per passare allegramente po’ di tempo in sua compagnia.
E poi c’eravamo noi, una frotta di ragazzini maschietti e femminucce, più o meno della stessa età, come i figli di mastro Beniamino Saulle, Brunu, Rafilina e Ntunuzzu; di Peppina l’arinisa, Oreste e Benito; Angelina, Giuseppina ed Angelo figli di mastro Domenico Barillari ‘ficandianu’ artista e pittore edile; Esterina Gioffrè, figlia dell’orologiaio del paese; Nora, figlia del maestro Penna e nipote di ‘ mastru Sarvaturi lu ciraru’. Ed infine io e le mie sorelle Licia e Rosita.
Il ‘momento di gloria’, il massimo della vitalità, la piazzetta ce lo aveva il giorno della festa del Corpus Domini.
I lavori per costruire l’altare cominciavano tre giorni prima perché doveva essere grande, ampio, il migliore non solo dei dintorni ma di tutto il paese. Io non so quali arti magiche usava compare Michelino per fare comparire sul posto, dalla sera alla mattina, le assi di legno lunghe e larghe con cui costruire l’impalcatura. Sicuramente una mano di aiuto gliela dava mastro Beniamino Saulle ‘ lu vizuocu’ che aveva la bottega di artigiano, lì a due passi. Non solo, ma gli metteva a disposizione anche la sua lunga esperienza di falegname.
Il basamento poggiava interamente sui gradini in pietra dell’abitazione di mastru Biasi marito di Virginuzza, donna dall’aspetto matronale dai capelli bianco-argento, figlia del poeta ‘Mastru Brunu’. E anche di Maria Giuseppa di ‘Cicconi’ , la visionaria ed affabulatrice ‘Ceppa’ del mio racconto.
Per la circostanza, le donne tiravano fuori dalle cassepanche i damaschi più belli con cui rivestire l’altare e ornare balconi e finestre che si affacciavano sulla via Sette Dolori, con lo scopo di onorare ed accogliere degnamente il figlio di Dio quando sarebbe venuto a salutare, con particolare affetto, l’adduluratari perché tutti gli abitanti erano fedeli alla Sua Santa Madre ed erano tutti iscritti alla Congrega dell’Addolorata. Devoti e fanatici.
Nel pomeriggio, che precedeva la festività, eravamo mobilitatati noi ragazzini. I ‘grandi’ ci mandavano negli orti e nei campi vicini per raccogliere i fiori con cui tracciare il percorso che avrebbe fatto la processione nonché da lanciare sull’altare al momento della benedizione che avrebbe impartito l’Arciprete don Vincenzo Regio.
Ritornavamo carichi di ginestra, di qualche rosa bianca raccolta negli orti, di garofani e altri fiori di campo, niente altro! Non vi erano giardini dove poter cogliere le rose; uno dei pochi era quello dell’Asilo Infantile ma questo compito era affidato alle signorine e alle signore di buona famiglia già conosciute dalle monache e la Madre Superiora quando sapeva che erano per l’ altare di via Sette Dolori, dava loro le rose più belle e profumate.
Mattina del ‘Corpus’, sull’altare, abbellito dai damaschi, appariva, come per incanto in mezzo alle rose, ai gigli e alle candele accese, la statua della Madonna Immacolata: bella, ad altezza naturale, dipinta con tenui color pastello; nonché due massicci incensieri i cui coperchi sembravano cupole di moschea, posti alle due estremità dell’ altare. Tutta magìa di compare Michelino.
Gli abitanti della piazzetta affollavano le finestre e i balconi, che erano addobbati con damaschi e coperte magistralmente ricamate a mano, tenevano a lato un cestino colmo di fiori e di petali di rose.
Seguita dallo squillo della campana della chiesa “ Addolorata “ arrivava la ’Processione’ tra il canto dei fedeli, il profumo dell’incenso e il suono della banda; in testa, una rappresentanza di fratelli delle tre Congreghe. Seguiva, sotto un baldacchino sostenuto da alcuni Confratelli e sotto un ombrellino decorativo retto dal Potestà, l’Arciprete vestito con paramenti ricamati in oro e argento, il quale reggeva ‘ la Spera-randi ’, finemente cesellata da un artista serrese, affiancato da altri due sacerdoti e da alcuni chierichetti.
Ai quattro lati del baldacchino, c’erano i carabinieri in grande uniforme, col “ pennacchio ”, insieme alle Guardie Municipali, seguivano, poi, gli esponenti più in vista del Partito, diverse Autorità del paese e infine la massa dei fedeli.
Arrivati nella piazzetta, la processione si fermava e mentre l’Arciprete saliva i gradini dell’altare per procedere al sacro rituale, i fedeli intonavano il ‘Tantum ergo’ e le donne, specialmente quelle maggiormente devote e profondamente osservanti, si inginocchiavano sull’acciottolato.
Poi, l’Arciprete, dopo aver pronunziato le parole di rito, rivolgendo l’Ostensorio verso i credenti, impartiva loro la Benedizione, tra le volute di fumo, fortemente profumato, dell’incenso e gli squilli dei campanelli, mentre una pioggia fitta di petali di rose e di fiori, scendeva dai balconi e dalle finestre sull’altare, sull’Ostensorio e sulla statua della Vergine Maria.
Andata via la processione, noi ragazzi ci precipitavamo sull’altare per raccogliere i petali più grandi, li piegavamo a forma di sacchetto e dopo aver recitato una stupida e insignificante filastrocca: ” si Tiresa mi vola beni sta paparina mu nci schiatta lu feli, si mi vola mali mu nci cada lu varvizzali”, vi alitavamo sopra e la schiacciavamo contro la fronte. Se faceva il botto, Tiresa mi voleva bene!
Sono ritornato l’altro giorno in via Sette Dolori preso dalla nostalgia e l’ho trovata brutta, deformata dagli infissi di alluminio inseriti negli stipiti di granito, dai colori pacchiani delle abitazioni, dalla spicconatura del frontespizio della casa di don Angelo che mi apparve come colpita dalla lebbra, dalla scomparsa della scala esterna della casa di Mariangela “ di la scianna”.
Non c’era più la signorina Maria che ricamava accanto alla porta mercantile, attorniata da Bittinuzza, mia madre, commare Angelina… Non c’erano più i ragazzini che giocavano a nascondino e Bittina Pupo che li sorvegliava dalla finestra,… l’altare di compare Michelino…In altri termini non c’era più quell’ “elan vital” di bergusoniana memoria.
Ma, perché ci sono andato?