La recente notizia sugli scavi archeologici che potrebbero interessare l’area di Santa Maria del Bosco impone, in qualche modo, di partire da lontano, per recuperare, almeno sul piano della ricostruzione storica, quegli eventi remoti dei quali tramite le indagini ipogee potrebbero emergere ulteriori tracce e nuove testimonianze. Intanto, ed è il primo dato da cui prendere le mosse, pressoché nulla si sa della configurazione dell’eremo della Torre a cui diedero vita, a far data dal 1091, Bruno di Colonia e i suoi primi compagni. Certamente da non trascurare è la cosiddetta “ipotesi dei tre ponti”, formulata da dom Basilio M. Caminada sull’esempio di quanto accaduto in altre certose e sulla base del presupposto che l’organizzazione del territorio dovesse obbedire alla regola di salvaguardare la scelta di vita contemplativa degli eremiti: «San Bruno organizzò la sua fondazione monastica: i padri vissero in silenzio e raccoglimento a Santa Maria, separati dal mondo per mezzo del fiume Ancinale e del Rio dei Sardi, i quali formano una clausura naturale. I monaci si servivano del ponte sul Rio dei Sardi […] per le necessarie commissioni, ed altri servizi di comunicazione (I ponte). I fratelli laici, conversi e donati, furono alloggiati presso il ponte di Santo Stefano, dove la strada verso Serra e Spadola attraversava il fiume Ancinale (II ponte). In quel luogo poterono darsi liberamente alle loro occupazioni, senza essere di disturbo per gli eremiti […]. Gli operai con le loro mogli si sarebbero stabiliti dietro il terzo ponte, ove il fiume Ancinale ed il torrente Garusi confluiscono. Oggi si trova a quel posto il Municipio di Serra. […]» (si veda: B. M. Caminada, La Certosa di Serra San Bruno. Scritti storici, a cura di T. Ceravolo, Monteleone, 2002, pp. 32-34). Tuttavia, nonostante la suggestione dell’ipotesi, tale configurazione non trova conferma in nessuna fonte, così come appare del tutto ipotetica la topografia dell’eremo della Torre con le celle collocate a ferro di cavallo intorno a un fossato, riportata in una mappa manoscritta del XIX secolo, che non risulta fondata su una solida documentazione storica, come già ebbe modo di notare dom Hyppolite Duvivier in una sua breve nota manoscritta del 1902. Indubbiamente meglio documentate, pur nelle incertezze dovute alla lacunosità delle carte medievali, sono le memorie riguardanti la depositio dei resti mortali di Bruno, che a Santa Maria della Torre concluse il suo transito terreno il 6 ottobre 1101 e a cui succedette Lanuino il quale, secondo un martirologio del XII secolo, morì il giorno 11 aprile del 1116 (e da qui la prossima celebrazione del nono centenario). La storia delle reliquie di Bruno e Lanuino, prima delle loro vicissitudini ottocentesche, si può compendiare in poche date fondamentali: le loro salme furono probabilmente per la prima volta riesumate nel 1122 da Lamberto, successore di Lanuino a maestro dell’eremo, e trasferite nell’altare della Chiesa di S. Maria. Qui furono rinvenute, secondo la tradizione locale, dal gentiluomo stilese Antonio De Sabinis, per essere successivamente trasferite nella Chiesa di S. Stefano del Bosco il terzo giorno dopo Pentecoste, dove, il 27 febbraio 1514, in occasione della “recuperazione” e in presenza di certosini e cistercensi, vi fu la prima ricognizione dei resti dei due patriarchi. La seconda ricognizione seguì a pochi mesi di distanza (3 novembre 1514) e il 1516 (ancora una ricorrenza pluricentenaria) venne documentato per la prima volta il busto argenteo che contiene il cranio di San Bruno, considerato dal Lipinsky una “mirabile” eccezione superstite dell’oreficeria rinascimentale a Napoli, della quale “rimase quasi nulla” (cfr. A. Lipinsky, Oreficeria e argenteria in Europa dal XVI al XIX secolo, Istituto Geografico De Agostini, 1965, p. 50). Le ossa di Bruno e Lanuino furono conservate in una cassa e parte del cranio di Bruno nel busto argenteo e lì rimasero fino al 1808, quando, a causa della soppressione bonapartista del monastero, il “sacro deposito” venne trasferito nella Chiesa Matrice di Serra. Se questo, appena riepilogato, è lo schema che la memoria storica ha, di fatto, cristallizzato, ponendo come centrale la translatio in occasione della Pentecoste, c’è, tuttavia, da aggiungere che la documentazione superstite non consente di accoglierlo in maniera del tutto sicura. In dissenso con la ricostruzione di Tromby, Dom Maurice Laporte, per esempio, ha creduto di proporre una diversa datazione delle vicende delle reliquie, così articolata: 1101: morte di San Bruno e sepoltura nel “cimitero degli eremiti a S. Maria”; 1101 (o 1122): trasferimento sotto l’altare della Chiesa di S. Maria della Torre; 1193 (all’atto del passaggio della Certosa ai cistercensi): trasferimento delle reliquie a S. Stefano sotto il pavimento della chiesa; 1502 (o 1508): trasferimento su un altare della Chiesa di S. Stefano. Come si vede, una storia movimentata, intessuta di dubbi e incertezze, carenze documentali e ipotesi in attesa di conferma, sulla quale, c’è da augurarsi, gli scavi potrebbero porre qualche punto fermo.
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