TTIP è l’acronimo inglese di “Transatlantic Trade and Investment Partnership”. Si tratta di un accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziazione tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America. Esso ha, tra gli scopi dichiarati, quello di integrare i mercati di Europa e Stati Uniti riducendo i dazi doganali e rimuovendo in una vasta gamma di settori le barriere non tariffarie (che per intenderci sono misure che limitano la circolazioni delle merci; negli Stati Uniti ad esempio è permesso somministrare ai bovini sostanze ormonali, nell’UE è vietato ed infatti la carne agli ormoni non ha accesso al mercato europeo per via di una barriera non tariffaria). Quello alimentare è appunto uno dei settori che ovviamente verrà maggiormente investito dall’accordo con pesanti ripercussioni, a dire di molti, sui consumatori; perché i principi su cui sono basate le leggi europee che riguardano tale settore, sono diversi da quelli degli Stati Uniti. Tanto per fare un esempio, in Europa vige il principio di precauzione (l’immissione sul mercato di un prodotto avviene dopo una valutazione dei rischi) mentre negli Stati Uniti per una serie di prodotti si procede al contrario: la valutazione viene fatta in un secondo momento. Al di là delle innumerevoli questioni che l’accordo profila dinanzi a sé, questa succinta quanto semplicistica sintesi riportata rappresenta la premessa per una riflessione che trova nel titolo del suddetto articolo la sua massima esplicazione. “Siamo quello che mangiamo” è una riflessione, quanto una constatazione, quanto un invito ad una maggiore conoscenza di ciò che ci circonda, di ciò con cui ci nutriamo . Al di là delle campagne contro il TTIP, le varie petizioni e raccolta firme che solo ultimamente stanno prendendo piede nel territorio nazionale, è innegabile la diffusa disinformazione che affligge il consumatore sui prodotti che mangia. Figli della crisi e del mercato globale i consumatori di oggi prediligono la quantità alla qualità, il basso costo frutto della libera circolazione delle merci ma soprattutto di processi di produzione che sacrificano la qualità delle materie prime in nome della vendita a tutti i costi. In una realtà bizzarra quanto un Expò finanziato da Mac Donald e Coca Cola, vi sono tuttavia piccoli, quanto significativi focolai che qua e là cominciano ad alimentarsi grazie alla tenacia e alla sensibilità di persone che hanno intuito l’importanza di ritrovare un contatto più diretto con la terra e con una produzione alimentare più circoscritta ed eco sostenibile. Parliamo del cosiddetto chilometro zero, una politica economica che predilige l’alimento locale garantito dal produttore nella sua genuinità, in contrapposizione all’ alimento globale spesso di origine non adeguatamente certificata, risparmiando inoltre nel processo di trasporto del prodotto, a beneficio dell’ambiente. Laddove il potere del cittadino europeo sembra oramai offuscato da una logica di mercato che avanza inesorabile su tutto il resto, resta tuttavia nelle nostre mani la facoltà di compiere nel nostro piccolo una scelta diversa. Una scelta possibile, ovviamente, solo nel momento in cui si prende atto dell’importanza dell’argomento e si pretende una maggiore conoscenza a riguardo.
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