Quando si analizzano con attenzione le fonti storiografiche temporalmente più vicine al terribile evento del terremoto del 1783 – in particolare la testimonianza del Vicario Generale del re, Francesco Pignatelli, e quella di Michele Sarconi – un dato emerge con sufficiente chiarezza: nessuna delle due fonti fa riferimento, per quel che riguarda la Certosa, al carattere di totalità delle distruzioni operate dal terremoto. Nei testi dei due “testimoni” il lettore trova una casistica di massima dello stato delle singole fabbriche certosine, nella quale scorge espressioni (da “intieramente a terra” a “affatto ruinate”) che descrivono una situazione certamente drammatica, ma riscontra pure un quadro della situazione non del tutto compromesso: le mura della clausura, per esempio, risultano intatte, l’appartamento del Priore è soltanto “danneggiato” nelle mura laterali e nella copertura, la chiesa conventuale – come, peraltro, documentano anche gravures e lastre fotografiche ottocentesche – non è interamente crollata, alcune delle opere costruite dopo il recupero cinquecentesco sono solo “discretamente lese”. Eppure, già nell’opera postuma di Francesco Antonio Grimaldi Descrizione de’ tremuoti accaduti nelle Calabrie nel MDCCLXXXIII, pubblicata a Napoli l’anno seguente al sisma, la descrizione di quanto è avvenuto muta: nella radicale laconicità di questo testo la Certosa risulta “intieramente distrutta”. Forse, prende l’avvio proprio da qui il mito storiografico, tra i più resistenti nella pubblicistica intorno al monastero certosino serrese, del terremoto devastatore che avrebbe raso al suolo l’intero complesso conventuale, con l’eccezione della facciata della chiesa cinquecentesca e delle arcate del chiostro dei procuratori tuttora visibili. Mito che sembra funzionare come un “ricordo di copertura” che assolve a un duplice ruolo: innanzitutto, trasformare una condizione parziale e relativa in evento assoluto; in secondo luogo, attribuire univocamente alla natura ciò che, al contrario, è stato in buona parte opera del successivo intervento umano. Ne ebbe, tra l’altro, chiara consapevolezza, sin dal 1792, Giuseppe Maria Galanti in viaggio per la Calabria tra marzo e luglio, il quale, giunto nella Certosa il 6 maggio, nel suo Giornale di viaggio ebbe modo di annotare: «Guasti meno del terremoto che degli uomini. […] I cadetti tolsero le catene che tenevano legate le fabbriche per venderle […] ed in seguito i Serresi per un poco di ferro rovinarono mura intiere. Senza l’indegnità di costoro l’edifizio sarebbe stato facile a riparare. – Nella chiesa si veggono belle colonne di marmi spezzate e buttate giù per la stessa cagione». Molte rovine spezzate del complesso conventuale certosino andarono a costituire l’amalgama, l’anima o il puntello di altri corpi di fabbrica, sia civili – circostanza che si può osservare ancora oggi – sia ecclesiastici, come per la chiesa dell’Addolorata di Serra dimostra puntualmente la documentazione archivistica. Si cominciò a predisporre una tecnologia del riuso che ebbe modo di esplicarsi in una doppia direzione: il riuso funzionale al puro e semplice fatto del costruire, come utilizzo di materiali “inerti” facili da prelevare; il riuso più “raffinato” in chiave estetica, senza alcuna finalità pratica, al servizio dell’abbellimento e della decorazione. In quest’ultimo caso, puttini lapidei o marmorei, colonne, frammenti di pavimento, guglie della chiesa conventuale hanno conosciuto nuove epifanie sulle facciate delle abitazioni o posti sulle colonne d’ingresso di giardini e corti.
Una dialettica di recupero e perdita, di memoria e oblio, ha caratterizzato, in realtà, con diverse gradazioni, l’intera gamma di oggetti “smarriti” della Certosa di Serra San Bruno. La tipologia di questi oggetti, intanto, comprende di fatto tutto ciò che del passato siamo soliti individuare come bene culturale: architetture, dipinti, sculture, libri, documenti d’archivio, manufatti pregiati (paramenti, calici, ostensori, reliquiari, vasi di farmacia) e meno pregiati. Le circostanze e le tipologie della loro sparizione sono altrettanto varie e si dispongono su un arco temporale che, presumibilmente, è da datare come termine iniziale nelle settimane successive alle scosse telluriche del febbraio-marzo 1783 e come termine finale agli ultimissimi anni del XIX secolo, prima che la riapertura al culto della chiesa conventuale della Certosa, il 13 novembre 1900, ne reintegrasse definitivamente l’osservanza monastica. Volendo utilizzare delle categorie empiriche, si può proporre una suddivisione in tre gruppi fondamentali: 1) Oggetti definitivamente smarriti (è il caso di importanti architetture del monastero – tra le quali il chiostro monumentale dal doppio ordine – o di opere d’arte come una tela In Cœna Domini attribuita a Michelangelo) 2) Oggetti spariti dal loro originario luogo certosino e ricollocati in altri contesti: si pensi allo straordinario ciborio di Cosimo Fanzago “rimontato” nella chiesa dell’Addolorata 3) Oggetti in un primo tempo “perduti” dalla Certosa, ma successivamente riacquisiti al patrimonio culturale del monastero (basti pensare al busto reliquiario argenteo di San Bruno di fattura cinquecentesca). Come si vede, un quadro che è ben lontano dalle definizioni assolute riguardo alle distruzioni causate dal terremoto settecentesco. La vicenda degli oggetti smarriti della Certosa, insomma, dovrebbe invitare a stare in guardia dai luoghi comuni e dalle idee ricevute, spesso stancamente ripetuti da una pubblicazione all’altra, con l’effetto, non certo raccomandabile, di risparmiarsi la fatica del controllo e della verifica e di evitare accuratamente lo sforzo di interrogarsi sulla verità storica.
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